Cozza Rino
Togliere dalla vita religiosa tutto ciò che non ha base evangelica
2022/5, p. 25
Oggi serve una Chiesa – e dunque anche una vita consacrata – capace di nuova immaginazione e perciò capace di ripensare se stessa all’interno del nuovo contesto culturale che oggi si propone come stagione di potatura, alleggerimento e fantasia.

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IL TRATTO IDENTITARIO DELLA VC OGGI
Togliere dalla vita religiosa
tutto ciò che non ha base evangelica
Oggi serve una Chiesa – e dunque anche una vita consacrata – capace di nuova immaginazione e perciò capace di ripensare se stessa all’interno del nuovo contesto culturale che oggi si propone come stagione di potatura, alleggerimento e fantasia.
La vita religiosa è arrivata a questo difficile momento perché erede di una visione di sé che non l’ha sempre aiutata a intravvedere la sua vera, originaria missione all’interno di quel futuro verso cui Dio va conducendo la Chiesa.
Da qui, il doversi oggi ripensare, ripartendo dal credere che la «tradizione» è una realtà vivente: è la vita di un principio attraverso tutta la sua storia, per cui la trasmissione della tradizione non può essere ripetizione ma re-interpretazione. La stessa cosa è del nostro essere umano che in ogni momento è la risultanza relazionale del suo stare nel mondo, per cui ogni momento è una modalità provvisoria di abitare il tempo.
Queste sono le premesse che portano a far intravvedere alcune attenzioni - tra le molte di cui la VC ha bisogno, per poter essere oggi promotrice di dinamismi generativi, consapevole che per il suo sistema istituzionale è ardua impresa cedere il passo a modelli nuovi, anche perché il palato dei religiosi/e si è progressivamente «abituato al gusto del vino vecchio», con la conseguenza «di perseverare nelle abituali convinzioni, spesso occultandone le incongruenze».
È tempo di disincanto
da figure identitarie irrigidite del passato
Nel primo secolo d.C., faceva scuola, quale istanza di vita, l’orientamento «stoico» che invitava al disprezzo della condizione umana. Nel contempo la vita discepolare si lasciava incantare anche dalla «dottrina platonica» secondo cui il divino poteva crescere solo a spese dell’umano, fino a ritenere che l’umano, la terra, la passione per la vita fossero in qualche modo un intralcio. Il cristianesimo degli inizi non fu immune da questo contagio portando il discepolato ad essere caratterizzato prevalentemente dalla «rinuncia» che implicava una radicale spoliazione di sé, intravista nello stile di vita indigente, austero, sottomesso, rassegnato alla sofferenza: elementi che – ad esempio nel sec. XII – portarono i religiosi con il nome di «renuntiantes» ad essere l'emblema di chi intendeva seguire Cristo più da vicino. Persone per lo più ammirate, alle quali la gente ricorreva per i benefici spirituali, a motivo dell’aureola di santità che le circondava, data l’apparente valenza sacrale che le caratterizzava. Connotazioni che hanno inoltre condotto la vita religiosa ad offrire di sé un'immagine etico-virtuosa sostanzialmente individuale, orientata a paradigmi ascetico-penitenziali, supportata dal credere che l’amore di Dio si meriti e che ai primi posti della graduatoria del merito ci sia il sacrificio, che in quanto tale era ritenuto salvifico in sé. Da qui al credere che il cristianesimo fosse una proposta di sofferenza, il passo è stato breve.
Il discepolato è nato dal custodire
e proporre a tutti lo stile di Cristo
È questo il vero tratto identitario del consacrato/a, che consiste proprio nell’imitare Cristo nei suoi atteggiamenti ricchi di gesti che partono dal cuore, come quelli indicati da papa Francesco fin dall’inizio del suo magistero. Da qui, per la VC l’impegno di trasformare la storia, in storia di liberazione dalle tante multiformi schiavitù, con l’essere storia di salvezza attraverso una relazionalità umana piena di ascolto, di vicinanza, e di quanto porti ad attuare nella storia quel vangelo per il quale la spiritualità, oltre a rimandare alla soprannaturalità, sia umanità realizzata dentro il quotidiano degli uomini. A tal fine Cristo si spese per i «piccoli», i miti, gli afflitti, preferendoli ai gruppi elitari. Si rivolse «a gente come noi, per abilitarci a gesti nel quotidiano, come i suoi, cioè gesti di ascolto e di pazienza, di servizio e di dono, gesti di pace e di giustizia, gesti come i suoi che vediamo fermarsi, ascoltare, toccare occhi, labbra, orecchie, spezzare il pane, entrare nelle case, sedere a mensa, posare una carezza sul fondo dell’anima e parlare delle cose d’amore come nessuno prima aveva saputo fare».
Alle forme di vita discepolare ora serve una vita più leggera,
meno pesata dall’istituzione
L’attuale eredità della VC consiste oggi in comportamenti omologati, massificati per accumulo e sacralizzati, a tal punto da portare a essere riproduttori, nel modo più preciso possibile e immutabile di un modello di conoscenze e di vita ereditati dal passato. Da qui l’alto tasso di irriformabilità, da portare le attuali forme ad essere ripetizione del già accaduto.
A fronte di questa esigenza il Papa dà una indicazione: «Serve una Chiesa – e dunque anche una vita consacrata – capace di nuova immaginazione e perciò capace di ripensare se stessa all’interno del nuovo contesto culturale», che oggi si propone come stagione di potatura, alleggerimento e fantasia.
Nel passato l’accumulo ideologico e di tradizioni è stato possibile perché il religioso dei tempi passati costruiva il proprio futuro con l’assimilazione di quanto riceveva dai suoi predecessori, rendendo il tutto immutabile pensandolo fondato, per una lettura ingenua e acritica del dato biblico, sul deposito della rivelazione, ed è per questo che molte di queste idee e prassi ora sopravvivono a se stesse, senza che ci si renda conto di quanto possano essere ingannevoli. Ma per rendere possibile il futuro, la VC ha bisogno di liberare il nucleo centrale dalle molte sovrastrutture di prassi e di pensiero, delle quali nel corso dei secoli è andata appesantendosi, caricandosi di concetti vissuti più che pensati.
È dunque il momento di decidersi ad agire per via di «togliere» piuttosto che per via di «aggiungere». La VC è talmente inebriata di una cultura dell’aggiungere che togliere le sembra perdita, rendere carente, ma nessuno direbbe così del lavoro dello scultore. Togliere per cercare la vera forma, togliere per lasciare bellezza, togliere per rendere parlante ciò che è informe. «È solo togliendo il superfluo, levigando, lavorando, insomma decrescendo che si può giungere alla bellezza leggera dell’essenzialità, a una forma più trasparente di presenza, alla verità disarmante delle identità».
Di ciò ne era consapevole S. Agostino se stabilì per i suoi le seguenti direttive: «Tutte quelle cose che non trovano fondamento nella Sacra Scrittura, quelle di cui non si riesce a vedere quali scopi perseguano, si devono semplicemente abolire. Sebbene non contraddicano la fede, appesantiscono la religione, che dev’essere, secondo il disegno di Dio, libera da sovraccarichi che la rendono schiava». È Cristo stesso a dire che non si devono creare fardelli religiosi che nessuno può portare con una infinità di leggi e pratiche (Mt 23,4.23).
Portarsi dalla spiritualità della «separazione»
a quella dell’«incontro»
Veniamo dal tempo in cui i religiosi/e dovevano essere in qualche misura dei separati, in fedeltà all’orientamento espresso da Arsenio, padre del deserto (IV sec.), con il dire «fuggi, taci, vivi ritirato», proposto ai suoi seguaci. Indicazione che successivamente portò Pacomio e Basilio a riconoscersi in un gruppo di eletti che convivevano sotto lo stesso tetto: connotazione che da specificità di un dato momento storico è andata via-via affermandosi come identità, facendo sì che nel tempo la «diversità» fosse vista come «superiorità».
Ma ora invece – come scrisse Paolo VI – la vita religiosa per essere a misura della Chiesa - deve farsi «capace di immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo». L’esortazione apostolica Evangelii Gaudium lo dice così: la vita spirituale non ha da «confondersi con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione». Queste espressioni mettono in evidenza che se la vita religiosa è stata fondata per la «comunione», non può essere qualcosa di privato o intimista in funzione di sé. Il cristianesimo infatti, è nato dall’uscita dalla religione del “levita” e del “sacerdote” per essere figura di quel “samaritano” che sulla strada si mette a servizio dell'uomo ferito. Il fermarsi, in lui è reso possibile dal suo sguardo curato con un collirio particolare, che è il collirio della commozione. È questa che porta ad avvicinarci agli altri, di conoscerne e di condividerne le debolezze e i limiti. Tutto questo viene a dire che le migliori risorse dei discepoli sono quelle messe in moto da uno sguardo commosso verso l’altro.
Penso che le nuove generazioni non siano refrattarie all’idea di vocazione, quale modello di fondo cui ancorare la propria esistenza, a condizione però che sia un progetto che rifletta i tratti culturali del nostro tempo, in cui l’esemplarità dell’esserci, rinasca dai luoghi promiscui del vivere, e dall’incontro di umanità intere. Il futuro quindi non sta nel chiudersi nelle categorie teologiche e giuridiche che la VC si è costruita addosso e che si porta dietro per inerzia, perché i giovani, la scelta vocazionale la fanno a partire dalla verità dei fatti, espressi in termini familiari alla teologia antropologica, alla quale sono particolarmente sensibili.
In estrema sintesi, il cammino al quale è chiamata la VC è dunque quello di visibilizzare la sua «particolarità» intesa - diversamente dal passato - come il fatto di essere parte del tutto che è la Chiesa, con alcune specificità che consistono nella densità e nell’ampiezza di significazione di alcuni valori evangelici, vissuti in seno ad una più estesa comunità ecclesiale, perché «chi riceve un dono dello Spirito Santo potrà farlo fruttificare solo se egli sarà profondamente inserito nel dinamismo della vita».
Le risposte del Signore
sono sempre all’interno di un “oggi”
Quanto fin qui espresso dovrebbe favorire il nascere, in riferimento alla qualità dell’umano, anche dell’impegno a riformulare i voti nel quadro dell’attuale cultura, per il fatto – diversamente da quanto un tempo si pensava - che la speciale sequela della vita consacrata è al servizio della sequela di tutti i cristiani. Infatti – disse papa Francesco – «nel voto non deve emergere solo ciò che i religiosi/e possono vivere ma deve rimandare chiaramente in modo diretto a quello che è il senso di ogni vita cristiana», con il farlo apparire nella sua bellezza accogliente e ospitale dell’umano.
Allora, oggi nella vita religiosa, è evangelica quella povertà che oltre a far trasparire una reale libertà interiore, porta a «farsi in tutto compagna dell’umanità sofferente, bisognosa di cibo come d’attenzione, di gioia, di misericordia»; ma, nello stesso tempo, una povertà da combattere quando assume i tratti disumani del bisogno di singoli o popolazioni. Ne fa fede, ad esempio, il fatto che nelle prime comunità, la ricerca della povertà non era vissuta come ideale ascetico sul tipo degli stoici, ma affinché non ci fosse chi soffrisse per la mancanza di beni.
Ed è evangelica quell’obbedienza che si pone tra «ascolto» e «visione», esercitata con umile spirito critico, non per una mistica della sudditanza (superiore-suddito) ma della responsabilità senza la quale non c’è etica.
Infine è evangelico quel celibato o nubilato che porta a essere «padri» e «madri» che sanno dare o ridare vita, con il riconoscere impronte di bontà in ognuno, perché capaci di scorgere il chiarore nascosto in ogni persona, attenti agli affetti negati, alle emarginazioni sofferte, ai visi rigati dal pianto. Dunque una vita celibataria quale forma dell’amore, espresso da parte di persone che siano, in qualche misura, risonanza delle parole di Cristo e del suo modo di incontrare gli altri.
Tutto ciò nasce dalla consapevolezza che Gesù non fece suo il pensiero del suo tempo (stoico e platonico), disconoscendo anche per i suoi discepoli ogni rigorismo ascetico. Con questo non è messa in discussione la quotidiana disciplina dell’ascesi, non solo come presa di distanza dalle seduzioni ma anche e soprattutto come assunzione della sofferenza conseguente al dono di sé agli altri: elementi fondamentali di umanità, l’abbandono dei quali nuocerebbe all’uomo stesso.
Concludendo: si tratta di accogliere l’invito di papa Francesco a «respingere la tentazione elitaria perché quando lo fa si ammala».
RINO COZZA csj