Comunità e sinodalità
2022/7, p. 40
Occorre mettere mano a un processo costituente, a partire dalle Chiese locali e dalle comunità cristiane sparse per il mondo, in modo di arrivare a una legge fondamentale capace di garantire significativi spazi di giurisdizione a ogni singola Chiesa locale.
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A PARTIRE DALLA CHIESA DEGLI ATTI
Comunità e sinodalità
Occorre mettere mano a un processo costituente, a partire dalle Chiese locali e dalle comunità cristiane sparse per il mondo, in modo di arrivare a una legge fondamentale capace di garantire significativi spazi di giurisdizione a ogni singola Chiesa locale.
Due anni di pandemia hanno toccato e cambiato il vissuto delle comunità cristiane. Anche per noi della parrocchia del Cuore Immacolato di Maria, alla periferia nord di Bologna, non è stato altrimenti. La realtà, si sa, talvolta è rapace – toglie affetti cari e riferimenti assodati che tengono insieme legami personali e comunità umane. Una prova comune di questi tempi, che ci permette di comprendere lo spaesamento e l’insicurezza di molti accanto a noi. Ed è in passaggi come questi che il riferimento alle Scritture si fa ancora più prezioso.
Prezioso perché esigente e, al tempo stesso, capace di far sentire la prossimità effettiva di Dio ai vissuti umani, al desiderio di costruire una forma di comunità che non catturi per sé la Parola annunciata, ma le offra come un appoggio affinché essa possa circolare nei territori della vita odierna. Dapprima, la morte di don Tarcisio, il nostro parroco, ci ha chiesto di applicare da noi quella leadership diffusa nella comunità che era stato il suo modo di esercitare il ministero della guida all’interno di essa. Per un anno abbiamo navigato a vista, tra elaborazione del lutto, memoria che si fa stile e abbozzo di un dopo dai contorni ancora incerti. Se abbiamo attraversato questo tempo, è perché ognuno di noi ha potuto appoggiarsi e fare conto sugli altri.
Gli Atti e il discernimento di una comunità cristiana
Poi, uno dopo l’altro: il richiamo di papa Francesco a un processo sinodale della Chiesa italiana, il Sinodo dei vescovi sulla sinodalità e l’ingresso di don Alberto, il nuovo parroco. Raccogliendo quanto emerso dalla verifica dell’anno prima, da un lato, e volendo dare spazio nella lectio divina anche a queste dimensioni più ampie dell’essere comunità cristiana, dall’altro, ci siamo orientati per una lettura continua degli Atti degli Apostoli. Lo abbiamo fatto perché sentivamo l’esigenza di confrontarci con la Scrittura laddove essa custodisce la memoria di comunità nascenti, che devono inventarsi il loro modo di essere coniugando insieme la tradizione da cui provengono e l’inedito che esse stesse rappresentano.
Non si nasce mai dal nulla, ma sempre da una storia. Ma ogni nascita rappresenta, per quella storia, una cesura che apre verso un futuro possibile che, senza di essa, non sarebbe nemmeno sorto all’orizzonte. Non si nasce mai da soli, ma dentro un tessuto di legami che ci introducono alla vita nel mondo e ci consegnano la prima sapienza necessaria a renderlo umanamente abitabile. Anche la Parola irrompe così nella storia umana, ed è sempre in cerca di compagni e compagne che la rilancino oltre le mura di una dimora che può essere sì confortevole, ma che proprio in questo rischia di ridurla a cimelio di una comunità settaria.
Lo Spirito, la testimonianza, le donne
C’è una forza dell’esperienza cristiana, plasmata dalla Parola che chiede di essere annunciata per poter essere custodita, che apre nella comunità nascente una breccia al suo interno rendendola costitutivamente ospitale di ciò che sta fuori di lei. Nella narrazione di Atti, questa forza di apertura ospitale è individuata nel dono dello Spirito a tutta la comunità riunita nel suo luogo proprio, familiare – soggetto di questo dono è la comunità nella sua interezza: gli apostoli e le donne che sono con loro (cf. At 2,1). La scena degli inizi, ispirata dall’investimento dello Spirito, abilita la comunità in quanto tale alla testimonianza di quel Gesù risuscitato da Dio (cf. At 2,32).
Il ruolo di Pietro, nel suo primo discorso alla folla, è quello del portavoce dell’esperienza comunitaria davanti a coloro che non ne fanno (ancora) parte. L’ascoltatore di Atti sa bene qual è la gerarchia lucana della testimonianza della risurrezione (cf. Lc 24): sono le donne per prime che riescono a cogliere nella mancanza (del corpo di Gesù) l’indice sufficiente del suo vivere altrimenti, nonostante la morte in croce – perché sono capaci di ricordare le parole di lui quando era ancora con loro (cf. Lc 24,8). Gli apostoli immemori, invece, non sono in grado di accedere alla testimonianza nel modo delle donne: Pietro si assume il compito di verificare la loro parola, rigettata in toto dal gruppo apostolico, e ne esce al massimo con uno stupore incapace di ogni confessione (cf. Lc 24,12). Dopo i due di Emmaus: mentre la loro esperienza continua a essere oggetto di discussione, e la confessione del Risorto non è ancora comunitaria, “Gesù stette in mezzo a loro” (Lc 24,36).
È proprio la Parola condivisa che genera la presenza del Signore in una comunità che continua a essere incredula, proprio perché incapace di fare memoria delle parole che Gesù condivise con loro. Quando Pietro, dopo Pentecoste, si alza con gli undici, la comunità che ascolta Atti sa bene che si tratta dell’ultimo arrivato alla testimonianza confessante della risurrezione di Gesù. E sa altrettanto bene che l’accesso alla fede pasquale del gruppo apostolico non fa altro che confermare la credibilità (e quindi l’autorità) della parola delle donne che esso non era stato capace di ascoltare.
Insomma, nelle scene della genesi della prima comunità di Gerusalemme accanto all’autorità apostolica, come in controluce, si profila una seconda autorità testimoniale: appunto, quella delle donne che erano con loro (e con Gesù, fino alla testimonianza della sua risurrezione – criterio comunitario per l’appartenenza al gruppo apostolico secondo At 1,21-22). Questa autorità testimoniale delle donne, che fa da sfondo a quella apostolica, è come evanescente, ma non di meno presente, nei primi capitoli di Atti.
E lo è a motivo della strategia narrativa che li organizza. La narrazione lucana della genesi della comunità di Gerusalemme è infatti centrata, da un lato, su quale sia la legittima autorità all’interno di Israele; e su questa base, dall’altro, sulla seconda offerta al popolo di Israele di riconoscimento del Messia promesso che è Gesù. La latenza dell’autorità testimoniale delle donne, che non risalta nel momento stesso in cui è affermata, è dovuta in parte anche a questa preoccupazione narrativa che organizza l’inizio di Atti come genesi della prima comunità discepolare a Gerusalemme (di cui anche le donne fanno parte).
Rimane fermo però che l’evento che abilita alla testimonianza è un fatto comunitario, e solo a partire da qui iniziano pian piano a delinearsi dei ruoli all’interno della comunità stessa. Ma il ruolo è secondario rispetto a ciò che lo Spirito genera nella comunità – appunto, una circolazione della Parola che non ha bisogno di alcuna uniformità culturale per poter essere colta nella operosità del suo messaggio (cf. At 2,7-11). Non solo il ruolo è secondario, ma in prima battuta non è neanche destinato alla comunità nascente, ma al suo esterno. Se è sì Pietro che parla alla folla dopo Pentecoste, egli lo fa però insieme agli altri apostoli e a rappresentanza di tutta la comunità. Qui non esercita alcun potere su di essa, ma la rappresenta al fine di poter rendere intelligibile alla folla il senso dell’esperienza comunitaria in cui anch’essa è stata coinvolta.
Dalla rappresentanza alla constatazione
Il ministero della rappresentanza, che si fa portavoce della destinazione testimoniale di tutta la comunità, non parla per sé ma a nome di quella stessa comunità – e non lo fa per se stessa, ma per declinare ad altri il senso di questa abilitazione comune alla testimonianza che deve essere resa al Risorto – prima a Gerusalemme, poi in Giudea e Samaria, e infine fino a tutti i confini della terra (cf. At 1,8). La parola del Risorto detta agli apostoli va oltre di loro e coinvolge, nel dono dello Spirito, tutti coloro che entrano a far parte della comunità nascente. Né il gruppo apostolico né la comunità possono trattenere per loro lo Spirito, nel momento stesso in cui esso è sigillo dell’appartenenza testimoniale alla comunità del Risorto. Pietro dovrà imparare sulla propria pelle cosa significa un ministero di rappresentanza che non può avanzare alcuna pretesa di proprietà su una Parola che desidera circolare liberamente ovunque, anche dove Pietro non vorrebbe che essa circolasse (cf. At 10). E così il ministero della rappresentanza comunitaria e testimoniale di un operare del Dio di Gesù nel tempo della sua mancanza si converte a essere semplice ministero della constatazione di una libertà dello Spirito che nessuna appartenenza può trattenere gelosamente per sé: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?” (At 10,47).
L’operosità efficace di Dio, che attraversa l’esercizio testimoniale di questo ministero della rappresentanza, può diventare per esso una fascinazione pericolosa quando messo di fronte alla potenza della sua ombra (cf. At 5,15): ed è proprio nell’eccedenza ingovernabile della Parola che Pietro è chiamato a riconoscere la differenza fra la testimonianza, che pur deve essere resa, e l’efficacia operosa dei gesti di Dio che si rende presente in essa – “anche io sono solo un uomo” (At 10,26), dovrà pur sempre confessare apertamente davanti a Cornelio.
Genesi di una comunità aperta
Come abbiamo accennato, quando Luca tratteggia i contorni della prima comunità di Gerusalemme è preoccupato di mostrare dove risiede la legittima autorità per il popolo di Israele. Ma egli sa bene che tra gli ascoltatori di questa parte iniziale di Atti oramai non vi sono più solo ebrei, ma anche pagani. Nel momento in cui cerca di chiarire le cose per i primi, quindi, non può dimenticare che anche i secondi sono in attesa di un riconoscimento della loro legittima appartenenza alla comunità del Risorto. In un qualche modo, dunque, egli è chiamato a mettere in scena un doppio registro del discorso: disseminando indici di alterità, e alterazione, all’interno di una configurazione iniziale (per la dinamica testuale interna degli Atti) della comunità nascente (oramai mista per ciò che concerne gli ascoltatori di Atti) ancora concentrata su una partita interna al popolo di Israele.
Fin dalla prima aggregazione, come esito dell’evento comunitario di Pentecoste, la nascente comunità di Gerusalemme, ancora osservante delle pratiche religiose di Israele, si caratterizza per un cosmopolitismo inusuale: i primi ascoltatori della Parola sono infatti ebrei della diaspora, che possono percepirla nella loro lingua materna. La lingua non è solo una tecnica del linguaggio, ma un mondo e un modo di abitare il mondo. La recezione della Parola non chiede quindi alcun sradicamento da questo universo familiare, intorno al quale si plasma l’abitabilità del mondo e le sue relazioni fondamentali: l’edificazione della nascente comunità credente va di pari passo e a braccetto con essa – pur nella sua esteriorità culturale rispetto all’ambiente in cui quella Parola risuona per mezzo del gruppo apostolico e delle donne che erano con loro.
È così che un fatto riguardante “giudei osservanti” (At 2,5) diventa significativo anche per i gentili che fanno parte della comunità del Risorto. Il mantenimento della differenza non pregiudica la coesione della nuova collettività che si va lentamente edificando. Né l’unità richiede una omologazione culturale che decontestualizza i vissuti effettivi dalla storia che li ha plasmati. Così, poco più avanti, quando Luca tratteggia il profilo della prima comunità individua nei beni collettivi e nella messa in comune del proprio, uno dei suoi tratti maggiori. Figura questa ideale per la politica della città greca, e quindi orizzonte comune alla koinè di allora, che viene innestata ad arte nella configurazione della prima comunità di Gerusalemme. Uno stile pratico di vita che risulta immediatamente comprensibile anche da parte di coloro che non ne fanno parte e che possono, in tal modo, apprezzare lo stimolo pubblico che essa rappresenta per la più ampia collettività umana.
Troviamo un’altra di queste inserzioni nei due episodi di chiamata in correo davanti al sinedrio (prima Pietro e Giovanni, poi tutto il gruppo degli apostoli). Quello che colpisce anche i membri del sinedrio è la parresia (franchezza/libertà di parola) mostrata da Pietro e Giovanni (cf. At 4,13)– anche qui, il modo di essere che caratterizza la fede testimoniale nel Risorto è descritto ricorrendo a un termine comune della tradizione filosofica cinica. Luca fonde insieme l’immagine profetica dell’esercizio apostolico della fede e un’immagine filosofica del modo di affrontare le dialettiche e le tensioni che possono sorgere nella piazza del vivere umano – dove la seconda può funzionare anche da decodificatore della prima per coloro che non erano culturalmente in grado di comprendere tutta la sua portata e il suo significato nell’orizzonte della tradizione biblica di Israele.
E poco più avanti, quando questa parresia diventa confessione testimoniale esplicita davanti al sinedrio, che marca la distanza fra le istituzioni religiose di Israele e la fedeltà messianica dei testimoni del Risorto, Pietro (e poi nella seconda scena gli apostoli tutti insieme) afferma il dovere religioso di obbedienza a Dio con parole che richiamano quelle pronunciate da Socrate davanti ai giudici ateniesi (cf. At 4,19 e At 5,29). La confessione del Risorto viene così inscritta nella tradizione dell’opposizione religiosa, in nome di Dio, al potere dei tiranni e dei despoti, rendendo intelligibile ben al di là di Israele dove si trova la giustizia desiderata da Dio.
Il collettivo
Grazie all’agire pubblico degli apostoli aumentano sempre più coloro che, come “credenti al Signore” (At 5,14), vengono aggregati alla comunità nascente – uomini e donne. Abbiamo visto come l’indice profetico di quell’agire è orientato alla conferma dell’autorità apostolica all’interno di Israele, che si impone nella sua legittimità davanti a quella delle istituzioni tradizionali del popolo eletto. La fine del precedente regime di autorevolezza religiosa è necessaria per la possibilità di includere Israele stesso nella comunità messianica del Risorto. Confermando così che la promessa di Dio fatta ai padri di Israele rimane tuttora valida e operante. Luca è attento a costruire agganci narrativi che consentano agli ascoltatori di cogliere come l’agire profetico di Gesù si renda ora presente nei gesti e nelle parole degli apostoli, a garanzia di un’offerta messianica dell’Alleanza che è più forte delle potenze del mondo e della religione.
E il riconoscimento dell’autorità degli apostoli da parte della nascente comunità si lega esattamente all’individuazione di questo transito della profezia messianica di Gesù, del suo farsi presente nonostante la dipartita di lui (cf. At 2,43). È proprio questo riconoscimento interno alla comunità che dà valore alla pretesa degli apostoli, nel confronto con le istituzioni religiose di Israele, di essere i legittimi rappresentanti del Dio della promessa e dell’Alleanza davanti a tutto il popolo eletto.
Se guardiamo ai due brevi sommari iniziali che descrivono la comunità del Risorto, ci accorgiamo che il peso della narrazione di Atti ricade sulla condivisione dei beni e sull’avere tutto in comune. Immagine di quel collettivo a cui aspirava l’ideale dell’amicizia come forza politica nell’edificazione della polis greca. Insomma, come abbiamo già accennato, il tratto distintivo del vissuto comune del collettivo che nasce con la Pentecoste dice immediatamente qualcosa di significativo per tutta la koinè del tempo: “per un momento, la primitiva comunità di Gerusalemme realizza gli ideali più alti dell’ellenismo e del giudaismo per ciò che concerne la vita comune” (L.T. Johnson). La funzione apostolica all’interno della prima comunità si lega esattamente alla custodia del collettivo comunitario: “Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno” (At 4,34-35).
Insomma, tutto sembra ruotare intorno a pratiche collettive – e anche Pietro, come portavoce della comunità, non è mai solo quando prende la parola. Ed è interessante notare che se nel primo discorso davanti al sinedrio, dove compare insieme a Giovanni, è solo lui a parlare, nel secondo è tutto il collettivo apostolico che fa proprio il discorso socratico delle doverosa obbedienza a Dio come resistenza e opposizione al potere costituito.
Una conferma della centralità del collettivo, con le sue pratiche di messa in comune e condivisione, la troviamo anche nel drammatico racconto del sotterfugio architettato da Anania e Saffira – che cercano di dare una parvenza di condivisione, ma rimangono attaccati al possesso privato. Imbrogliare, quando ne va del collettivo, sancisce la morte dell’appartenenza comunitaria di chi se ne rende colpevole (cf. At 5,1-11). Di contro, l’onestà nella partecipazione collettiva dei beni, come esemplarmente fa Barnaba (cf. At 4,36-37), diventa poi garanzia della sua parola di fronte alla comunità di Gerusalemme quando diventerà compagno di Paolo nella missione ai gentili – garanzia a favore di Paolo e di una circolazione della Parola che ha oramai varcato i confini del giudaismo dell’epoca.
La salvaguardia del collettivo non è cosa facile, e ben presto anche la comunità nascente conosce tensioni significative in merito (tra cosmopolitismo dell’appartenenza e radicamento nella tradizione ebraica) nell’episodio dell’assistenza delle vedove di lingua greca (cf. At 6,1). Questa crisi del collettivo non viene però risolta ex auctoritate dagli apostoli; al contrario, la loro autorità interna si esercita esattamente nella forma di una convocazione del collettivo stesso a cui viene conferito un potere deliberativo sulla questione (cf. At 6,2).
Ma qui ci dobbiamo confrontare con un paradosso di cui generalmente non si coglie a dovere la portata. Siamo abituati a leggere la cosiddetta istituzione dei sette come origine di un ministero diaconale nella comunità cristiana. In realtà si tratta di una lettura impropria, perché “vi è una discrepanza fra ciò che la storia sembra dire e ciò che accade effettivamente nella narrazione” (L.T. Johnson). La storia sembra dire della necessità di risolvere un problema pratico che minaccia la coesione del collettivo, ma la narrazione dice ben altra cosa: perché né Stefano né Filippo (i due dei sette di cui si racconta qualcosa in Atti) eserciteranno un ministero di servizio e assistenza quotidiana all’interno della comunità nascente. Quello che è qui in gioco è niente di meno che la continuità dell’autorità profetica di un ministero apostolico a partire dalla comunità cristiana. Stefano è una figura chiave nello snodo della circolazione della Parola tra Gerusalemme e la diaspora, mentre Filippo porterà la Parola in Samaria (cf. At 8,5) e la annuncerà all’etiope (cf. At 8,29). È con loro che la Parola inizia a conoscere quegli allargamenti promessi e ingiunti dalla parola del Risorto.
In questo punto di svolta, così delicato e decisivo per il futuro della Parola e della comunità su cui essa si appoggia, l’individuazione delle persone adatte a ricevere un ministero profetico è affidata al collettivo comunitario – il conferimento spetterà poi agli apostoli con l’imposizione delle mani. Ma il conferimento non fa altro che confermare coloro che la comunità, in un atto deliberativo e altrettanto profetico, porta davanti agli apostoli. Partita come una crisi del collettivo, la narrazione arriva a delineare il quadro di una crisi del ministero profetico degli apostoli stessi: un momento in cui si decide di esso guardando al futuro e a quegli ampliamenti richiesti affinché la Parola possa circolare. Crisi che non si risolve mediante un atto apostolico, ma al contrario attraverso un atto del collettivo credente che permette al ministero profetico degli apostoli di andare oltre loro stessi.
Comunità e sinodalità
Sono innumerevoli gli spunti che una comunità cristiana come la nostra parrocchia, ma anche la Chiesa più ampiamente, può cogliere nel suo lavoro di discernimento su come andare oltre la propria storia senza scordarsi di essa, anzi rimanendole fedele proprio perché cerca di attualizzarla in contesti che la trasformano e la alterano. Ne riprendo solo alcuni che mi sembrano essere più urgenti in questo momento in cui ogni comunità e ogni Chiesa locale sono chiamate a mettere in atto processi sinodali, dai quali potranno emergere gli assi portanti di una sinodalità quale forma fondamentale e normativa della Chiesa cattolica.
Non si può che partire dagli inizi, da quell’evento dello Spirito che apre la prima comunità dei discepoli e delle discepole del Signore verso un futuro che forse neanche lei osava immaginare. Perché questo evento dichiara che la comunità è soggetto proprio e portante di quello che deve essere l’assemblea dei credenti al Signore e dei ministeri al suo interno. Senza riconoscimento di questo principio normativo, che si attua non solo in pratiche collettive (che rimangono fondamentali) ma anche nella loro organizzazione istituzionale, la sinodalità rimarrà solo una parola cosmetica il cui fine è quello di rendere un po’ più sopportabile un modo sostanzialmente classista (e maschilista) di concepire la Chiesa cattolica.
Pensare la comunità come soggetto proprio della circolazione di una Parola che va sempre oltre di essa, e così la sorprende con quegli ampliamenti che le impediscono di arroccarsi in una mera difesa di sé, comporta un ribaltamento del nostro modo di pensare e vivere i rapporti interni nella Chiesa – abbandonando definitivamente quella ingegneria pastorale che sacrifica il vissuto effettivo delle comunità in nome di una apparente preservazione canonica e giuridica del ministero ordinato. Per preservarlo in questa forma, ossia per non metterne in discussione il potere che gli è stato storicamente conferito, rischiamo di ottenere de facto un ministero ordinato senza comunità reale di riferimento, snaturandone così la sua funzione che proprio a quella lo destina.
È a mio avviso più semplice coinvolgere alcuni rappresentanti del popolo di Dio nella nomina del vescovo che dare rilievo istituzionale a questo essere-soggetto primo della comunità credente. Ma senza risolvere la seconda questione anche la prima si ridurrebbe a un’operazione di cosmesi senza nessun reale impatto sulle procedure e politiche decisionali nella Chiesa cattolica. E mi rimane il sospetto che i tanti laici che aspirano a prendere la parola in sede di nomina del vescovo pensino ancora la Chiesa come una istituzione verticistica, dove una volta conquistato l’apice ne consegue per cascata una trasformazione delle relazioni di base. Un simile modo di pensare nega a mio avviso in radice quella soggettualità propria che pertiene alla comunità cristiana in quanto tale.
Non si tratta solo di mettersi in ascolto delle comunità, come atto di grazia regale concesso da un potere ecclesiastico che ne potrebbe anche fare a meno, ma di istituire quell’autorità deliberativa che spetta alla comunità in quanto soggetto proprio del dono dello Spirito e appoggio costitutivo della circolazione della Parola. L’evidente sfiducia del potere ecclesiastico nei confronti della comunità cristiana, per cui un piccolo cerchio di eletti (siano essi chierici o meno) sa meglio di essa ciò che è evangelicamente bene per lei, si rivela essere in realtà una sfiducia dichiarata nei confronti dello Spirito (e del suo discernimento) – ricordo, a margine, che Gesù è particolarmente severo nei confronti dei peccati contro lo Spirito.
Il sentire credente della comunità, peraltro arginato dogmaticamente da ogni lato per renderlo innocuo e inoperoso rispetto al potere ecclesiastico costituito, non può rimanere il pio auspicio di un pontefice un po’ strambo, ma deve diventare un vero e proprio istituto che plasma la Chiesa nella sua configurazione istituzionale – e lo può diventare solo mediante pratiche che ne attivino la sua efficacia per la Chiesa tutta. Un simile istituto non è un mero luogo di conferma del sentire del ministero ordinato e apostolico nella Chiesa, ma la sua fonte ispiratrice che mette davanti a quel ministero quelle che sono le esigenze evangeliche della comunità. L’episodio dell’istituzione dei sette è esemplare in merito. È la comunità a sentire la necessità dell’invenzione di un ministero di servizio quotidiano e, seguendo la strategia narrativa lucana, è alla fin fine sempre la comunità (e non i dodici) a sentire l’esigenza di garantire continuità al ministero profetico degli apostoli. E alla comunità gli apostoli si rimettono, riconoscendo che quell’esigenza è normativa anche per loro – ed è per questo che la convocazione della comunità coincide con un’autorità deliberativa che spetta a lei in un tornante decisivo per la sua configurazione futura.
Senza l’istituzione della soggettività propria della comunità, con le competenze che questo comporta, non è possibile mettere mano efficacemente alla questione della strutturazione gerarchica e dell’esercizio del potere nella Chiesa. I concetti hanno una storia, ed è un’illusione pensare di continuare a usarli senza che essi trascinino con sé quella storia e il modo di organizzare il vivere umano o il quadro di una comunità credente che essa ha configurato per secoli. Qualcosa del genere accade quando il Vaticano II, soprattutto nella sua versione espressa dal Codice di diritto canonico del 1983, continua a usare il termine di costituzione gerarchica per indicare natura e strutturazione fondamentale della Chiesa cattolica.
Se da un lato il concetto di costituzione gerarchica ha il merito di essere immediatamente intellegibile, dall’altro esso è ben lontano dall’immaginario neotestamentario di un ministero di rappresentanza/presidenza della comunità cristiana. Per quanto imbastito dentro l’abbozzo di una ecclesiologia del popolo di Dio e di comunione, il concetto di costituzione gerarchica della Chiesa continua a operare al suo interno portandosi dietro tutte le incrostazioni che la storia ha lasciato su di esso: tanto da sembrare più una figura giuridica, derivata dalla dialettica con la modernità al tempo dell’assolutismo politico, che una propriamente teologica. In fin dei conti, ci scostiamo ancora poco dalla visione di Bellarmino della societas perfecta inequalis – che, però, tendeva a garantire l’autonomia della Chiesa davanti alla pretesa egemonica del potere politico, nel momento stesso in cui si modulava specularmente su di esso, più che a pensare teologicamente la costituzione della Chiesa cattolica e l’esercizio del potere al suo interno. E se allora non scandalizzava affatto l’omologia speculare fra potere ecclesiastico e potere politico, anzi diventava addirittura il principio dell’architettura giuridica della Chiesa stessa, oggi non dovrebbe apparire operazione in radice eretica una modulazione della configurazione della Chiesa che attinge anche al modo in cui viene gestito il potere nel sistema democratico.
Per quanto possa apparire sorprendente, è oramai evidente che non basta il richiamo al Vangelo e alle Scritture per assorbire debitamente queste incrostazioni storiche a riguardo della costituzione della Chiesa cattolica. La loro normatività sembra funzionare poco (e male) in questo settore decisivo dell’ecclesiologia cattolica – e di fatto vale tuttalpiù come pia esortazione morale, che non riesce però a incidere nell’organizzazione complessiva del corpo istituzionale della Chiesa. Credo che sia giunto il momento in cui teologia e diritto devono riprendere in mano la questione della stesura di una carta costituzionale (lex fundamentalis) della Chiesa cattolica – cassata negli anni che vanno dal Concilio al Codice di diritto canonico in nome dell’affermazione militante del Vangelo come legge fondamentale della Chiesa. Funzione, questa, che né le Scritture del Nuovo Testamento né il Vangelo possono ottemperare, perché non è nella loro natura. Se l’ostacolo per una rifondazione evangelica della Chiesa, a cui dovrebbe approdare il Sinodo dei vescovi sulla sinodalità, è di carattere giuridico, allora è a questo livello che è necessario intervenire, sulla scorta di una teologia avveduta della questione, per rimuoverlo e creare spazi di effettiva sinodalità anche nella Chiesa cattolica.
Da questo dipende anche la possibilità di una riformulazione dell’esercizio del potere nella Chiesa, alla quale bisogna però mettere mano con urgenza almeno con degli aggiustamenti provvisori e non ancora stabilizzati. Ed è in questo ambito che molto può dare il riconoscimento dell’autorità delle donne all’interno della comunità credente. Non solo per il fatto della differenza di genere, che avrebbe comunque il pregio di iniziare a corrodere la compattezza maschilista delle decisioni ecclesiali e delle procedure mediante le quali si arriva a esse; ma soprattutto perché rappresentano una parte di comunità cristiana messa ai margini, se non al bando, dal potere ecclesiastico – continuando a confessare la loro fede e a sentirsi parte della Chiesa nonostante questo. Quella delle donne è una (forse la più esemplare e facilmente individuabile) delle molte autorità marginali che dovrebbero essere convocate al ripensamento delle pratiche e procedure di potere nella vita della Chiesa cattolica.
Senza questa convocazione, che dia spazio alle loro autorità, ogni approccio ecclesiastico volto a ridisegnare il modo di esercitare e gestire il potere nella Chiesa non ha nessuna possibilità di riuscita – e non sarebbe altro che una cortina fumogena creata ad arte per nascondere il fatto che non si vuole cambiare nulla. In merito, credo che possiamo tutti e tutte apprendere qualcosa dalla cura faticosa che Luca mette nella strategia narrativa degli Atti per evitare ogni tentazione sostitutiva (ossia, di fare della nascente comunità cristiana il sostituto di Israele). Non si tratta infatti di sostituire un potere maschile, oramai evidentemente corroso e corrotto, con uno femminile ritenuto ipoteticamente immune da ogni possibile deriva nel suo esercizio – come se ci fosse una sorta di immunità di genere rispetto alla perversione del potere.
Si tratta piuttosto di convocare le autorità della fede emarginate ed escluse dalla gestione ecclesiastica del potere a giudicare il suo esercizio come punto di innesto per iniziare a elaborare insieme nuove pratiche di potere nella comunità dei molti fratelli e sorelle nel Signore. Pratiche che stanno sotto il giudizio e la verifica di chi il potere lo ha subito per secoli e può quindi dire qualcosa di significativo sugli effetti e conseguenze della sua perversione.
Detta in altre parole, dobbiamo impegnarci a trovare forme di esercizio collettivo del potere ecclesiastico, che non siano modulate sulla e limitate dalla costituzione giuridico-gerarchica della Chiesa cattolica. Sulla base di queste pratiche collettive germinali potrà innestarsi il lavoro della teologia e del diritto per imbastire una non più prorogabile carta costituzionale della Chiesa cattolica, intrisa dei valori fondamentali del Vangelo, che tratteggi le coordinate fondamentali delle pratiche di potere nella Chiesa cattolica, contenendole al tempo stesso entro limiti che nessun soggetto ecclesiale può valicare. Mettere mano a questo processo costituente, a partire dalle Chiese locali e dalle comunità cristiane sparse per il mondo, in modo di arrivare a una legge fondamentale capace di ospitare le diverse declinazioni della cattolicità della Chiesa, ossia garantendo significativi spazi di giurisdizione a ogni singola Chiesa locale, rappresenterebbe una pratica sinodale di cui abbiamo tutti urgentemente bisogno – anche fuori della Chiesa cattolica.
MARCELLO NERI