Roggia Beppe
Forzare l’alba perché il sole torni a splendere
2022/5, p. 1
«Bisogna forzare l’alba credendo in essa... È bello che nella notte crediamo nella luce, perché la notte sta finendo e il sole torna a risplendere». Queste parole che il sindaco santo di Firenze, Giorgio La Pira, diceva nell’immediato dopoguerra, sono state riprese da don Beppe Roggia nelle sue conclusioni al Convegno di Collevalenza “C’è dell’oro in queste ferite. Traumatizzati o trasformati? La Vita Consacrata durante e dopo il Covid-19”.

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Forzare l’albaperché il sole torni a splendere
«Bisogna forzare l’alba credendo in essa... È bello che nella notte crediamo nella luce, perché la notte sta finendo e il sole torna a risplendere». Queste parole che il sindaco santo di Firenze, Giorgio La Pira, diceva nell’immediato dopoguerra, sono state riprese da don Beppe Roggia nelle sue conclusioni al Convegno di Collevalenza C’è dell’oro in queste ferite. Traumatizzati o trasformati? La Vita Consacrata durante e dopo il Covid-19”. Se allora il riferimento diretto era a quella sorta di tsunami che, entrato nelle nostre vite, aveva travolto tutto e tutti, e che aveva il nome di Covid-19, quelle parole possono e devono trovare spazio tanto più oggi, travolti come siamo da immagini di distruzione e di morte che l’invasione russa dell’Ucraina continua a portare dentro le nostre stesse comunità religiose. Dando conto in queste pagine di alcuni estratti della Tavola rotonda, cui hanno preso parte le Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth di Brescia, i Frati Minori Cappuccini di Viterbo e le Suore Apostoline di Castel Gandolfo, nella quale sono state condivise le esperienze vissute durante la pandemia, vogliamo auspicare che analoga forza e fantasia resiliente possa suggerire alla vita religiosa nuove risposte per essere segno e profezia di dialogo, di comunione e di pace.
Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth - Brescia
Siamo state colte all’improvviso dall’inizio della prima ondata, a marzo. Eravamo pronte per celebrare il nostro XIV Capitolo Generale, le sorelle dai vari Paesi erano giunte a fine febbraio nella Casa Madre, a Brescia. Avevamo già ridotto all’essenziale il programma. Il Capitolo, che doveva durare due settimane, in realtà lo chiudemmo dopo soli due giorni per riaprirlo a distanza di un mese. Subito dopo l’apertura del Capitolo, infatti, le sorelle capitolari, comprese tutte le sorelle del consiglio generale, hanno iniziato ad ammalarsi e il Covid, che ancora non conoscevamo, ha messo a letto in pochissimi giorni tutte le sorelle di Casa Madre, infermiere comprese. Il personale che si occupa della cucina, delle pulizie e in parte dell’infermeria è rimasto a casa nell’arco di 24 ore. Eravamo agli inizi di marzo. Le istituzioni non erano pronte a far fronte a questa grande e improvvisa emergenza, i nostri ospedali erano strapieni e le sorelle anziane non hanno potuto essere ricoverate. Non avevamo alcun presidio necessario, né tute, né mascherine... In poco più di un mese sono nate al Cielo 10 sorelle di Casa Madre e una sorella capitolare, insieme a quasi una decina di nostri genitori, senza contare gli amici.
In questa situazione sconvolgente, che ci appariva surreale, dove il tempo era solo l’istante presente e non sapevamo se saremmo arrivate a sera, è emersa la nostra verità: certamente la fragilità ma anche dell’oro, anzi dei filoni d’oro. Il primo filone d’oro - il primo a sgorgare e il più importante - è quello dell’aiuto reciproco tra noi sorelle. Sospeso il Capitolo, che stavamo celebrando, tutte le nostre energie si sono concentrate sull’organizzare… un ospedale da campo. Tre sorelle capitolari e una sorella giovane si sono messe in cucina; altre sorelle si sono organizzate per comunicare il menù alle malate, che potevano chiedere delle variazioni; altre ancora hanno pensato a mettere a punto i turni di pranzo e cena per avere il distanziamento necessario, e la distribuzione del cibo in modo d’avere meno spostamenti di persone possibili.
Una giovane professa, dapprima molto spaventata, si è messa in lavanderia, imparando le procedure per lavare la biancheria che usciva dalle camere delle malate e organizzando la distribuzione veloce della biancheria pulita. Intanto si provvedeva alla sanificazione delle camere, la distribuzione delle medicine, la misurazione della temperatura e della saturazione dell’ossigeno nel sangue: tutto in modo da non entrare mai in camera. La domenica arrivava anche Gesù: in un piattino del caffè, chiuso da un secondo piattino e deposto davanti alla camera.
Poiché il morale a volte scendeva, anche per la morte di alcuni genitori che non abbiamo potuto né vedere, né accompagnare al cimitero, alcune sorelle si sono inventate momenti di preghiera fuori dalle camere delle malate e momenti ricreativi nel parco che le malate potevano vedere affacciandosi alla finestra della camera.
Una postulante appena laureatasi in scienze infermieristiche, che si era resa disponibile per dare il suo aiuto in Casa Madre, si è trovata davanti alla morte per la prima volta, confortata e sostenuta ogni sera per telefono dalla maestra, anch’essa ammalata. Non potendo vestire, secondo le disposizioni ricevute, le sorelle defunte, dopo una prima reazione negativa, ha detto: «Le nostre sorelle defunte sono state sepolte avvolte in un lenzuolo, come Gesù nel sudario».
Un secondo filone d’oro è la grande solidarietà che abbiamo ricevuto, da parte di molti. Dal dottore che ci ha spiegato tutte le procedure da mettere in atto, alla provvidenza che ci ha raggiunto tramite la protezione civile, la Caritas, oltre i tanti sacerdoti e laici, che in molti casi neppure conoscevamo. Una mattina ho ricevuto la telefonata di Roberto, un uomo di Torino che non conoscevo e che ancora non ho visto. Mi ha detto: ho saputo della vostra situazione da mio figlio che abita a Brescia. Ditemi che cosa vi serve e ve lo porto. Il giorno dopo ci ha portato alle 6 di mattina in Casa Madre mascherine, tute, visiere, alcool, cloro. I padri OMI, nostri amici, ci hanno consacrato tutte le particole che avevamo in casa. Così abbiamo potuto avere la comunione tutti i giorni. E poi, la farmacista ci portava i farmaci, il panettiere il pane, il fruttivendolo frutta e verdura…
Ci siamo anche chieste come poter dare il nostro contributo alla società, che stava soffrendo. E, sia pure con poche energie, abbiamo potuto aiutare anche noi, soprattutto attraverso il nostro lavoro, in smart working o rendendoci disponibili, quando lo abbiamo potuto, a distribuire viveri e medicinali a quanti erano in quarantena, e organizzando momenti di preghiera on line.
L’ultimo filone d’oro è più personale, è l’esperienza fortissima che ho fatto del Signore. Il tempo per pregare in quei giorni era pochissimo: la mia preghiera era un guardare il Crocifisso che avevo in camera e dire “Signore salvaci!”. Molte volte non riuscivo a finire le lodi perché il telefono iniziava a squillare presto. Mi ha molto aiutato partecipare alla Messa di papa Francesco trasmessa provvidenzialmente in televisione. In questo tempo di morte e tensione il Signore mi ha dato forza, salute, coraggio, luce per prendere le decisioni giuste. Sì, posso dire con certezza che nello tsunami che abbiamo vissuto, il Signore non mi ha lasciata sola, non ci ha lasciate sole!
Frati Minori Cappuccini – Viterbo
È noto che la vita dei cappuccini è stata sempre caratterizzata da una spinta eremitica e un forte afflato apostolico fin dalle sue prime origini, ma quello che è accaduto nella fraternità di Viterbo nei mesi di ottobre-novembre 2020 è più assimilabile all’eremitismo certosino: da domenica 18 ottobre, infatti, il convento è rimasto praticamente chiuso fino alla prima domenica di Avvento. Nessun via vai di persone alla portineria, né alla chiesa conventuale generalmente aperta nell’intero arco della giornata. Tutto, infatti, è rimasto sospeso nell’attesa che passasse l’ondata dei contagi da Covid-19. Dei 21 frati presenti in convento (su un totale di 23 residenti), ci siamo progressivamente ammalati in 18, chiusi in isolamento nelle rispettive cellette, accuditi dai soli 3 confratelli rimasti incolumi che hanno trascorso le loro giornate tra fornelli, disinfettanti e un continuo saliscendi di scale per dispensare i farmaci e il vitto. Nonostante il da fare non mancasse per i pochi fratelli sani rimasti attivi, la giornata ha mantenuto la sua struttura consueta di preghiera, trasmessa col supporto informatico, per cui dalle rispettive cellette ciascuno poteva collegarsi col gruppo che pregava in cappella. Anche le lezioni svolte presso l’Istituto filosofico-teologico San Pietro, non sono venute meno, ma hanno avuto continuità con la didattica a distanza. Quando tutto sembrava apparentemente scorrere nella tranquillità pur della condizione anomala di segregati, gli ordinari sintomi influenzali si sono trasformati per alcuni in dispnea e febbre alta, e questo era il chiaro segnale che il virus stava aggredendo con maggior virulenza e gravità. Tra i quattro confratelli che hanno avuto bisogno di ricovero ospedaliero, fra Dorian è stato il caso più grave: ricoverato il 20 ottobre nel nosocomio “Belcolle” di Viterbo, vi ha trascorso tre mesi di degenza – di cui un mese e mezzo in terapia intensiva – e altri due mesi nella clinica san Raffaele alla Pisana a Roma per la riabilitazione motoria. La nostra attenzione si è focalizzata su di lui, soprattutto si è levata una preghiera incessante, da parte di un innumerevole gruppo di persone, abbiamo temuto il peggio, ma il miracolo è avvenuto e fra Dorian Soru è tornato in mezzo a noi sano e salvo. Ma ora lascio raccontare a lui stesso questo lungo e travagliato percorso che può ben dirsi una vera e propria storia di risurrezione.
«Il coronavirus SARS-CoV-2 ha creato un insieme di situazioni inedite di isolamento che fanno riflettere sui modi e sui luoghi in cui essere comunità. È, innanzitutto, a mio avviso utile cercare di dare un senso a queste situazioni. Per quel che riguarda la mia esperienza e il legame con la mia comunità religiosa dei frati Minori Cappuccini di Viterbo, esperienza che cercherò qui di raccontare succintamente, mi sono ritrovato catapultato molto velocemente da un convento a un reparto di terapia intensiva. Vengo posto praticamente subito in sedazione profonda (una sorta di anestesia generale), rischio di morire varie volte, dopo circa due settimane mi viene praticata una tracheotomia, vengo risvegliato alcune volte ma non ne ho ricordo, fino al 25 novembre 2020 in cui inizia il mio risveglio, quello definitivo. Rimarrò fino all’11 dicembre quando sarò trasferito in terapia subintensiva, poi neurologia, a gennaio in riabilitazione per concludere il mio percorso il 15 marzo 2021, dopo quasi 5 mesi di ospedalizzazione. Al risveglio dal coma mi ritrovo, quindi, in una stanza di rianimazione, sotto oppiacei che mi facevano pensare di essere in una clinica svizzera, senza poter parlare per via della tracheotomia, senza potermi muovere per il tanto tempo passato immobile e in coma indotto.
Un ospedale è luogo per antonomasia di cura e di ritorno alla vita. La vita implica relazione, implica alcune funzioni di movimento e di autonomia essenziali. Però nel letto di terapia intensiva dove mi trovavo ero immobile. Muto, perché con un foro nella trachea. Non c’era alcun pulsante per chiamare aiuto. La relazione autonoma era quindi negata. Vita, relazione, senza possibilità diretta di relazione. Non c’era un bagno per i pazienti: le funzioni fisiologiche primarie, quelle dei vivi, a livello pratico erano negate. Il tutto in tempo di Covid-19. Visite vietate, relazioni al minimo. Che senso può avere parlare qui di comunità?
Nudo dentro un letto di rianimazione. Senza saio, senza il numero di iscrizione all’ordine degli psicologi, senza memoria mentre ero in coma, senza possibilità di parlare da sveglio, poi senza cellulare, impossibilitato a muovere un muscolo e a compiere le più banali attività, urlante dal dolore appena mi toccavano anche solo per lavarmi, terrorizzato perché non sapevo bene come sarebbe andata a finire. Ma stranamente affidato e fiducioso. Anche in questo stato ero considerato un frate, membro di una comunità, di un Ordine.
Ma grazie a Dio e alle preghiere di mezzo mondo mi sono svegliato. Ma davvero alle preghiere di mezzo mondo... L’infermiera mi riferisce che si era creato anche un gruppo di preghiera per me al Pronto Soccorso, dove lei lavorava. Basta un saio, anche se non lo vedi, e tutti pregano per te. Sottolineo ciò che dico perché mi rendevo e mi rendo conto che, anche nudo, portavo sempre con me tutta la comunità, tutto l’Ordine, tutta l’importanza e la potenza simbolica e la grazia di coloro dei quali, immeritatamente, ero in quel momento simbolo. Poi, appena mi è stata chiusa la tracheotomia e ho potuto parlare, si è materializzata concretamente anche la mia comunità, venivano a turno a trovarmi ogni giorno alla finestra: la comunità è diventata pian piano presenza reale.
Ricordo la presenza della comunità anche in un altro modo. Pian piano, per recuperare qualche muscolo, ho iniziato a fare un po’ di fisioterapia a letto. I fisioterapisti e le fisioterapiste ruotavano. Accadde che vidi una fisioterapista una volta e poi la settimana dopo. Nel vedere i miei progressi dopo una settimana, ha iniziato a piangere. Ricordando - me lo disse allora - di aver avuto da piccola, come direttore spirituale, un frate della mia comunità. In quel momento ero, indegnamente, anche la mia comunità. Quindi, in conclusione, è possibile abitare comunitariamente, in Cristo, anche un’eterotopia quale può essere un luogo di vita e morte come un letto di ospedale? Non solo è possibile ma è, credo, sempre più necessario uscire ed abitare cristianamente nuovi spazi, per la maggior gloria di Dio. Questi luoghi di confine sono le nuove periferie e occorre essere strumento affinché la grazia di Dio risplenda anche in questi ambienti talvolta tanto bui ma che anelano alla luce».