C’è dell’oro in queste ferite
2022/3, p. 1
Dal 15 al 19 novembre 2021, presso la Casa del pellegrino-Santuario dell’Amore
misericordioso di Collevalenza, si è tenuto il tradizionale Convegno organizzato
dalla CISM, dall’USMI e dall’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni
della Cei sul tema “C’è dell’oro in queste ferite. Traumatizzati o trasformati?
La Vita Consacrata durante e dopo il Covid-19”. Un tema obbligato, ha detto il
salesiano Beppe Roggia, introducendo il Convegno, giunto alla 38a edizione.
«Viviamo un vero tempo apocalittico», ha detto. «Ma questo è il nostro tempo,
il tempo che ci è dato da vivere sulla stessa barca e in compagnia con tutti gli
uomini e donne del mondo».
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LA VITA CONSACRATA DURANTE O DOPO IL COVID-19
C’è dell’oro in queste ferite
Traumatizzati o trasformati?
Dal 15 al 19 novembre 2021, presso la Casa del pellegrino-Santuario dell’Amore misericordioso di Collevalenza, si è tenuto il tradizionale Convegno organizzato dalla CISM, dall’USMI e dall’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni della Cei sul tema “C’è dell’oro in queste ferite. Traumatizzati o trasformati? La Vita Consacrata durante e dopo il Covid-19”. Un tema obbligato, ha detto il salesiano Beppe Roggia, introducendo il Convegno, giunto alla 38a edizione. «Viviamo un vero tempo apocalittico», ha detto. «Ma questo è il nostro tempo, il tempo che ci è dato da vivere sulla stessa barca e in compagnia con tutti gli uomini e donne del mondo». Come la Vita consacrata ha attraversato questo tempo? Come un castigo di Dio o un tempo di misericordia? Siamo traumatizzati o trasformati? Questo è il tempo per capire, per distinguere e per discernere. E il dopo: che cosa abbiamo da offrire per il dopo tra noi e la gente? Sono le domande che hanno guidato gli interventi e le riflessioni delle quattro giornate di Collevalenza – cui hanno partecipato, in presenza e online, numerose religiose e religiosi – mettendo a fuoco e coniugando «il fondale della realtà, la riflessione e il ricercare insieme nuovi cammini di futuro». Con l’obiettivo di «offrire un non piccolo contributo alla fatica e all’impegno dei vari Istituti, per attraversare il guado di questo tempo denso di tanta incertezza, sapendo guardare lontano e senza stagnare nelle paure del presente». In queste pagine pubblichiamo una nostra riduzione dell’appassionato intervento di sr. Francesca Balocco Balocco, che – a partire dalla Bibbia – ci suggerisce atteggiamenti per fare della vita consacrata un luogo di riconciliazione e di pace. Una riflessione tanto più attuale mentre assistiamo smarriti alle cronache di guerra nel cuore dell’Europa.
Qui e ora la nostra storia di salvezza
La sfida che oggi ci viene lanciata è quella di intravedere la salvezza quando ancora abbiamo l’acqua alla gola, quando di fatto non siamo “scampati” dal pericolo. Siamo invitati a raccontare oggi la salvezza, o meglio a scrivere oggi la nostra storia di salvezza, mentre concretamente sentiamo ancora viva la minaccia. La scriviamo ora, mentre si sta compiendo, mentre i tratti del futuro non sono chiari e sentiamo il peso di ciò che abbiamo passato.
Dove trovare ispirazione? Forse si tratta di cercarla dentro storie che hanno saputo raccontare la crisi, in una narrazione che ci parla di discernimenti dentro la crisi. Come spesso accade, l’ispirazione nasce da quello che abbiamo sotto gli occhi, tutti i giorni.
Nella cappella dove vivo l’Eucarestia tutti i giorni, ci sono 4 affreschi di donne, dipinti da Pietro Gagliardi (1809-1890) si tratta di Abigail, Giaele, Ester, Giuditta.
Quattro donne raffigurate mentre compiono il gesto che sarà poi, per il popolo di Israele, memoria di salvezza. Un gesto attuale, puntuale, fotografate nel qui e ora della salvezza, né prima, né dopo perché oggi è il tempo della salvezza... Figure di donne che possiamo rileggere nel loro modo di agire come figure della Vita consacrata, una vita consacrata a Dio, dedicata al popolo, capaci di agire nella crisi. Anche la nostra missione profetica, come consacrati, è proprio quella di scrivere la salvezza dentro la crisi.
Abigail: nella crisi la generosità (1Samuele 25)
Forse non la più conosciuta tra le donne della storia della salvezza, ma certamente una delle colonne portanti nella vicenda di Davide, il futuro Re d’Israele.
Ci troviamo nel primo libro di Samuele: Saul è primo Re d’Israele, un uomo alto, di bell’aspetto e umile, che inizia il suo Regno raccogliendo consensi e vittorie, ma l’orgoglio ha prevalso sull’umiltà, l’impazienza e la disobbedienza hanno danneggiato il suo rapporto con Dio e al suo posto viene unto Re Davide, per mano del profeta Samuele. Davide, dunque, benché sia già unto re, si trova a dover fuggire vittima della gelosia di Saul. Fuggendo, Davide, raccoglie un esercito, i suoi simpatizzanti, anche se certamente non è semplice vivere con una banda armata, nel deserto. Ed è così che Davide e i suoi uomini si imbattono nel numerosissimo gregge di Nabal e decidendo di custodire e proteggere il gregge, ne sperano presumibilmente in una ricompensa, una scelta coraggiosa e generosa che ha in sé la sua parte di ambivalenza… Nabal, il cui nome significa stolto, è il marito di Abigail, una donna di bella intelligenza e gradevole di aspetto. Se Nabal impersona la stoltezza, Abigail rappresenta tre virtù: bellezza, bontà e verità.
Quando arriva la primavera, per la tosatura del gregge, c’è anche una grande festa e Davide manda i suoi uomini ai festeggiamenti chiedendo che possano mangiare, come una sorta di ricompensa per aver protetto il gregge. Nabal, però, si rifiuta di aiutare Davide e i suoi uomini condividendo con loro il banchetto, anzi trattandoli con disprezzo. Possiamo immaginare la reazione di Davide quando lo viene a sapere: arma i suoi e si dirige verso i possedimenti di Nabal pronto a sterminare tutti gli uomini della tribù. Ed è proprio in questa storia di violenza e di follia che interviene la sapienza di Abigail, la sapienza della Vita Consacrata.
Nella vicenda di Abigail, un servo la avverte del comportamento sconsiderato di suo marito che mette a repentaglio la vita di tutta la tribù. Appresa la notizia, Abigail deve decidere in fretta, la situazione è urgente, non può arrendersi alla stupidità di suo marito, né per lei né per il popolo e così prende in mano la situazione. Di sua iniziativa prepara vivande sufficienti per un ricco banchetto, duecento pagnotte, due otri di vino, cinque pecore, un sacco di grano tostato, cento grappoli d’uva secca e duecento crostate di fichi…
Abigail elabora un piano coinvolgendo i servi in questo progetto di salvezza: prima andranno loro incontro a Davide carichi di viveri e dopo lei, sola, cavalcando un asino. Bisogna ad ogni costo fermare Davide. Un piano progettato e realizzato di nascosto da suo marito, il quale se lo venisse a sapere di certo si opporrebbe. E così la Sapienza, va incontro a Davide, lo raggiunge e in mezzo ai doni preparati per lui e i suoi uomini, si prostra.
Abigail è una donna che rischia, che scende incontro a Davide. Prostrata ai piedi di Davide fa un discorso ricco di intelligenza e diplomazia: prende su di sé la colpa e chiede perdono. Dà il tempo a Davide di calmare la sua collera, di far sbollire la sua ira e poi riconosce che il vero responsabile è suo marito… stolto è il suo nome e stoltezza è in lui. Questa donna cerca di salvare il suo popolo con gli strumenti che ha a disposizione senza tradire la verità: è necessario calmare Davide e affrancarsi dalla stoltezza di suo marito. Con coraggio e determinazione Abigail “costringe” una banda di uomini armati, infuriati ed affamati a riconoscere in lei la voce di Dio e questo suo coraggio trasformerà la rabbia omicida in benedizione a Dio per lei e per la sua gente.
Forse, anche per noi oggi una via di salvezza è proprio quella di essere strumenti di riconciliazione e di mediazione, frapponendosi tra la stoltezza e la sapienza.
La Vita Consacrata vedendola più nel realismo che nella sua idealizzazione non sempre è trasparenza della mitezza, dell’umiltà, non sempre si espone disarmata, anche noi abbiamo bisogno di essere voce di Abigail nelle nostre comunità, nella quotidianità di questo ministero di mediazione e di riconciliazione. La pandemia è allora un’occasione per rimettere a fuoco la nostra missione e la nostra identità che non è in ciò che facciamo o abbiamo fatto, ma in ciò che ci dà la forza di essere quella voce sapiente che si sa abbassare, che sa tacere, che sa attendere il momento opportuno - l’oggi della salvezza -, per ricondurre altri sulla via della sapienza umile e discreta e che ci chiede niente di meno che lasciare più spazio all’umanità, alla generosità nelle nostre relazioni.
Giaele: nella crisi la collaborazione (Giudici 4-5)
Non è possibile parlare di Giaele senza chiamare in causa Debora, forse più conosciuta. Eppure, l’iconografia ha scelto di celebrare la seconda, la più nascosta, quella che ha vissuto nella tenda.
Nei capitoli 4 e 5 del libro dei Giudici, troviamo la storia che vede protagoniste queste due donne: Debora e Giaele. Queste due donne, Debora e Giaele, sono le indiscusse protagoniste di una vittoria militare di portata strategica: i cananei, meglio attrezzati e più esperti dell’arte militare opprimono le tribù del nord della Palestina, il re cerca di ridurre in schiavitù le tribù sottomesse: il rischio è la scomparsa di Israele. Di fronte a ciò si riaccende la coscienza nazionale del popolo e le tribù del nord si coalizzano. I cananei verranno sbaragliati, non grazie all’esercito ma grazie ad una forte pioggia che bloccherà nel fango i loro carri. Quando il capo nemico cercherà di mettersi al riparo, verrà invitato da Giaele a entrare al sicuro nella sua tenda e lì troverà, per mano di donna, la morte. Ma quale ruolo hanno queste due donne in una vicenda complessa e violenta?
Debora, il cui nome significa ape, è profetessa in Israele prima della monarchia, è eletta giudice e gli Israeliti la riconoscono come tale recandosi da lei sotto la cosiddetta palma di Debora, per ottenere giustizia. Debora è caratterizzata da un ruolo congiunto di governo e profezia, è lei che risveglia Israele dal torpore e scatena la lotta. L’ispirazione ad agire nella crisi, viene da una donna. È uno spazio di “novità”: la vittoria appartiene al Signore, ma una donna, Debora, ispira l’azione contro i cananei e un’altra donna, Giaele, la compie.
Giaele viene da una tribù di fabbri che fabbricano e riparano oggetti di metallo. Sisara fuggendo accetta di essere ospitato nella tenda di Giaele. Non ne conosciamo il motivo, ma Giaele decide di schierarsi dalla parte di Israele e tradendo i doveri dell’ospitalità uccide Sisara. Per questa sua azione sarà esaltata come benedetta tra le donne, benedetta tra le donne della tenda! (5,24).
La vera vittoria è la Parola del Signore, Debora ne è l’annuncio e Giaele il compimento, la forza di Debora è nella parola che è Parola di Dio, una parola che invita ad alzarsi, la forza di Giaele è nella mano, nell’azione che compie ciò che la Parola ha annunciato.
Queste due figure femminili sembrano essere una chiave che ci apre la mente e il cuore a discernere il modo in cui Dio accompagna e guida le vicende del suo popolo e della storia umana. La vittoria non è né degli uomini, né delle donne poiché la violenza distrugge sempre sia per mano di uomini che per mano di donne. Chi vince davvero è la Parola di Dio che si compie.
Anche la Vita Consacrata è chiamata a sorgere in questo tempo ancora buio; chiamata a sorgere rompendo gli schemi abituali e introducendo novità, sorgere creando alleanze, sorgere per lasciare spazio alla Parola viva ed efficace. La salvezza passa attraverso una Vita Consacrata chiamata a sorgere sorprendendo se stessa e la sua forza generativa… e scoprendosi incompleta. C’è bisogno di altri per poterci riconoscere in Colui che è potente in parole ed opere…
FRANCESCA BALOCCO