Lo stile di Gesù paradigma dell’umano
2022/2, p. 3
I religiosi devono lasciarsi interpellare dall’umanità di Gesù che ha fatto sua la condizione del lebbroso, della donna peccatrice, di tutta una umanità sfigurata e stanca.
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Lo stile di Gesùparadigma dell’umano
I religiosi devono lasciarsi interpellare dall’umanità di Gesù che ha fatto sua la condizione del lebbroso, della donna peccatrice, di tutta una umanità sfigurata e stanca.
A nessuno sfugge che stiamo affrontando questo passaggio con fatica e, in alcune circostanze, con paura. È bastato un virus a sfidare le nostre instabili sicurezze e a ricollocarci su quella frontiera della vita che esige il coraggio del rispetto dinanzi al disagio di vivere, prendendo atto delle esistenze ridotte, vere giare vuote dinanzi alla sete di tanta parte dell’umanità. Il Covid-19 ha piegato la cultura della potenza dentro la consapevolezza del limite, della precarietà, della morte, ma quel virus impercettibile ha svolto anche una funzione rivelativa: ha gettato una luce sulla vita umana, ha svelato chi siamo come persone e come comunità, ha posto sfide nuove, ha contestato questa idea di progresso, insieme a molte priorità ritenute intoccabili.
La pandemia, in questa lettura altra, non è solo un dramma ma rappresenta anche il risveglio da un torpore, la possibilità di riprendere il dialogo con la natura, di ripensare criticamente il nostro vivere insieme, l’idea stessa dell’ascesa inarrestabile del progresso. È bastato un virus, un agente esterno e non calcolato a riaccendere grandi interrogativi e mettere tutti dinanzi ad una accelerazione della realtà che, per la natura stessa dell’evento, ha comportato un cambiamento della stessa. È evidente che nulla è come prima, e questo non è solo uno slogan.
La pandemia, in questo senso, è un processo di cambiamento. Non è un mondo che sta morendo, ma un nuovo mondo che sta nascendo. Non è solo un tempo buio segnato dalla paura e dalla solitudine. Chi tratta l’umano come valore, come esperienza di stupore, come capitale reale e non funzionale, riconosce che questo è anche un tempo di grazia e di condivisione, una sorpresa, un’opportunità per coltivare una nuova filosofia dell’abitare, magari più incline a tenere in conto la complessità del reale.
Oggi, dinanzi a questi cambiamenti che non possono essere di facciata, occorre far emergere l’umano desiderante che grida il desiderio di un bene assente, come recupero delle relazioni che contano: dall’essere famiglia all’essere Fratelli tutti. Consentire a quest’umano di emergere, significa far ritornare i volti (Italo Mancini, Tornino i volti, Marietti 1989), le narrazioni personali e collettive. In questa nuova forma di essere e di operare, in questo modello di decrescita sostenibile la vita religiosa ha un ruolo importante, perché può tornare a dire una parola credibile, esercitando un ruolo ecclesiale e sociale; può tornare ad essere voce e volto profetico lungo le strade del mondo.
I religiosi devono lasciarsi interpellare dall’umanità di Gesù che ha fatto sua la condizione del lebbroso (Mc 1,40-45), della donna peccatrice (Lc 7,11-17), di tutta una umanità sfigurata e stanca (Mt 25,31-46) promuovendo, con audacia, l’esperienza del recupero dell’umano nel contesto comunitario e in quello pastorale, orientando il modo di umanizzare il mondo, dando forma di famiglia alla vita fraterna in comunità.
Occorre ripartire da una forma di vita fraterna semplice, dialogica e familiare, generativa e responsabile. Occorre ritornare a prendersi cura delle persone, trasformando il vissuto comunitario in vera esperienza di comunità-famiglia, perché saranno queste comunità le vere scuole del domani, spazi di libertà, centri di umanità, laboratori di umanizzazione, luoghi dove si potrà riservare debito spazio alla preghiera personale e comunitaria, all’impegno sociale e alla costruzione della civiltà dell’amore (Paolo VI).
L’abitare (Francesco, Amoris laetitia, n. 172), ricorda Papa Francesco, ha a che fare con il modo in cui si sceglie e si permette ai corpi di stare gli uni accanto agli altri. La comunità, quando non è uno spazio privato e limitato, quando non è una casa-dormitorio in cui ci si ritrova solo per degli sterili atti comuni, per dei pranzi che riempiono solo il corpo, in cui ci si si ritrova per un tempo contingentato, è la forma e il luogo teologico ed esistenziale dove si impara ad essere veramente uomini e donne attraverso la convivenza con il diverso, sentendosi padri e madri, figli e fratelli, famiglia (G. Salonia, Odòs. La via della vita. Genesi e guarigione dei legami fraterni, EDB, Bologna 2007).
3. La forma sinodale della vita consacrata
Un ulteriore passaggio della nostra riflessione ci porta a considerare che tra questa forma di vita fraterna e il cammino della sinodalità, come cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio, c’è una affinità che trova la sua ragion d’essere nella proposta evangelica di “quelli della via” - `odòs - (At 9,2), perché Gesù è “la via” (Gv 14,6). Vi è un unico cammino di Gesù che abbraccia tutto il suo ministero e coinvolge i discepoli che sono chiamati a seguire insieme la stessa “via”. Urge, quindi, convertirsi ad una forma di Chiesa e di vita che si concretizzi nell’esperienza di un cammino condiviso che trasforma un non popolo nel popolo di Dio che impara a «fiorire dove il Signore lo ha piantato» (Beata Elia di S. Clemente).
Dentro questo percorso sinodale, la vita consacrata non può non sentirsi interpellata, tanto più che la sua forma di vita religiosa (Monaci, Mendicanti, Società di vita apostolica) e le distinte forme di vita fraterna in comunità hanno trasmesso modalità sinodali pluriformi nello stile e nel governo, nella economia e nella promozione del bello. Non dimentichiamo, infatti, come scrive Evagrio Pontico, che anche il monaco è tenuto a irradiare questa dimensione sinodale del suo essere Chiesa: il «monaco è colui che è separato da tutti e unito a tutti» (E. Pontico, Sulla preghiera, 125). Edith Stein ricorderà questa sinodalità condivisa sostenendo che la vocazione-missione di ognuno è quella di «stare davanti a Dio per tutti».
La sinodalità è nella natura della vita religiosa, la sinodalità come stile di vita è una esigenza primaria che fiorisce dall’humus della koinonia fraterna vissuta nello spazio teologale dove si sperimenta il primato della mistica presenza del Signore che ricorda che non ci siamo scelti, ma che siamo stati scelti (Mt 18,20). Tuttavia, la comunione fraterna come spazio teologale non si dà per automatismo, accade solo se la comunità ha cura di tessere relazioni di fede, speranza e carità sostenute dalla Parola di Dio, dall’Eucaristia e da una vita secondo lo Spirito. Se tutto questo vien meno «c’è il rischio di condurre esistente giustapposte e parallele, il che è ben lontano dall’ideale di fraternità» (CIVCSVA, La vita fraterna in comunità, n.32) e, di conseguenza, viene appesantito il cammino di sinodalità, poiché, come dimostra la vita, questa non fiorisce spontanea, a meno che non la si riduca ad un puro atto amministrativo. Non a caso il Documento della CIVCSVA, Il servizio dell’autorità e l’obbedienza, n.20 (11 maggio 2008), delinea come un orizzonte sinodale entro cui accade e si sviluppa la forma sinodale della vita fraterna: «Chi presiede ha la responsabilità della decisione finale, ma deve giungervi non da solo o da sola, bensì valorizzando il più possibile l’apporto libero di tutti i fratelli o di tutte le sorelle. La comunità è tale quale la rendono i suoi membri: dunque sarà fondamentale stimolare e motivare il contributo di tutte le persone, perché ognuna senta il dovere di dare il proprio apporto di carità, di competenza e di creatività».
La sinodalità, come forma poliedrica dei carismi, non solo aiuta a capire la legittimità delle comunità-famiglia che cerca una grammatica nuova per potersi dire, ma apre alla stessa ri-comprensione delle opere, come capacità di dare forme nuove ai carismi. La ricostruzione del patto educativo globale è una di queste riforme che ci spinge, come sottolinea papa Francesco, a costruire un villaggio dell’educazione; investire sul futuro, perché il domani chiede il meglio dell’oggi; preparando persone che si occupino di educare a servire, perché educare è servire.
P. LUIGI GAETANI, OCDPRESIDENTE NAZIONALE CISM