Luci e ombre del bis al Quirinale
2022/3, p. 1
La prima reazione al bis di Mattarella è di sollievo e rassicurazione. Della comunità internazionale, dei mercati, ma soprattutto di una larga maggioranza dei cittadini.
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INTERROGATIVI RIMASTI IN SOSPESO
Luci e ombre
del bis al Quirinale
La prima reazione al bis di Mattarella è di sollievo e rassicurazione. Della comunità internazionale, dei mercati, ma soprattutto di una larga maggioranza dei cittadini.
Sia per il generale apprezzamento per la persona e per il lusinghiero giudizio su come ha svolto il suo primo, difficile mandato dentro acque tempestose, politiche e non. Sia perché, nelle condizioni critiche in cui versano il paese, l’Europa e il mondo, la soluzione che ne è sortita giova a una preziosa stabilità-continuità.
Specie sul fronte del governo a guida Draghi alle prese con le tre sfide cui lo stesso Mattarella ha fatto cenno nelle stringatissime parole con le quali ha dato il suo sofferto assenso ai capigruppo parlamentari che gli hanno portato la notizia della larga intesa politica sul suo nome dopo sei “giorni di passione”: il dovere grave di fronteggiare le tre emergenze, sanitaria, economica, sociale.
Senza maggioranza
Tra le peculiarità di questa elezione del capo dello Stato che l’hanno resa singolarmente tormentata e complessa, una in particolare: quella per cui nessuno schieramento tradizionale (né centrodestra, né centrosinistra) disponeva di una maggioranza qualificata (assoluta degli aventi diritto dopo il terzo scrutinio); e, di più, l’esigenza che non si producesse una divisione interna alla larghissima maggioranza di quasi unità nazionale ma non politicamente omogenea che sostiene il governo Draghi.
Un esecutivo così concepito – “privo di una formula politica” – sin dal suo insediamento su mandato del presidente Mattarella un anno fa. Ad acuire le difficoltà ha concorso la candidatura al Colle – mai formalizzata, ma mai smentita – del premier, sostenuta come la più autorevole da uno schieramento trasversale. Il cui trasloco tuttavia, da palazzo Chigi al Quirinale, avrebbe potuto compromettere la possibilità di assicurare continuità a una maggioranza di governo tanto estesa quanto eterogenea. Che – si sosteneva da più parti – solo l’autorevolezza del premier poteva garantire.
Sul dilemma Draghi al Colle oppure ancora alla guida dell’esecutivo tra i partiti e dentro ai partiti si sono manifestate divisioni trasversali. Dopo giorni e giorni all’insegna di negoziati inconcludenti, opache manovre, candidature bruciate, è prevalsa – prima nella base parlamentare e poi ai vertici dei partiti – la decisione di non muovere le cose, di preservare nelle rispettive postazioni ai due vertici dello Stato Mattarella e Draghi. Non è qui la sede per ripercorrere la trama di quei giorni di cui le cronache sono state prodighe. Solo qualche telegrafica osservazione a margine.
Breve cronaca di un’elezione
Primo. Non si può dubitare della sincerità con la quale a più riprese Mattarella aveva motivato la sua ferma indisponibilità. Egli è stato costretto a cedere alle pressioni e alla larga volontà del parlamento a fronte di uno stallo che rischiava di reiterarsi contro ogni limite di decenza.
Faremmo tuttavia un torto a lui se esorcizzassimo le solide ragioni di rango costituzionale che lo facevano (e lo fanno) convinto che l’eccezione del bis non possa e non debba assurgere a regola. Contro la palese volontà dei padri costituenti che, non a caso, fissarono in ben sette anni la durata del mandato, a scavalco delle legislature e delle maggioranze politiche contingenti. Mi attendo che egli stesso, nelle prossime ore, solleciti il parlamento a un emendamento alla Costituzione che esplicitamente inibisca un secondo mandato, onde scongiurare in futuro ulteriori alibi e vie d’uscita a parlamento e forze politiche.
Secondo. La disarticolazione delle già fragili e posticce coalizioni. Evidentissima e clamorosa quella del centrodestra. Del resto, già divisa nel rapporto con maggioranza e governo: con FI e Lega dentro e FdI fuori all’opposizione. E tanto più oggi deflagrata anche a causa del maldestro, talvolta indecifrabile e persino autolesionistico protagonismo di Salvini. Di tutti i protagonisti quello più sconfitto. Si pretendeva king maker, ne esce delegittimato come leader della coalizione.
Basti considerare come il centrodestra entrò in partita, con un preteso diritto di prelazione e l’obiettivo di eleggere finalmente un presidente di centrodestra e l’epilogo, cioè la conferma di Mattarella. Del resto, si rammenti l’esordio: la surreale candidatura, chiaramente subita da Salvini e Meloni, di Berlusconi, che ha a lungo irresponsabilmente ostruito ogni discussione.
Sarebbe bastata la matematica a comprendere che non c’erano i numeri, ma, come non bastasse, ci si è messa una scriteriata conduzione politica che ha avuto il suo culmine nella clamorosa e prevedibilissima débacle della Casellati, seconda carica dello Stato, cui sono mancati settanta voti quasi tutti del suo partito di FI.
Terzo. Le rotture interne ai partiti. Esemplifico. Evidentissime quelle interne a Lega e M5S, tra Salvini e Giorgetti con i presidenti delle regioni del nord, tra Conte e di Maio, specie circa il rapporto con la candidatura di Draghi; tra governisti e no in FI; ma anche dentro il PD, che solo, un po’ più professionalmente, riesce a “diplomatizzare” i propri conflitti interni e che – questo va riconosciuto a merito del segretario Letta – ha tratto vantaggio dal suo motivato attendismo. Cioè dalla convinzione che, non avendo nessuno i numeri per imporsi, era inutile e autolesionista avanzare unilateralmente candidature che sarebbero state puntualmente bruciate.
Quarto. Il conclamato sfarinamento di partiti e coalizioni retaggio estenuato del bipolarismo della cosiddetta (impropriamente) seconda Repubblica imprimerà una spinta nella direzione di una revisione della ibrida (bastarda?) legge elettorale vigente nella direzione di una regola di stampo proporzionale. Per resettare un sistema politico tanto frammentato e indecifrabile da spingere a che ciascun partito corra per sé e che le maggioranze (variabili) semmai si costituiscano dopo il voto.
Vi si opporranno quanti a destra ancora si considerano favoriti (di sicuro la Meloni e forse Salvini); lo invocheranno i vari soggetti politici che aspirano a costituire un polo di centro autonomo (una parte di FI, Renzi, Calenda); ancora non si sa il PD puntualmente diviso sul tema tra Letta più restio (ma ora più tiepido sulle coalizioni avendo riscontrato la scarsa affidabilità della spalla del M5S) e le sue correnti interne già attestate su soluzioni proporzionali; così pure lo sostiene il M5S che, pur così balcanizzato al suo interno, predilige la proporzionale che non lo vincola a chiare scelte di campo.
Quinto. Il governo. Difficile fare previsioni al riguardo. Dopo la partita del Quirinale, esso sarà più forte o più debole? La conferma del solido asse Mattarella-Draghi milita a sostegno del suo rafforzamento. Così pure la circostanza che, come argomentano alcuni maliziosi osservatori, ora Draghi, non più condizionato da mire quirinalizie, possa procedere con più speditezza e determinazione rispetto agli ultimi mesi manifestamente contrassegnati da meno slancio e dalla propensione al differimento dei nodi più rilevanti e controversi (pensioni, fisco, giustizia, concorrenza, bonus…).
Ma militano in senso opposto, quello di un governo più debole, altri tre fattori: l’appannamento dell’immagine del premier cui non è riuscita l’ascesa al Colle, l’impatto sul governo delle divisioni tra e nei partiti, la prospettiva di elezioni politiche ravvicinate che plausibilmente acuiranno pulsioni elettoralistiche e potrebbero persino accorciarne l’orizzonte (ottobre?). Si pensi alla tentazione dell’assalto a una legge di bilancio cavalcata da ciascun partito in chiave elettoralistica che accentuerebbe le fibrillazioni.
Sesto. Una parola critica meritano i media. Naturalmente, quale più quale meno. Ma in via generale la sovrabbondanza dell’informazione (si vedano il particolare le no stop e gli speciali) non è andata di pari passo con la sua qualità. Semmai il contrario. Essa ha concorso sia a nevrotizzare gli attori politici ossessivamente condizionati dalla comunicazione e dalla personalizzazione a discapito della riflessione e dello scambio nei luoghi a ciò deputati: gruppi parlamentari e organi di partito.
Con i cosiddetti “grandi elettori” attaccati a tv e agenzie di stampa e che chiedevano ai giornalisti di essere aggiornati. Sia a confondere le idee e a fornire all’opinione pubblica una rappresentazione distorta degli accadimenti e comunque indugiando su particolari irrilevanti e talvolta su retroscena di fantasia, pettegolezzi, banalità, fake news. Come se vi fosse bisogno di gettare ulteriore discredito sulla politica.
Luci e ombre, dunque. Per intanto possiamo tirare un respiro di sollievo. Poteva andare peggio. Siamo stati a un passo da una crisi di sistema. Avremmo potuto precipitare verso elezioni in mezzo alle macerie. Con un paese dilacerato e mettendo a serio repentaglio le cospicue risorse erogate dalla UE. Al momento, l’abbiamo scampata, al momento…
FRANCO MONACO