Semeraro Michael Davide
L’oltre della pandemia e la vita consacrata
2022/2, p. 39
Da più parti e continuamente i numeri altalenanti della pandemia si alternano alle rassicurazioni tanto attese di una luce che già comincia a splendere in fondo al tunnel della destabilizzazione di questi mesi.

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Testimoni
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IL FUTURO DI DIO
L’oltre della pandemia
e la vita consacrata
Le disse Gesù:
<Donna, perché piangi,
chi cerchi?>.
(Gv 20, 15)
Da più parti e continuamente i numeri altalenanti della pandemia si alternano alle rassicurazioni tanto attese di una luce che già comincia a splendere in fondo al tunnel della destabilizzazione di questi mesi.
Ogni tempo di “grande tribolazione” (Ap 7, 14) porta in sé una rivelazione. Ogni rivelazione ha bisogno di essere accolta, altrimenti viene vissuta come una minaccia da cui tenersi al riparo nella speranza che la sua furia trasformatrice si scagli altrove. Per l’umanità, per la Chiesa e, di conseguenza, per la vita consacrata l’esperienza della pandemia è un “segno” (Lc 11, 29) e ha bisogno non solo di essere letto, ma anche di essere generosamente accolto nella vita concreta per orientare le scelte necessarie. Nel contesto difficile che stiamo vivendo due domande sono possibili, ma non equivalenti. La prima potrebbe suonare così: “Quando finirà questo flagello e potremo riprendere la ‘nostra’ vita?”. L’altra domanda risuona in modo completamente diverso:”La “nostra” vita è ormai segnata! Quale futuro siamo chiamati ad accogliere per poterlo costruire insieme?”
Quello che ci viene incontro non è un futuro qualunque, ma il futuro che si offre come promessa e come possibilità di rigenerazione della nostra vita consacrata. La domanda del Risorto, dopo aver attraversato fino in fondo alla morte, si rivolge a Maria di Magdala con una domanda che arriva direttamente al cuore del suo dolore: “Donna perché piangi, chi cerchi?” (Gv 20, 15). Come consacrati e consacrate, davanti alla tomba di tante nostre sante istituzioni e venerabili abitudini portiamo in cuore il dolore acuto della sepoltura di una serie di progetti e di aspettative di cui aspettavamo la rianimazione. Siamo ora chiamati a dare un nome preciso al nostro dolore per riqualificare il nostro desiderio. La domanda del Giardiniere chiede a Maria non una ma due cose: la ragione delle sue lacrime e l’anelito del suo desiderio. Mentre i “due angeli”, che presidiano la tomba vuota, si accontentano di chiedere “Perché piangi?” (20, 13), il Giardiniere aggiunge “chi cerchi?”
Su che cosa e per che cosa stiamo versando le nostre lacrime non solo in questo tempo di pandemia, ma ormai da decenni su tutta una serie di perdite che ci sembravano solo passeggere? Il Signore ci dà il permesso di piangere tutte le nostre lacrime e lo fa con immenso rispetto per il nostro dolore aldilà e al di sopra delle diverse ragioni. Nondimeno, non si accontenta di consolare le nostre lacrime, ma ci chiede di riqualificare il nostro desiderio. Per la vita consacrata, in questo tempo di tribolazione e di rivelazione, si presenta una grave urgenza. Dopo aver pianto su ciò che abbiamo perso e ci è stato tolto, abbiamo il compito di dichiarare a noi stessi e tra di noi chi è l’oggetto del nostro desiderio personale e condiviso tra fratelli e sorelle di una comunità. Il passato su cui abbiamo versato abbondantemente le nostre lacrime deve aprirsi ormai generosamente al ‘domani di Dio’. Per poter onorare con dignità e coraggio la nostra missione di consacrati è necessario ripartire dalla sofferenza e persino dall’insofferenza come luogo di salvezza e di autentica testimonianza, perché sia veramente profetica e sbilanciata verso il futuro di Dio. La sfida è quella di passare dalla nostalgia di noi stessi con le nostre abitudini alla nostalgia del regno di Dio con le sue sorprese.
Urgenza
La pandemia, che ha segnato profondamente e, di certo, in un modo molto più profondo di una semplice parentesi di cui si attende semplicemente la chiusura, è più che un segno dei tempi. Siamo di fronte ad una ‘urgentizzazione’ – perdonatemi il neologismo – di un cambiamento anche di programma, ma soprattutto di paradigma. La mutazione ormai si impone severamente dopo essersi proposta in modo più discreto ormai da qualche decennio. Un virus, invisibile e impercettibile, è stato capace di ingrippare la macchina non solo del mondo, ma anche della vita consacrata. Il Covid19 ha ingrippato il motore di una società lanciatissima e l’ha rallentata suo malgrado. Si potrebbe leggere tutto questo come una disgrazia, e lo è certamente! Al contempo e soprattutto siamo di fronte ad una rivelazione che, con il nostro consenso, può diventare l’orientamento per trovare una nuova direzione per il cammino. Il nostro mondo non è l’unico possibile e il nostro modo non è il migliore in assoluto. Il virus ci ha rimesso al nostro posto di creature vulnerabili e mortali, e questo vale anche per tutte le istituzioni, non escluse quelle “religiose” di ogni ordine e grado.
Il discernimento e i discernimenti, cui siamo messi di fronte e quasi obbligati dalle circostanze e dall’accelerazione dei mutamenti in atto, esigono una scelta di fondo: essere pronti a tutto e accettare di perdere tutto. Se ci manca questa attitudine di fondo e senza questa disponibilità radicale siamo obbligati, per onestà intellettuale e spirituale, a riconoscere che quello cui siamo disposti non è il discernimento, ma dei semplici aggiustamenti o lodevoli adattamenti. Un discernimento mascherato è un modo per lasciare il nostro mondo di vita consacrata uguale a se stesso nonostante tutto e persino attraverso tutto un apparente marchingegno di rinnovamento. Proprio come è avvenuto in questo anno di pandemia, le restrizioni e l’isolamento imposto sono state l’occasione per respirare o per soffocare e ciò che fa la differenza è il nostro modo di sentire e di reagire.
Il futuro di Dio si può facilmente – si fa per dire! – distinguere da qualsivoglia altro futuro dal segno distintivo e indicativo della croce che rimanda al mistero pasquale nel cui paradosso esistenziale la vita dei religiosi e delle religiose è doppiamente immerso: per il battesimo e per la consacrazione religiosa. Ciò che ci viene richiesto in questo momento storico è una sorta di rivalutazione esistenziale della capacità pasquale di morire a tante realtà e modalità. Questa è l’unica condizione per rinascere realmente non dall’alto delle nostre immaginazioni, ma dal basso della nostra concreta vita personale, comunitaria e congregazionale. È giunto il tempo di ricordarci reciprocamente che il nucleo incandescente, duraturo e irrinunciabile dei nostri diversi carismi nella Chiesa a servizio dell’umanità è ciò che potremmo definire così: carisma pasquale. Potremmo ridire ciò con una suggestione più concreta: Bisogna fare tutto lasciando che Dio operi nelle nostre vite. Se non possiamo e non dobbiamo dimissionare dal nostro impegno e dalla nostra preparazione di un futuro per noi stessi e le nostre comunità e congregazioni, al contempo ci è chiesto di farlo non in modo strategico, ma pasquale. Ciò esige che ogni nostra iniziativa e immaginazione sia prima di tutto una forma di accoglienza e di ricezione serena di qualcosa che non viene da noi e chiede di essere accolto. Isacco di Ninive amava ripetere:″L’arte del cristiano è quella di aspirare la vita da dentro la morte‶.
Ogni nostro desiderio di avere un futuro, con tutti gli sforzi necessari per darci un futuro, deve avere la capacità di lasciarsi condurre verso il futuro che ci sarà donato anche se non avesse un futuro se non quello dell’eternità. Se c’è un futuro per tutto ciò che mettiamo sotto il nome di “carisma” questo passa attraverso il coraggio di ripartire dal basso delle realtà che siamo chiamati a vivere e a patire. Se i bisogni si soddisfano con i prodotti, il desiderio ha bisogno di orizzonti. Questo dinamismo di auto-consapevolezza si fonda sulla differenza riconosciuta e assunta tra l’immortalità che ci è negata e la vita eterna che ci è promessa. Una espressione magnifica del monaco nonagenario Ghislain Lafont può dare fondamento al nostro approccio: “L'uomo è un desiderio infinito interrotto dal desiderio dell'altro. Se questa è la legge fondamentale del funzionamento del nostro essere umani, non può essere diverso per il nostro essere discepoli e consacrati. La nostra discepolanza e la nostra missione dovrebbe essere guidata, per parafrasare Lafont, da un desiderio di trasmettere interrotto dal desiderio di accogliere l’altro con il suo tesoro e il mondo in cui ci troviamo a vivere, come un luogo amato in cui ci doniamo fino all’ultimo senza nessuna inutile ritrosia.
Dinamismo pasquale
Se entriamo realmente in questa riqualificazione essenziale dei nostri carismi particolari allora diventerà evidente per tutti che ci sarà dato ‘un futuro’ solo se accetteremo generosamente di avanzare nella direzione pasquale. Come per il popolo nel deserto, per avanzare nella direzione pasquale la guida è il Vangelo che diventa per noi come la nube e la colonna di fuoco di cui ci parla l’Esodo: «l Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco, per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte» (Es 13, 21). Al punto in cui siamo, o almeno sentiamo di trovarci, bisogna viaggiare nella notte contando sulla guida delle stelle! Proprio un tempo come il nostro, in cui ci sentiamo come privati di un futuro, è il tempo privilegiato per aprirci all’attesa spassionata del ‘dono di Dio’ (Gv 4, 10). Come per la donna samaritana, accogliere il dono significa rinunciare alla propria aspettativa di trovare una soluzione alla fatica quotidiana di attingere l’acqua al pozzo. Ciò che ci viene promesso è una sorta di ‘oltre-dono’ non nel senso dell’eccezionalità, ma dell’assoluta eccedenza rispetto alle nostre aspettative e quasi sicuramente in controtendenza alle nostre strategie. Solo così saremo in grado di fare il salto “in eternità” rinunciando alla tentazione di perseguire l’immortalità. Questa non può che essere una ‘ipotetica immortalità’ di ciò cui siamo abituati persino quando la localizziamo dopo la morte e nell’aldilà in una speranza religiosa non ancora sufficientemente evangelica.
Siamo in un momento non solo di crisi sanitaria, sociale, economica, culturale e politica. Queste crisi che toccano la carne e il cuore dei nostri fratelli e sorelle in umanità sono anche le nostre. Ma non possiamo nasconderci dietro le foglie di fico del Covid19. Il tempo che viviamo è segnato dalla fatica di passare da un’epoca teologica ad un’altra. Si tratta di quella ‘fede modesta’ di cui parla il mio confratello benedettino François Cassingena-Trevedy. Non è altro ed è proprio il passaggio epocale dall’alienazione e dalla mitologia religiosa di tutte le religioni, compreso il ‘cristianesimo’ con tutti gli elementi istituzionali e gli orpelli inevitabili, alla libertà e all’umiltà della fede pasquale radicalmente kenotica e nuda.
In questi anni intensi, vissuti sotto la guida del vescovo di Roma, papa Francesco, la Chiesa sembra aver ritrovato la strada della nostalgia del Regno di Dio che viene, preferendola a se stessa con le proprie abitudini mentali e di costume. Perché questo avvenga realmente risuona l’invito di Gesù di Nazaret che riprende lo stesso invito del Battista: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1, 15). Ogni volta che il Vangelo ritrova il suo posto d’onore non solo liturgico, ma esistenziale nella vita della Chiesa, come pure nel vissuto di ogni singolo credente, le cose, pur rimanendo uguali nella sostanza, sono avvertite esistenzialmente in modo profondamente diverso. Si ritrova infatti la forza di decidere nuovamente, ogni giorno, di diventare discepoli, punto e basta! Questa decisione di discepolanza è certamente magnifica. Nondimeno, l’opzione non solo preferenziale, ma radicale per il Vangelo non può che complicare enormemente il nostro modo di abitare il mondo e di vivere come Chiesa perennemente in esodo da se stessa.
Generazioni nuove e novità della generazione
Si fa urgente la capacità e la volontà di uscire dalla ripetizione e di superare il modello della riproduzione per abbracciare radicalmente un modo di generazione realmente casto. Certo, ci auguriamo che dei giovani chiedano di essere iniziati alla nostra vita con l’intento di viverla come noi, anche se non in modo identico al nostro. Nondimeno, la nostra prima preoccupazione non dovrebbe essere quella delle nuove generazioni di cui parliamo così tanto e che si fanno non solo rare, ma talora persino troppo problematiche. La priorità è quella di aprirci alla novità della generazione liberata dalla semplice riproduzione o, peggio ancora, clonazione. L’analogia con quanto avviene normalmente in una famiglia con la generazione dei figli di cui troviamo eco nel nostro linguaggio – madre, padre, fratello, sorella, figlio, figlia – per quanto diffusa non deve trarci in inganno. Analogamente a quanto avviene nella generazione di un figlio, non ci si può concentrare sull’educazione, ma su quei momenti di intimità che possono sfociare nella generazione, ma non necessariamente. Così pure la cosa essenziale per una comunità è la propria autentica vita di comunione che si fa missione. Questa può fare spazio a nuove generazioni di consacrati, ma non necessariamente. Mentre resta irrinunciabile la carità all’interno della comunità che rimane feconda come l’amore di una coppia sterile che può essere umanamente più feconda di una coppia biologicamente fecondissima.
Si tratta di seguire le orme dei primi apostoli, dei primi discepoli e dei primi missionari senza accontentarsi semplicemente di ricalcarle. Come coloro che ci hanno trasmesso il depositum fidei, siamo chiamati a trasmettere nel modo più adeguato e conveniente possibile il tesoro ricevuto. Per entrare in questo dinamismo spirituale di umile ricezione per una gioiosa trasmissione ci viene in aiuto un pensiero magnifico di Ireneo di Lione. Si tratta di uno dei Padri della Chiesa della primissima ora il quale ebbe il privilegio di succhiare il latte del Vangelo al seno di un discepolo, del Discepolo Amato. Così egli scrive in una delle prime e fondamentali opere di teologia: “La tradizione… un liquore che fa ringiovanire il vaso che lo contiene”. Ispirandomi al commento inedito del padre abate David d’Hamonville, vorrei sottolineare prima di tutto l’immagine così particolare: un liquore, qualcosa di fluido. Sì, la tradizione è liquida! Che bella notizia è questa nel contesto socio-culturale post-moderno in cui ci sentiamo minacciati da una sorta di imminente catastrofe che ci toglie la terra sotto i piedi. Temiamo di perdere quella solida e stabile terra su cui siamo abituati non solo a camminare, ma pure a radicare e costruire. L’ormai classica espressione del filosofo Zygmunt Bauman ci affascina e, allo stesso tempo, ci impaurisce: «Il cambiamento è l'unica cosa permanente e l'incertezza è l'unica certezza».
A ben pensarci, quanti ascoltarono per primi la parola del rabbì di Nazaret e dovettero misurarsi con i suoi gesti così poco convenzionali, devono aver provato i nostri stessi sentimenti: una mistura di consolazione e di terrore. Una parola come ‘Vino nuovi in otri nuovi!’ (Mc 2, 22) non va forse in questa direzione e non crea necessariamente e sempre scompiglio? Ad ogni presa di coscienza segue una necessaria consapevolezza delle conseguenze. Se la tradizione si ‘fissa’ e si solidifica tanto da pietrificarsi, perde la possibilità di svolgere il suo ruolo di mediazione. Diventa così impossibile che il messaggio sia trasmesso attivando una crescita simultanea in quanti lo annunciano, in quanti lo accolgono come pure tra quanti l’annunciano e quanti lo accolgono. Le difficoltà del momento presente sono la conseguenza di una pietrificazione mummificante. Siamo di fronte ad una certa stagnazione e una specie di ‘invasamento’ di ciò che chiamiamo ‘fede’ e ‘vita consacrata’.
Non solo. Bisogna anche sottolineare l’azione di cui la tradizione è soggetto secondo Ireneo: la tradizione ringiovanisce, fa ringiovanire. Siamo di fronte ad un’incredibile pretesa in un mondo che ritiene che tutte le cose invecchino con una velocità sempre più accelerata! Secondo il sentire comune non solo tutto invecchia, ma viene dichiarato ormai superato e fuori uso in modo sempre più rapido. L’obsolescenza è diventata un fenomeno universale e il progresso tecnologico ce ne offre una prova quotidiana in maniera talora mortificante. In un incessante flusso di innovazioni continue che inducono a mettere tra i rifiuti la maggior parte delle cose che si vivono, c’è qualcosa che infine rimane? La nostra esperienza credente ci fa rispondere fieramente: “Sì, il Vangelo!”. Come afferma un teologo contemporaneo:
«Si dovrà ascoltare un Vangelo che non sia “di cristianità”. Non si tratta certo di un altro Vangelo. Di Vangelo ce n’è uno solo, quello di Cristo. Nondimeno il Vangelo è da riaccogliere come parola che resta indifferente al linguaggio dogmatico come pure all’istituzione. Penso al Vangelo di un altro cristianesimo, quello che non esiste ancora.
Il terrore della risurrezione
Siamo obbligati a constatare, ogni giorno, come il vaso rischia di essere percepito da alcuni come miseramente vuoto. Taluni hanno persino la sensazione che sia talmente chiuso e stantio da non avere nessun interesse ad aprirlo per sentirne il profumo e gustarne il sapore. Sempre che sia possibile aprirlo il vaso?! Talora è talmente incrostato da doverlo spaccare per vedere cosa ci sia veramente dentro. Non raramente sembra preferibile lasciarlo ermeticamente chiuso per evitare la brutta sorpresa di un tanfo insopportabile come si trattasse di un prodotto andato a male. Per non cadere in questa trappola e andare oltre è necessaria la fioritura di una insurrezione di speranza e di fantasia:
“Crediamo al Vangelo che dice che il Regno di Dio è già presente nel mondo, e si sta sviluppando qui e là, in diversi modi. […] È presente, viene di nuovo, combatte per fiorire nuovamente. La risurrezione di Cristo produce in ogni luogo germi di questo mondo nuovo; e anche se vengono tagliati, ritornano a spuntare, perché la risurrezione del Signore ha già penetrato la trama nascosta di questa storia, perché Gesù non è risuscitato invano. Non rimaniamo al margine di questo cammino della speranza viva”.
Ogni discepolo, dunque, è chiamato a diventare uno strumento di risurrezione se vuole essere riconosciuto come testimone credibile e quale compagno di cammino affidabile da parte degli altri. Questo vale parimenti e ancora più radicalmente per la vita della Chiesa. Quale corpo discepolare e testimoniale, la Chiesa ha come vocazione quella di essere strumento del dinamismo della risurrezione per essere un vero sacramento di salvezza per l’umanità. Il rischio è quello di fermarsi al lodevole desiderio di occuparsi del ‘corpo’ (Gv 20, 12) dell’amato defunto e della sua tomba. La Chiesa rischia di assomigliare a Maria di Magdala prima di essere scossa dalla voce del Pastore tornato dai morti per rimettere in moto la vita. Un teologo anglofono contemporaneo mette in evidenza due letture possibili e compresenti della risurrezione. La prima è nella linea di una conferma della messianicità di Gesù di Nazareth (At 2, 36) e di una rivincita sull’ingiustizia subita da parte dei suoi nemici (1Tm 3, 16). James Alison sottolinea invece che la risurrezione è una vera e propria insurrezione della gratuità assoluta del dono. La gratuità assoluta rappresenta un vero e proprio shock per la nostra mentalità e tendenza egocentrata. È fondamentale imparare a pensare la risurrezione come l’′irruzione di ciò che è totalmente altro, totalmente gratuito‵. Tutto ciò, continua Alison, “non è soltanto un’esperienza magnifica, ma è pure terrificante”, ma è il cuore di ogni forma di vita consacrata aldilà delle diaconie e delle missioni particolari: una testimonianza spassionata di gratuità spinta fino all’inutilità. Potremmo dire, a questo punto, che il terrore della risurrezione rischia di essere più potente di quanto sia il terrore della morte! E questo rischia di valere in modo particolare per la nostra vita consacrata.
Perché questo avvenga è necessario trasformare il tempo di crisi che attraversiamo in un tempo sabbatico. Un tempo di rinuncia a raccogliere e persino a coltivare, per ritornare al <punto zero> della nostra avventura discepolare e così poter imparare come rimetterci a coltivare per poter raccogliere messi nuove e frutti insperati e non scongelati. La sospensione del ‘sabato santo’ è la matrice affidabile di tutte le trasformazioni che hanno per soggetto lo Spirito del Crocifisso Risorto. Più che pensare alle nuove generazioni siamo chiamati a ripensare una nuova generazione. Per questo è necessario riportarsi a ciò che Jean-Marc Liautaud chiama <punto zero>, dove ci è dato di acconsentire al vuoto, alla feroce destabilizzazione cui siamo costretti, per rinunciare ai modelli noti e aprirci finalmente al <nuovo> (Mc 2, 22) di cui non sappiamo nulla se non che sa di promessa e di vita. Nella misura in cui accetteremo e ameremo l’idea che Dio voglia fare per noi ‘una cosa nuova’ (Is 43, 19), solo allora ci metteremo finalmente a fare qualcosa di simile al ‘vino buono’ (Gv 2, 10).
La paura di rinunciare deve trasformarsi, attraverso l’energia pasquale, nel coraggio di ‘sprogrammarci’ per attraversare silenziosamente il tempo necessario del deserto. In questo deserto irrinunciabile siamo chiamati a scrollarci di dosso i nostri programmi, le nostre idee e i persino i nostri valori che dobbiamo avere il coraggio di saper mettere tra parentesi per renderci veramente conto se sono veramente ancora tali, pur essendo stati tali finora. Come dice il monaco Sabino Chialà: “Nelle rinunce che noi facciamo scegliendo la vita monastica dovremmo mettere anche questa: la rinuncia ad una continuità a tutti i costi”. Come la sposa-vedova del Cantico dei Cantici, più che mai la Chiesa ha bisogno di imparare a fare il lutto su tutti quegli aspetti del suo passato che si sono rivelati incompatibili con le esigenze e lo stile del Vangelo. Di conseguenza, la vita consacrata è chiamata a metabolizzare il lutto su tutte quelle forme che non sono più in grado di mediare l’annuncio del Vangelo per gli uomini e le donne del nostro tempo. Un rinnovamento senza rinuncia è impensabile e l’accoglienza del futuro di Dio esige molte lacrime. Una creatività nel trasmettere il tesoro della fede senza la disponibilità a cambiare e a creare nuovi linguaggi e nuovi stili sarebbe solo una verniciatura esterna. Per quanto ben fatto, si ridurrebbe ad un semplice “adattamento” senza intaccare l’attitudine di fondo tanto da risultare inaffidabile ed estranea alla maggior parte di coloro cui il Vangelo andrebbe annunciato.
La figura spirituale della vedova, tanto cara ai Padri della Chiesa, ci rammenta come nella vita non si può essere eternamente vergini e sposi. Arriva anche il tempo in cui bisogna saper attraversare la vedovanza nella serena coscienza che il meglio di noi – l’esperienza dell’amore concessa a ciascuno a vari livelli e in vari modi – è dall’altra parte del tempo e là ci attende, essendo già parte dell’eternità. Rammentiamo la vedova di Zarepta (1Re 17, 9ss.), assieme a quella ammirata da Gesù nel tempio per la sua capacità di dare tutto (Mc 12, 42). In queste figure ci viene indicato lo stato e lo stadio della maturità spirituale: non avere più paura della morte perché, pur essendo vivi, in realtà si è già attraversato il mistero della morte. Lo ‘spezzarsi dello spirito’, a motivo della perdita della persona amata, permette di non temere più – nonostante il dolore – le inevitabili reiterate separazioni che avvengono nella vita.
Così la vedovanza, motivo di fragilità, si trasforma in un motivo di forza ancora più grande aprendo ad una fase dell’esistenza in cui l’attenzione e la cura è interamente rivolta verso gli altri. Tutto ciò, invece di bloccare il coraggio di fronte alla vita, rende possibile un’audacia relazionale inedita. L’esperienza della perdita, invece di rendere fragili e continuamente bisognosi di trovare appoggio e consolazione all’esterno, permette di guardare il mondo con infinita benevolenza. Proprio questa maturità patita e assunta mette in grado di prendersi cura con assoluta gratuità senza aspettarsi nulla in cambio. In un’altra sua omelia lo stesso papa Francesco ammonisce: “La Chiesa potrà essere fedele alla sua ‘vedovanza’, oppure ricercare sicurezza in altre realtà diventando così una Chiesa tiepida, mediocre e mondana”. Questo detto di papa Francesco vale in modo ancora più forte per la vita consacrata chiamata dalla storia a vivere il lutto di se stessa per investire sulla fragilità perché il seme della nostra vita ‘caduto in terra’ (Gv 12, 24) possa germogliare.
Investire sulla fragilità
Investire sulla fragilità non può che cominciare da una ritrovata frugalità anche in ordine ai discorsi religiosi. In tal modo la fragilità può diventare un ‘materiale per costruire’ secondo una suggestiva immagine di padre François Cassingena-Trevedy. Il rischio è che persino i discorsi spirituali più elevati siano delle chimere se non sono in grado di impastare la storia soprattutto quando questa mostra il suo volto più esigente in termini di complessità e di complicanza. Il nostro compito è di accogliere il futuro di Dio che fa del nostro passato un profumo di presente amabile. In questo dinamismo di accoglienza, in cui la fragilità da impedimento diventa materiale per costruire, il cemento è il Vangelo. Non un vangelo-dottrina, ma un vangelo-vivente che rovina tutte le nostre costruzioni e immaginazioni smascherando e purificando le ragioni e le finalità della nostra vita. Nel crogiolo, talora assai faticoso, della compatibilità cristologica ed evangelica della nostra vita consacrata incarnata nella storia e non incartata dalla storia, possiamo sperare di separare un volto di umanità vivibile e condivisibile dalle infinite scorie dell’egoismo e dell’autoreferenzialità. È in questo anelito di umanità che siamo chiamati a far entrare eventualmente le nuove generazioni, mentre da questo anelito siamo chiamati a ripartire sempre e comunque anche quando la storia delle nostre istituzioni fosse giunta alla fase del sereno compimento.
Questo sarà realmente possibile se rimaniamo appassionatamente dediti alla novità della generazione che dura tutta la vita delle nostre persone e per tutto il corso storico delle nostre istituzioni. Il monito del Signore Gesù a Nicodemo, così notturno da essere già magnificamente pasquale, risuona ancora cristallino: “Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto” (Gv 3, 7). Questa parola è la risposta ad una domanda che forse sentiamo drammaticamente nostra: « Come può nascere un uomo quando è vecchio? » (Gv 3, 4). Perché questa risurrezione, ben diversa da ogni accanimento rianimativo, sia possibile, bisogna superare la paura di rinunciare a ciò che di noi stessi conosciamo e cui siamo abituati. La disponibilità a rinunciare comporta la disponibilità ad assumere coraggiosamente il conflitto con l’immagine che ci accompagna e con cui ci identifichiamo. Bisogna accettare che lo ‘specchio’ (Gc 1, 23) si infranga per guardarsi e guardare in modo diverso. La sfida che abbiamo davanti a noi è di ripartire dal ‘punto zero’ del nostro desiderio radicale per volgerci verso il ‘punto Omega’ del compimento donato secondo la suggestiva immagine di Theilard de Chardin.
Quello che viviamo ai nostri giorni è un momento delicato perché rischiamo di perdere e talora di rinunciare consapevolmente a quei valori che abbiamo duramente conquistato. Questo pericolo non dipende dal progresso, dipende dalla capacità o meno di mantenere e eventualmente di migliorare il nostro livello di coraggiosa disponibilità alla compassione. Siamo chiamati a costruire una comunità di umani per costruire insieme le reali possibilità di una speranza per tutti. Tutta la vita pubblica di Gesù fu la messa in atto della sua predica a Nazaret (Lc 4). Non è un discorso religioso che parla della legge: è un discorso che parla solo dell'essere umano. Non è un discorso su Dio, è un discorso sull'Uomo. Non è un discorso di restaurazione, è un grande messaggio di liberazione che cambia la vita e la rimette in viaggio sulle piste della speranza e della carità. Come ricordava il vescovo Gaillot:
«Siamo precipitati in un mondo nuovo. Siamo testimoni della fine di un mondo. Testimoni anche della nascita di un altro mondo, di cui non si sa ancora che cosa sarà. Il nostro cammino svela nuovi orizzonti e apre alla novità. […] Qualcuno ci crede già morti. Ma coloro che lo dicono, hanno dimenticato che eravamo semi... Semi di vita! Il domani è tutto da fare».
Come consacrati siamo chiamati ad essere, al cuore della Chiesa, esperti in umanità. Se siamo realmente formati alla forma pasquale di vita allora, come ripeteva Isacco di Ninive, saremo conformi a Cristo “esperto della nostra debolezza”. Siamo chiamati ad essere esperti di umanità reale e quindi per sua natura claudicante come il patriarca Giacobbe. Persone e comunità che vogliono vivere all’altezza del ‘proprio principio’ diventano esperti di ‘sprogrammazione’ e capaci di passare per la morte credendo ostinatamente alla vita. Rinascere dall’alto, secondo il Vangelo, è sempre ripartire dal basso del fallimento pasquale. È proprio vero ciò che dice il Concilio Vaticano II: «Cristo che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione». Solo così saremo risparmiati dal rischio di costruirci un futuro senza "av-venire" fondato su un passato senza memoria, il cui frutto non può che essere un presente senza Presenza.
Felici formule
Se siamo realmente capaci di acconsentire alla risurrezione non possiamo assolutamente fare di noi stessi e delle nostre tradizioni delle reliquie da conservare e venerare. Il Risorto si è sottratto al desiderio delle donne di imbalsamarlo con il loro amoroso dolore col rischio di trasformare il suo vento vitale in una reliquia immobile. Quando il Risorto protesta di non essere un ‘fantasma’ (Lc 24, 39) e si sottrae alla vita condivisa coi suoi discepoli, in realtà non lascia di se stesso una reliquia da venerare, ma un dinamismo di vita e di speranza da onorare. Onorare la risurrezione è una questione esistenziale e si rende possibile con la nostra disponibilità a rimetterci per strada e annunciare ‘dappertutto’ (Mc 16, 20) la risurrezione possibile senza tacere le morti necessarie e inevitabili.
Il “tempo si è fatto breve” (1Cor 7, 29) per insorgere insieme a dissodare solchi per una nuova semina. Perché questo avvenga dovremo imparare a riconoscerci fratelli e sorelle sapendo e volendo mettere insieme le nostre fragilità. Solo così potremo maturare in noi e tra di noi una necessaria “ecologia carismatica” che sia promettente e sostenibile. Accogliere il futuro di Dio significa rimboccarci le maniche per metterci a costruire il nostro futuro in modo sempre più circolare e condiviso. Una nuova impostazione delle diaconie e missioni pastorali non può fare a meno di rivedere la distribuzione e l’uso delle nostre strutture e persino delle nostre finanze. Più che fare la contabilità dei morti e dei feriti unitamente alla “stima dei danni di guerra”, siamo chiamati ad una seria e generosa condivisione delle energie umane e delle possibilità materiali.
La costrizione della pandemia potrebbe diventare l’occasione per fare finalmente tesoro di tutti gli stimoli ricevuti dalla storia e dalle situazioni delle nostre comunità per fare un passo oltre ogni immobilismo mortifero. Si tratta di immaginare, insieme, non solo una nuova tappa, ma una rinnovata modalità di portare oltre noi stessi la nostra vita consacrata non per assicurarci un futuro, ma per dare il futuro più bello all’avventura di essere discepoli e testimoni del Risorto. La sostenibilità della vita consacrata passa per una ridefinizione trasversale dei carismi, delle risorse umane e delle possibilità e dei mezzi da mettere a disposizione di un’unica missione da condividere. Perché questo possa concretizzarsi è urgente lasciarsi alle spalle ogni forma di autoreferenzialità mascherata talora dalla salvaguardia del carisma particolare con una sopravvalutazione talora ingenua della propria specificità e perfino unicità.
Il modo per uscire da questo pericolo è di imparare di nuovo il linguaggio dell’alleanza trovando felici formule di collaborazione, di sostegno reciproco e persino di affidamento. È tempo di imparare a condividere i luoghi pur nel rispetto reciproco; è tempo di condividere i servizi ineludibili per una vita consacrata che pur in declino non ceda alla decadenza. Ad esempio, sarebbe meglio condividere la stessa persona capace di assicurare il servizio dell’autorità in modo adeguato, piuttosto che lasciare le comunità senza una guida capace. Questo vale anche per l’accompagnamento dei giovani e quello degli anziani. Queste alleanze possono essere certo vissute all’interno delle stesse tradizioni e istituzioni carismatiche, ma pure in modo trasversale ad esse in base a prossimità geografiche e affinità spirituali maturate nel tempo. Penso alla “felice formula” di una realtà come il monastero di Civitella San Paolo che ha riunito sorelle della comunità di Bose e il piccolo resto di una comunità di benedettine. Penso pure all’esperienza “Village de François” che è subentrato al compimento della storia della comunità trappista di Sainte Marie du Desert nel sud della Francia. Ci sono già delle esperienze di risurrezione pagate a caro prezzo che possono ispirare e incoraggiare le scelte che ci stanno davanti. Una cosa è certa: non possiamo più disonorare la sfida che è la nostra e di nessun altro facendo finta che non stia succedendo niente e magari scomodando la Provvidenza.
Vorrei concludere con un verso tratto da una poesia di Claudio Damiani, non come augurio, ma per scongiurare che una cosa del genere avvenga nel nostro cuore, nelle nostre realtà di vita scelta e condivisa. Mai come in questo tempo, che è il nostro ed è stupendo, ci tocca resistere alla tentazione di corazzarci quasi per non soffrire. Al contrario siamo chiamati a spogliarci per essere semplicemente umani, mai abbastanza umani e mai troppo umani e di farlo appassionatamente insieme. Ecco il verso unito all’ardente preghiera che Dio ce ne scampi:
Per indossare l’armatura oggi ho impiegato due ore,
la battaglia invece è durata pochi minuti;
per togliermela ho impiegato tutto il pomeriggio,
domani non me la tolgo;
vado a dormire tutto vestito come in una bara di ferro.
FRATEL MICHAELDAVIDE OSB