Bolognesi Elena
La perla del regno
2022/5, p. 9
Sarà forse perché non possiede la radicalità e l’incisività del tempo di Quaresima, né la sintesi drammatica e gloriosa della Settimana santa, ma dobbiamo ammettere che il tempo liturgico che segue l’evento pasquale e che ci fa attendere il dono dello Spirito nella luce del Risorto rischia ogni anno di passare un po’ inosservato, persino trascurato. Per ritrovarci infine, naso all’insù, a osservare tra sorpresa e nostalgia Gesù che torna al Padre, esattamente come aveva predetto.

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TEMPO PASQUALE
La perla del regno
Sarà forse perché non possiede la radicalità e l’incisività del tempo di Quaresima, né la sintesi drammatica e gloriosa della Settimana santa, ma dobbiamo ammettere che il tempo liturgico che segue l’evento pasquale e che ci fa attendere il dono dello Spirito nella luce del Risorto rischia ogni anno di passare un po’ inosservato, persino trascurato. Per ritrovarci infine, naso all’insù, a osservare tra sorpresa e nostalgia Gesù che torna al Padre, esattamente come aveva predetto.
Quaranta giorni (cfr. Atti 1,3) per imparare a camminare con le proprie gambe sono davvero pochi, potrebbero obiettare i discepoli di ogni tempo. Con Gesù che si manifesta e si sottrae, offrendo ogni volta una coordinata nuova per imparare a riconoscere il suo volto nel tempo dell’assenza. Non solo. Le apparizioni e le narrazioni che le riferiscono ci appaiono spesso discordanti e difficili da armonizzare lasciando talvolta un po’ disorientati: san Paolo, che non ne fu testimone oculare, riporta addirittura la notizia di una apparizione a cinquecento fratelli tutti insieme (cfr. 1Cor 15,6). Maurice Zundel faceva a questo proposito un’osservazione molto interessante e suggeriva che, trattandosi di un invito alla fede, le apparizioni “riflettono lo stato d’animo di coloro che ne sono testimoni. (…) …proprio perché traducono i sentimenti, le esitazioni, i timori le paure e le gioie di ciascuno”. A noi non resta allora che rileggere i segni e i luoghi del tempo pasquale come una mappa capace di condurci non solo al Cristo risorto ma anche al cuore della nostra vita. Si tratta di immergersi “nel cuore della nostra propria vita, per ascoltarvi l’invito dell’Eterno, per riscoprirvi la perla del Regno… per valorizzare questo tesoro che ci è affidato e portarne silenziosamente agli altri la luce e l’amore”. Dove ci ha incontrato e dove ci viene incontro ancora oggi il Risorto?
La stanza al piano superiore
Si riparte da lì, dalla stanza al piano superiore di una casa anonima, sul monte Sion, in quello che al tempo di Gesù era il quartiere degli Esseni. Una stanza che, oggi come allora, rimane spesso chiusa per la paura (per le molte paure che abitano il nostro tempo)… e deve proprio tornare (cfr. Gv 20,19) e ritornare (cfr. Gv 20,26) Gesù perché quel luogo torni a essere accessibile ma occorrerà attendere il dono dello Spirito perché le porte di quella stanza siano finalmente spalancate (cfr. Atti 1,13).
Il tempo pasquale è dunque tempo di porte aperte e di case accoglienti: invito dai molteplici risvolti, che mostra di continuo la sua tremenda attualità. Non si tratta qui di riflettere su quanto sia difficile aprire porti e città al forestiero: questo è solo il prevedibile e quasi naturale esito di ben altre chiusure, che non hanno epoca né latitudine geografica.
Il discepolo deve ripercorre idealmente e sempre nuovamente quello spazio che separa la tomba vuota dalla stanza al piano superiore, non per un arroccamento difensivo ma per tenere lo sguardo fisso sulle mani di Gesù che lavano con amore i piedi dei suoi amici, le stesse mani che spezzano il pane e versano il vino. “Se non ti laverò non avrai parte con me” aveva detto Gesù a Pietro (cfr. Gv 13,8). Eppure, mentre la memoria del sacrificio eucaristico torna a noi ogni giorno, quel gesto di inaudita accoglienza si ripete (con qualche imbarazzo) una sola volta all’anno. La stanza al piano superiore è dunque terra di ospitalità, prima di tutto quella ricevuta, senza ingenuità né pretesa di comprendere. E poi l’ospitalità offerta, perché in quella stanza nasce la Chiesa e proprio lì, tra quelle scarne pareti in pietra, la Chiesa può imparare il significato dell’ospitalità, alla luce del mattino di Pasqua.
Le nostre paure, il nostro atteggiamento sempre sulla difensiva, anche nei confronti di Gesù e del suo desiderio di accoglierci, di lavarci i piedi, di donarsi a noi. È qui che il Risorto ci viene incontro per aprire la porta?
Il dubbio e la domanda
Nel raccontare gli eventi della passione, morte e risurrezione di Gesù, gli evangelisti sembrano quasi infierire sull’immagine dei discepoli, riferendoci a più riprese la loro paura, la loro ostinazione nel non comprendere e il loro scarso coraggio. La luce del Risorto non ha spazzato completamente le tenebre, non ha chiarito del tutto i pensieri, non ha sgomberato il campo dai dubbi, che in fondo erano gli stessi di Giuda e di Pietro. La luce del tempo pasquale non serve a renderci discepoli ineccepibili ma a riconoscere nella pace l’esperienza del dubbio, che segna di continuo la nostra vita. E il dubbio – lo sappiamo bene – il più delle volte non riguarda le grandi verità della fede, ma il modo in cui queste verità informano la nostra vita di tutti i giorni, che esige di continuo piccoli e grandi discernimenti.
Le apparizioni del Risorto mostrano che non c’è via sicura per uscire dal dubbio, anche di fronte al volto di Gesù ormai riconosciuto e davanti al quale ci siamo affrettati a prostrarci, come i discepoli in Galilea (cfr. Mt 28,16). Curioso… i discepoli si prostrano davanti a Gesù ma continuano a dubitare: una contraddizione che ci abita nel profondo, se pensiamo a quanto la nostra prassi religiosa possa a volte distaccarsi dai sentimenti e dalle convinzioni profonde. Ma se non c’è antidoto al dubbio, possiamo comunque fare qualcosa, come Maria di Magdala, come i due di Emmaus… possiamo liberare le domande, non nasconderle, non serrarle tra le labbra. La domanda apre sempre la porta a nuova rivelazione.
È forse qui che, oggi, il Risorto ci viene incontro? Nei nostri dubbi e nelle nostre contraddizioni? Nel disagio che proviamo quando ci sentiamo inadeguati e un po’ incoerenti?
Come rugiada dal monte
Nella mappa che Gesù disegna nei giorni della sua manifestazione post-pasquale, non manca il riferimento al monte o, dovremmo dire, ai monti. Al monte degli Ulivi, certamente, dove Luca ambienta l’Ascensione nel primo capitolo degli Atti degli Apostoli. Ma anche a un generico monte, in Galilea, che Gesù stesso ha indicato, secondo il racconto di Matteo (cfr. Mt 28,16). La tradizione ha quasi sempre identificato questo monte con il Tabor, che si fa notare nella piana di Esdrelon per la sua curiosa conformazione e perché spunta dal terreno come se una forza lo avesse spinto verso l’alto dal cuore della terra. Per questo, sulla sua cima, a cui è associato anche l’episodio evangelico della Trasfigurazione, si trovano tacce di culti antichissimi, precedenti alla rivelazione biblica. Ma non è mancato chi preferisse l’identificazione con il monte Ermon, nell’estremo nord del paese, al confine con Libano e Siria, dove ha origine il fiume Giordano. Il monte ha molti significati ed è sempre stato considerato un luogo che avvicina al Cielo, quasi a poterlo toccare. Tra le tante suggestioni mi piace ricordare, provando a recitare a memoria il salmo della vita fraterna (Sal 133), quella della rugiada che dall’Ermon scende verso i monti di Sion, a ridosso del deserto di Giuda, per portare freschezza e benedizione.
Dalla cima del monte, prima di tornare al Padre, Gesù chiede ai suoi di abbeverarsi alla rugiada della sua risurrezione per poi scendere verso ogni confine della terra, per portare benedizione, per riportare la vita. Non la vita in se stessa, ma la vita stessa di Gesù.
Su quale monte oggi Gesù ci viene incontro? Il monte delle tre tende che Pietro voleva costruire per fermare nel tempo e nello spazio la consolante presenza di Gesù trasfigurato, insieme a Mosè ed Elia? Il monte che dà sicurezza e non espone a una terra arida che forse prosciugherà presto la rugiada della nostra testimonianza?
Di nuovo pescatori
Anche l’evangelista Giovanni ci mostra i discepoli in Galilea, dopo la risurrezione di Gesù, ma non sulla cima di un monte bensì sulle sponde del lago di Tiberiade. La situazione è molto diversa. Non è un luogo preciso stabilito da Gesù. Anzi, da principio i discepoli nemmeno riconoscono che ad aspettarli a riva è Gesù stesso, in persona. Sarà soltanto il “discepolo che Gesù amava” ad avere l’intuizione giusta e a suggerire a Pietro l’identità del Risorto.
Il contesto del lago entra a far parte dei punti di riferimento della mappa che andiamo tracciando. Nel periodo pasquale il volto di Gesù lo si scopre ritornando senza stancarsi ai luoghi della ferialità della vita. Pietro sembra tornato a dedicarsi alla sua professione delle origini, quella di pescatore. E non possiamo negare che la situazione ci lasci un po’ perplessi, non solo per la fatica a riconoscere Gesù ma soprattutto per l’apparente normalità con cui i discepoli sembrano tornati alla pesca… non quella “di uomini” che aveva promesso Gesù. Tutto qui? I giorni della Passione sembrano lontani, quasi lasciati alle spalle.
Non dimentichiamo che Gesù aveva eletto Cafarnao a sua città di residenza nel tempo del ministero pubblico, dopo aver lasciato il villaggio di Nazaret. Proprio sulle strade che costeggiano il lago si è svolta buona parte del suo insegnamento e dei segni miracolosi, la chiamata dei primi discepoli. Il lago è luogo propizio di incontri anche con gli stranieri, sia che si tratti dei soldati romani che percorrono l’importante via di comunicazione nota come “Via del Mare”, sia che si tratti degli abitanti del territorio della Decapoli, che si affaccia da est sul lago.
La luce del Risorto ci sospinge verso la normalità della vita, ma non come fosse un ripiego, una semplice necessità o un’operosità utile ma che talvolta ha l’amaro sapore della fuga. Bello sarebbe se, venendo a incontrarci, il Risorto ci trovasse nella “nostra” Galilea, non un luogo ideale, mai perfetto: un luogo, invece, nel quale ascoltare con umile stupore il racconto dello Straniero che, percorrendo le nostre vie al nostro stesso passo, torna a svelarci con pazienza i segreti che custodiamo nel cuore. Così, con il cuore infiammato dalla Parola, non cercheremmo in tutti i modi di trattenere la manifestazione di un momento ma custodiremmo ogni giorno la perla preziosa del Regno che è depositata nelle nostre vite, in questo stesso istante.
ELENA BOLOGNESI