Pangrazzi Arnaldo
L’invidia ulcera dell’anima
2022/7, p. 31
È Socrate che ha definito l’invidia “ulcera dell’anima”, in quanto questo sentimento consuma la persona, ne spegne la vitalità e ne disperde le energie feconde.

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MANIFESTAZIONI DELLA FRAGILITÀ UMANA
L’invidiaulcera dell’anima
È Socrate che ha definito l’invidia “ulcera dell’anima”, in quanto questo sentimento consuma la persona, ne spegne la vitalità e ne disperde le energie feconde.
Prospettiva biblica
Leggendo la Bibbia riscontriamo tanti episodi di invidia, a cominciare dalla tentazione dei nostri progenitori di voler essere come Dio “per l’invidia del diavolo la morte entrò nel mondo” (Sap 2, 24).
L’invidia porta al primo omicidio della storia: Caino, invidioso del fratello prediletto da Dio, lo uccide (Gen 4, 3-8).
L’invidia di Esaù verso Giacobbe lo porta a seminare discordia in famiglia.
I fratelli di Giuseppe, invidiosi che era il beniamino del padre, tramano inizialmente di ucciderlo e poi lo vendono agli Ismaeliti (Gen 37,11).
Saul perseguita Davide perché è invidioso dei suoi successi (1 Sam 18,25).
I farisei sono invidiosi di Gesù e lo consegnano a Pilato perché venga giustiziato (Mc 15,10).
Fotografia di un’emozione pungente
È Socrate che ha definito l’invidia “ulcera dell’anima”, in quanto questo sentimento consuma la persona, ne spegne la vitalità e ne disperde le energie feconde.
Invidia, etimologicamente, proviene da in-videre che significa guardare con occhio cattivo, malevolo o ostile.
Dante, nel dodicesimo canto del Purgatorio, dipinge gli invidiosi con occhi cuciti.
Questo sentimento rimane profondamente radicato nella natura umana. Lo sperimentano i bambini e gli adulti; emerge nella famiglia, nella scuola e nella chiesa; colpisce l’ambito economico, artistico, relazionale, finanziario e spirituale.
Da una parte, l’invidia rientra tra le manifestazioni della fragilità umana e in sé non è peccato, ma se alimentata o coltivata, può diventare distruttiva e seminare divisione.
Questo stato d’animo viene innescato da una varietà di circostanze; quali: la ricchezza dell’altro, il suo terreno, la sua casa, la bellezza del coniuge, le sue abilità comunicative, i suoi ruoli sociali, la sua fortuna, la sua personalità, le sue doti morali, i riconoscimenti che riceve o i successi che consegue, le sue condizioni di salute, le sue amicizie e così via.
In una parola tutto ciò che un altro considerato rivale ha, conosce o gode può scatenare i “morsi dell’invidia”.
Questi “morsi” sono evidenti anche nelle associazioni parrocchiali e nelle comunità religiose, in particolare femminili, quando la consorella invidiata diventa oggetto di pettegolezzi e malignità, quando non di vera e propria diffamazione.
Motivi sprigionanti
L’invidia è uno dei sette vizi capitali ed è associata al tormento avvertito nei confronti di chi ha conquistato beni o possiede doti che l’invidioso desirerebbe avere.
Chi è roso da questo sentimento prova disagio nel vedere che altri siano riconosciuti, ammirati, famosi, mentre lui/ lei resta nell’ombra, per cui nutre astio nei confronti dell’invidiato.
Pur essendo una dinamica frequente, pochi la confessano, provando vergogna o imbarazzo nel riconoscerla.
In qualche contesto meno competitivo si è disposti ad assumere questo sentimento, con espressioni, quali: “Che invidia mi fai!”; oppure “Invidio le tue capacità di risolvere con calma situazioni che per me sono drammatiche”. Queste confessioni nascono dal riconoscimento dei propri limiti e dall’ammirazione per le doti altrui, per cui si parla di una “sana invidia” che non incrina o lede le relazioni, ma piuttosto afferma l’altro cercando di emularne l’esempio.
Più spesso, però, questa emozione corrode dentro e compromette i rapporti con le persone invidiate.
Il terreno su cui si fonda questo stato d’animo è il proprio senso di inferiorità, la scarsa fiducia in se stessi.
Napoleone diceva che “l’invidia è una dichiarazione di inferiorità”.
Il soggetto parte da una base di autosvalutazione e tende a paragonarsi ad altri considerati più bravi, fortunati o felici.
La consapevolezza di ciò che manca in sé e di ciò che l’altro possiede spinge a criticare e denigrare l’antagonista.
In pratica, l’invidioso rimane avvolto in un circolo vizioso che parte dal discredito personale, si misura con chi ha conseguito la prosperità, la felicità o la popolarità e se ne rammarica, attribuendo al bene dell’altro la causa del proprio patire.
Theodore Roosevelt suggeriva che “Il paragone è il ladro della gioia”.
La rivalità, se non è illuminata dalla ragione e dalla saggezza, trascina l’invidioso in un vortice di calunnie e maldicenze nei confronti dell’altro, quando non a goderne delle sventure.
L’obiettivo evidente o mascherato è di distruggere l’altro, fare terra bruciata attorno a lei/ lui, per controbilanciare le pene ingiuste sofferte per causa sua.
Ovviamente all’ombra di questo stato d’animo si cela la frustrazione e la delusione per le proprie aspirazioni disattese, ma anche il soggiacente bisogno di riconoscimento.
In qualche modo il proprio patire invoca il diritto di mettere in cattiva luce o di detestare chi si ritiene abbia contribuito alla propria infelicità.
Il sale sulla piaga
Alla base dell’afflizione dell’astioso risiede una distorta percezione di sé con la frequente tendenza ad idealizzare la persona invidiata cogliendone gli aspetti migliori, ma ignorandone i limiti.
Il processo di antagonismo si snoda lungo le seguenti tappe: inizialmente il desiderio di ciò che manca suscita dispiacere e tristezza, poi si trasforma in frustrazione e rancore, quando non induce atteggiamenti di disprezzo e screditamento nei confronti di chi rivela le proprie carenze e inadeguatezze.
La sofferenza si acutizza all’ombra di un confronto in cui si esce perdenti e si manifesta sotto forma di spiacevoli conseguenze: disturbi al fegato, paralisi dell’azione, relazioni travagliate, stress cronico, comportamenti disfunzionali. L’insoddisfazione si traduce con frequenza in atteggiamenti autolesivi, quali: isolamento sociale, blocchi energetici, ansie e depressione e, talvolta, abuso di alcol e sostanze nocive.
In una parola, gli effetti dell’invidia cosiddetta “patologica” agiscono sul corpo, sottraendogli vigore; sulla psiche, privandola della gioia; sulla mente, imprigionandola nell’amarezza e sullo spirito, turbandone la pace.
Percorsi costruttivi
La presenza dell’invidia invoca una lettura della vita non interpretata come una gara da cui si esce vincenti o perdenti.
Questo sentimento richiede, innanzitutto, consapevolezza e accoglienza, in quanto espressione della propria umanità e dei propri limiti.
In secondo luogo, un sano processo di introspezione e auto-confronto chiarisce il significato di questa emozione e su ciò che trasmette, per quanto concerne i propri bisogni, aspirazioni e valori.
In terzo luogo, l’invidia verso ciò che manca induce a migliorarsi, traendo stimolo dal bene desiderato.
Infine, un saggio percorso consiste nel contrastare credenze disfunzionali che portano ad auto-svalutarsi per idealizzare ciò che difetta, educandosi a valorizzare ciò che si è e si ha.
Questo allenamento mentale contribuisce a stemperare questo stato d’animo e a consolidare la propria fiducia.
In effetti, il rimedio migliore per ridimensionare l’invidia è di coltivare una giusta autostima che si fonda su un’equilibrata percezione di sé, oltre alla capacità di sperimentare appropriate fonti di realizzazione e gratificazione.
Di conseguenza, l’invidia potrebbe diventare un incentivo per canalizzare meglio la propria energia e scoprire spazi di realizzazione esistenziale, massimizzando le proprie potenzialità.
La maturità si manifesta nella capacità di dilatare lo sguardo nella consapevolezza che “L’amore guarda attraverso un telescopio, l’invidia attraverso un microscopio” (Josh Billings).
A conclusione la saggia riflessione di William Arthur Ward:
Benedetto colui che ha imparato ad ammirare,
ma non invidiare,
a seguire ma non imitare,
a lodare ma non lusingare,
a condurre ma non manipolare”.
P. ARNALDO PANGRAZZI, M.I.