L’unico necessario per orientare il cammino
2022/3, p. 19
Il 2 febbraio, nel contesto delle celebrazioni per la XXVI giornata della vita consacrata, papa Francesco, vescovi, arcivescovi e cardinali hanno espresso riflessioni importanti per i consacrati e le consacrate, chiamati a vivere in questo particolare tempo storico.
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XXVI GIORNATA MONDIALE DELLA VITA CONSACRATA
L’unico necessario
per orientare il cammino
Il 2 febbraio, nel contesto delle celebrazioni per la XXVI giornata della vita consacrata, papa Francesco, vescovi, arcivescovi e cardinali hanno espresso riflessioni importanti per i consacrati e le consacrate, chiamati a vivere in questo particolare tempo storico.
Celebrare la vita consacrata alla luce della festa della Presentazione di Gesù al tempio, suscita molte parole «utili, provvidenziali, sapienti, illuminanti. Ma solo Gesù è necessario, solo lui è la roccia su cui costruire la vita, la comunità, la missione, la consacrazione. La testimonianza di Simeone rivela che se incontriamo Gesù tutto diventa luce, tutto trova il suo compimento e tutto si rivela relativo: vivere, morire, poter fare molto, non poter fare niente, essere giovani, essere vecchi, essere pochi, essere tanti. Tutto è relativo... L’unico necessario è Gesù. Uniti a lui affronteremo il tempo presente e il tempo futuro, i giorni di tempesta e di apprensione e i giorni di pace e di letizia, i contesti favorevoli e quelli ostili». In sintonia con queste parole pronunciate da mons. Delpini nell’omelia del 2 febbraio in Duomo a Milano, sono risuonate nella cattedrale di Napoli le esortazioni dell’arcivescovo Battaglia.
La stanchezza della speranza
«C’è una stanchezza diffusa tra religiosi, religiose, presbiteri, una stanchezza che viviamo quando la realtà ci sembra troppo dura da affrontare e mette in dubbio le nostre forze. È una stanchezza paralizzante che immobilizza, consuma dentro. Viene fuori dal guardare avanti e non sapere come reagire di fronte all’intensità e all’incertezza dei cambiamenti che la nostra società sta attraversando».
Mons. Battaglia ha proseguito affermando che «uno dei peccati peggiori contro gli altri, contro se stessi, contro Dio sia pensare che il Signore e le nostre comunità non hanno più nulla da dire e da dare a questo tempo. Le fatiche del viaggio arrivano e si fanno sentire. Ci sono, e non possiamo negarle». Ma è necessaria oggi «una pazienza incrollabile, prima di ogni decisione, di ogni scelta, senza rassegnazione. Verrà lo Spirito, muoverà i nostri passi come mosse quelli di Simeone e di Anna, i cui occhi erano assetati di salvezza ma anche plasmati dalla speranza. Anche noi, come loro, apriamo la porta della nostra stanca speranza per tornare senza paura al tempo sorgivo del primo amore, quando Gesù è passato per la nostra strada, ci ha guardato con generosità, ci ha chiesto di seguirlo. Continuiamo a dar credito con fiducia al suo amore che, come è stato ieri, sarà domani! Il Signore è fedele, sempre! La sua fedeltà è la nostra roccia. La speranza stanca potrà guarire ritornando al luogo del primo amore e riuscirà ad incontrare, ad incrociare, nelle periferie e nelle sfide di oggi, lo sguardo del Cristo che continua a cercarci, a chiamarci e ci invita a prendere il largo».
Rimetterci in cammino
Anche il card. Zuppi, in cattedrale a Bologna, ha esortato religiose e religiosi a camminare, a rimettersi in movimento. «Ci mettiamo in cammino perché sentiamo l’urgenza della missione, la nostalgia della madre, la compassione per tanta sofferenza, l’urgenza della carità. E scegliamo di farlo insieme, come padri, madri, fratelli non come esecutori senza responsabilità o membri di un esercito che pensa indispensabile combattere una guerra, invece di imbracciare le armi della misericordia e di essere un seme di amore da gettare nel mondo». E ancora una volta Simeone e Anna sono chiamati ad esempio per l’oggi della nostra vita. «Simeone e Anna, vecchi e deboli come sono, - ha proseguito il card. Zuppi, - diventano luminosi, si fanno prendere da un sogno universale, sono insomma i primi Fratelli Tutti che cantano la presenza di Dio tra gli uomini. Anche noi siamo vecchi, ma pieni di Spirito troviamo la risposta necessaria e non smettiamo di sognare e trasmettere speranza. I vecchi possono cambiare! Come Nicodemo. Nulla è impossibile a chi crede! Non restiamo a guardare il passato, a rovistarlo alla ricerca di sicurezze».
Con speranza paziente e vigilante, la vita consacrata è chiamata a una rinnovata attesa, feconda e creativa. Come i due “vecchi” nel tempio di Gerusalemme, «siamo persone dell’attesa, paziente, vigilante, così diversa dall’irrequieta agitazione degli affanni, delle nostre ansie di programmazione e di prestazione, dalla rapacità che vuole possedere a qualsiasi prezzo. Aspetta chi non si rassegna, chi non è sazio, chi non è preso da sé, chi attende la consolazione perché vede il dolore di tanti, non si accontenta di analizzare o di preoccuparsi del personale benessere, non si abitua alla sofferenza. Aspettare è sperare. I due vegliardi pur avanti negli anni, segnati dalla debolezza fisica e, come tutti, tentati dal veleno della disillusione, sono invece presi da un entusiasmo giovanile, che si esprime nella immediata gioia, nel non perdere tempo. Entusiasmo e sapienza, tanto che Simeone parla della gioia ma anche della spada che trafiggerà l’anima. Non una gioia che evita le avversità, che non le sa riconoscere, ma consapevole e più forte di queste».
Anche mons. Battaglia ha letto nella figura di Simeone tratti fondamentali per la vita consacrata. «Simeone non ha dato le dimissioni prima: “Ora”, dice. “Ora puoi lasciare, Signore, che il tuo servo vada in pace, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza”. E anche Anna non aveva lasciato prima. A ottantaquattro anni era ancora là, di giorno e di notte, tra quelli che attendevano la venuta del Redentore. Teneva in braccio il bambino, Simeone. Il vecchio e il bambino, gli estremi della vita, dentro la salvezza. Il vecchio salutava la salvezza in quel bimbo e benediceva Dio. Pensate quante cose gli occhi di quel vecchio avevano visto lungo il corso della sua lunga vita. Quegli stessi occhi, mossi da un cuore aperto allo Spirito, videro in quel giorno la salvezza. È una questione di occhi. Tutti vedono la stessa scena, gli stessi personaggi, c’è chi non vede oltre, non vede altro. C’è chi scopre oltre, chi scopre altro. “Beati i puri di cuore, vedranno Dio”. Simeone e Anna vedono Dio. Aspettano solo da Dio la “consolazione” di cui ha bisogno il popolo, la “liberazione” che vanno cercando generazione dopo generazione, la “luce” che illumina le tenebre in cui vivono i popoli della terra. Ora sentono che le loro attese si compiono in Gesù. E lo sentono perché ‘mossi dallo Spirito’».
Simeone e Anna hanno ispirato anche papa Francesco per l’omelia del 2 febbraio nella Basilica di S. Pietro. Ne proponiamo alcuni stralci.
Da che cosa siamo mossi?
«Due anziani, Simeone e Anna, attendono nel tempio il compimento della promessa che Dio ha fatto al suo popolo: la venuta del Messia. Ma la loro attesa non è passiva, è piena di movimento. Seguiamo dunque i movimenti di Simeone: egli dapprima è mosso dallo Spirito, poi vede nel Bambino la salvezza e finalmente lo accoglie tra le braccia (cfr Lc 2,26-28). Fermiamoci semplicemente su queste tre azioni e lasciamoci attraversare da alcune domande importanti per noi, in particolare per la vita consacrata. La prima è: da che cosa siamo mossi? È una domanda su cui tutti dobbiamo misurarci, soprattutto noi consacrati. Mentre lo Spirito porta a riconoscere Dio nella piccolezza e nella fragilità di un bambino, noi a volte rischiamo di pensare alla nostra consacrazione in termini di risultati, di traguardi, di successo: ci muoviamo alla ricerca di spazi, di visibilità, di numeri: è una tentazione. Lo Spirito invece non chiede questo. Desidera che coltiviamo la fedeltà quotidiana, docili alle piccole cose che ci sono state affidate. Com’è bella la fedeltà di Simeone e Anna! Ogni giorno si recano al tempio, ogni giorno attendono e pregano, anche se il tempo passa e sembra non accadere nulla. Aspettano tutta la vita, senza scoraggiarsi e senza lamentarsi, restando fedeli ogni giorno e alimentando la fiamma della speranza che lo Spirito ha acceso nel loro cuore. Possiamo chiederci, noi, fratelli e sorelle: che cosa muove i nostri giorni? Quale amore ci spinge ad andare avanti? Lo Spirito Santo o la passione del momento, ossia qualsiasi cosa? Come ci muoviamo nella Chiesa e nella società? A volte, anche dietro l’apparenza di opere buone, possono nascondersi il tarlo del narcisismo o la smania del protagonismo. In altri casi, pur portando avanti tante cose, le nostre comunità religiose sembrano essere mosse più dalla ripetizione meccanica – fare le cose per abitudine, tanto per farle – che dall’entusiasmo di aderire allo Spirito Santo».
Cosa vedono i nostri occhi?
«Simeone, mosso dallo Spirito, vede e riconosce Cristo. E prega dicendo: «I miei occhi hanno visto la tua salvezza». Ecco il grande miracolo della fede: apre gli occhi, trasforma lo sguardo, cambia la visuale. Come sappiamo da tanti incontri di Gesù nei Vangeli, la fede nasce dallo sguardo compassionevole con cui Dio ci guarda, sciogliendo le durezze del nostro cuore, risanando le sue ferite, dandoci occhi nuovi per vedere noi stessi e il mondo. Occhi nuovi su noi stessi, sugli altri, su tutte le situazioni che viviamo, anche le più dolorose. Non si tratta di uno sguardo ingenuo, no, è sapienziale; lo sguardo ingenuo fugge la realtà o finge di non vedere i problemi; si tratta invece di occhi che sanno “vedere dentro” e “vedere oltre”; che non si fermano alle apparenze, ma sanno entrare anche nelle crepe della fragilità e dei fallimenti per scorgervi la presenza di Dio.
Gli occhi anziani di Simeone, pur affaticati dagli anni, vedono il Signore, vedono la salvezza. E noi? Ognuno può domandarsi: che cosa vedono i nostri occhi? Quale visione abbiamo della vita consacrata? Il mondo spesso la vede come uno “spreco”. Il mondo la vede forse come una realtà del passato, qualcosa di inutile. Ma noi, comunità cristiana, religiose e religiosi, che cosa vediamo? Siamo rivolti con gli occhi all’indietro, nostalgici di ciò che non c’è più o siamo capaci di uno sguardo di fede lungimirante, proiettato dentro e oltre? Avere la saggezza del guardare – questa la dà lo Spirito –: guardare bene, misurare bene le distanze, capire le realtà. Il Signore non manca di darci segnali per invitarci a coltivare una visione rinnovata della vita consacrata. Apriamo gli occhi: attraverso le crisi – sì, è vero, ci sono le crisi –, i numeri che mancano, le forze che vengono meno, lo Spirito invita a rinnovare la nostra vita e le nostre comunità. Apriamo il cuore, con coraggio, senza paura… mettiamoci davanti al Signore, in adorazione, e domandiamo occhi che sappiano vedere il bene e scorgere le vie di Dio».
Che cosa stringiamo tra le braccia?
Simeone accoglie Gesù tra le braccia. Dio ha messo suo Figlio tra le nostre braccia perché accogliere Gesù è l’essenziale, il centro della fede. A volte rischiamo di perderci e disperderci in mille cose, di fissarci su aspetti secondari o di immergerci nelle cose da fare, ma il centro di tutto è Cristo, da accogliere come il Signore della nostra vita. Quando Simeone prende fra le braccia Gesù, le sue labbra pronunciano parole di benedizione, di lode, di stupore.
Se ai consacrati mancano parole che benedicono Dio e gli altri, se manca la gioia, se viene meno lo slancio, se la vita fraterna è solo fatica, se manca lo stupore, non è perché siamo vittime di qualcuno o di qualcosa, il vero motivo è che le nostre braccia non stringono più Gesù. E quando le braccia di un consacrato, di una consacrata non stringono Gesù, stringono il vuoto, che cercano di riempire con altre cose, ma c’è il vuoto. Stringere Gesù con le nostre braccia: questo è il segno, questo è il cammino, questa è la “ricetta” del rinnovamento.
Se accogliamo Cristo a braccia aperte, accoglieremo anche gli altri con fiducia e umiltà. Allora i conflitti non inaspriscono, le distanze non dividono e si spegne la tentazione di prevaricare e di ferire la dignità di qualche sorella o fratello. Apriamo le braccia, a Cristo e ai fratelli! Lì c’è Gesù.Anche se sperimentiamo fatiche e stanchezze, rimettiamo Lui al centro e andiamo avanti con gioia», e - incoraggiati da mons. Delpini - «viviamo per lui, dimoriamo in lui, troviamo in lui quella parola che orienta il cammino, quella vocazione che decide la sequela, quella rivelazione che risponde e converte le domande e le attese di ogni uomo e di ogni donna. L’unico necessario è Gesù, ieri, oggi e sempre».
ANNA MARIA GELLINI