Antoniazzi Elsa
Le Sorelle del Signore
2022/2, p. 25
Il convegno organizzato dalla comunità delle Sorelle del Signore in occasione del loro venticinquesimo di fondazione, è stata l’occasione per conoscere meglio una realtà e ha favorito il sorgere di alcune riflessioni.

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Testimoni
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25 ANNI DI UNA NUOVA FONDAZIONE
Le Sorelle del Signore
Il convegno organizzato dalla comunità delle Sorelle del Signore in occasione del loro venticinquesimo di fondazione, è stata l’occasione per conoscere meglio una realtà e ha favorito il sorgere di alcune riflessioni.
Fa un certo effetto essere convocati a un convegno per i primi 25 anni di una nuova fondazione. Infatti sono più numerose le volte in cui parliamo di centenari di fondazione e di presenza.
La comunità nasce da un’ispirazione di don Severino Pagani, sacerdote diocesano di Milano. Da allora, dopo le prime due sorelle, siamo giunti a 19 sorelle. La domanda che si affaccia, pur sapendo che non è fine, è sulla valutazione di questo numero: tante o poche? In sé la domanda è sconveniente. Potremmo rispondere che dipende dal futuro: tra 25 anni se saranno 30 allora 19 sono tante, se saranno 150 allora si potrà parlare di un piccolo inizio, come per tutti gli istituti.
Ma il senso di disagio nel seguire queste considerazioni numeriche nasce anche dall’emergere di un dubbio: è proprio vero che il numero conta? Certo, espresso così direttamente, tutti diremmo che no, non conta, eppure in fondo ci sembra che se un’idea è buona perché non deve diffondersi? In fondo non succede così nel mondo, ma ancor più seriamente non è successo così per la Chiesa?
Il contesto storico ci mette in guardia sul ruolo dei numeri, ridotti a massa. E per la vita religiosa l’impressione è che l’attenzione ai numeri, di cui oggi si lamenta la piccolezza, sia da far risalire a quel tempo di fondazioni in cui la comunità si riuniva intorno a un carisma che indicava un ambito di servizio. Acute ricostruzioni storiche notano come allo sviluppo dell’industria in Europa corrisponda una spiritualità ma anche un configurarsi di pii istituti che sono “piccole fabbriche “, tanto che spesso negli scritti di fondazione fa capolino la figura dell’alveare.
Lungi dal fare confronti che non hanno senso in uno sguardo consapevole delle dinamiche storiche, possiamo però dire che in una situazione così i numeri contano. Se, invece, la comunità si costruisce intorno ad uno stile con cui vivere la fedeltà al Vangelo, i numeri forse contano meno. Si tratta di offrire un’esperienza spirituale degna di essere vissuta e condivisa, non di redigere annali della fondazione. Nel 2002, nel primo numero della loro rivista L’albero di Zaccheo, le Sorelle affermano con libertà di non preoccuparsi per il futuro: «Siamo consapevoli che la nostra esperienza spirituale è ai primi passi, ma avvertiamo che le sue radici affondano nella tradizione della Chiesa; non siamo preoccupate per il futuro: molte donne ci hanno preceduto e il loro esempio di amore a Gesù ci incoraggia e ci istruisce».
Tra Diogneto e Benedetto
Il convegno dichiarava in effetti come la loro sia una novità di sostanza e non solo legata alla cronologia. Il titolo diceva “Tra Diogneto e Benedetto” unendo così due capisaldi della spiritualità cristiana.
Diogneto rimanda alla Lettera a Diogneto da cui traiamo preziose indicazioni sulla vita dei primi cristiani, data infatti intorno al 150. Da essa si evince uno stile di presenza nella società pagana di allora non separato, ma precisamente distinto su alcuni gesti cruciali. Può essere considerata come la rielaborazione del detto evangelico “Siete nel mondo ma non del mondo”, che la lettera riprende affermando che il cristianesimo è come l’anima nel corpo: «L’anima invisibile è racchiusa in un corpo che si vede; anche i cristiani li vediamo abitare nel mondo, ma la loro pietà è invisibile», non la si vede ma agisce. Siamo abituati a riferirci ad essa per lo stile cristiano, soprattutto quando si parla di laici, o qui di donne consacrate. Sappiamo bene, in realtà, che i consacrati sono un’esperienza specifica nella vita dello Spirito, ma di per sé sono laici battezzati. A questo punto bisognerebbe aprire una riflessione sugli istituti maschili che spesso hanno molti sacerdoti o che contemplano la consacrazione sacerdotale come elemento carismatico. Si aprirebbe allora una parentesi interessante, che però ci porterebbe troppo lontano.
Torniamo alle Sorelle che leggono il proprio stare nella storia con questo stile di condivisione. Chiaramente non si distinguono per un abito e neppure si presentano come sorelle, per alcune di loro nel proprio ambiente questa appartenenza non è dichiarata, immaginiamo specialmente dove lavorano. Dicono infatti: «Non abbiamo l’ansia di farci riconoscere, ma neppure la paura di manifestarci». Quando si parla di stile si fa riferimento ad un costante discernimento che cerca la via per essere lievito, senza la preoccupazione di un riconoscimento. Così la dimensione “pubblica” della vita consacrata diventa una realtà ecclesiale e non sociologica. Nel dibattito seguito alle relazioni del convegno un partecipante è intervenuto presentandosi come “vicino di casa” di questa comunità che desiderava conoscere un po’ di più. A ricordare una dimensione di tutta la vita cristiana: una testimonianza che interpella.
Liturgia, lavoro, fraternità
Il secondo faro è Benedetto, nominando il quale si nomina la dimensione monastica: la vita di preghiera, la vita comune, e la “fuga mundi”, il deserto.
Non è l’indicazione di un moto pendolare, quasi schizofrenico, ma due poli di un cammino sostanziato da un impegno nel lavoro, per il sostentamento, e da servizi ecclesiali di servizio della Parola e accompagnamento spirituale.
Come suggerisce Sequeri, anche questa comunità si pone, al di là di riferimenti spirituali precisi, nel solco della santità della vita di Nazareth riproposta a misura moderna da Charles de Foucauld: «Liturgia e lavoro. E per il resto, condivisione sincera della vita nel segno dell’agape».
L’ascolto in profondità della Parola, con lo studio che essa richiede, è il fulcro intorno a cui si organizza la vita spirituale delle singole e della comunità, per giungere ad avere un respiro biblico, di cui è pervasa la loro “Regola di vita”, come ha sottolineato padre Natanaele Fantini nella relazione: la lectio come momento fondante nei suoi aspetti di diverso studio e approfondimento, ma anche nella sua dimensione affettiva. Tonalità questa che pervade il clima spirituale di donne che si riconoscono come “sorelle del Signore” Gesù di Nazareth, «nominato nei suoi giorni terreni, alla scuola dell’evangelo e in riferimento all’oggi delle Sorelle», non solo memoria nello Spirito, ma presenza – come ha sottolineato p. Natanaele.
La vita comune, realizzata nelle dimensioni di una normale famiglia, al più 4 persone, è il luogo, ma anche il frutto della dedizione al Signore, capace di far sì che le Sorelle si vogliano bene e con questo desiderino contribuire alla “mistica della fraternità” cui papa Francesco ci ha aperti.
E, infine la dimensione desertica del riferimento monastico. Le condizioni di vita delle Sorelle sono evidentemente lontane dal deserto fisico e pure da quello monastico. Sono invece immerse nella città, luogo di terribile deserto. Qui la sfida a «superare l’apparente analogia» con la vita monastica e, invece farsi testimoni di una solitudine che, abitata dall’incontro con il mistero, rende feconda la relazione, che, senza imporsi, è capace di far uscire dall’anonimato le persone.
Ancora una volta parole antiche riplasmate, ma non stravolte dalla storia, e in essa dalla storia della Chiesa.
Evidentemente il Concilio Vaticano II, ha posto la Chiesa nell’attitudine di porre attenzione ai segni del tempo e di trovare la via, non per “acculturare” il vangelo, ma più sinceramente per annunciare il Vangelo a fratelli e sorelle che cercano, attendono e che semplicemente non conoscono il vangelo, ma una volta incontrato sappiano che in esso troveranno gioia. E in questo solco si pongono le Sorelle, come indicato nella relazione di fr. Paolo Romanelli.
Un piccolo particolare: p. Natanaele durante la relazione ha fatto riferimento all’espressione “esperienza spirituale della verginità”, il cui valore sta nella sottolineatura di una dimensione storica del valore della castità, non rimandata agli ultimi tempi. In questa espressione però troviamo anche il superamento di un riferimento molto diretto alla verginità della consacrata (del consacrato se ne parla sempre meno) che oggi risulta stucchevole.
Sguardo al futuro
Un tema toccato sia da una relazione che da una testimonianza è stato quello del futuro in ordine all’invecchiamento e/o all’inevitabile malattia. Questa attenzione è anch’essa frutto dei tempi, e non solo della vita religiosa. Sicuramente sarà importante riuscire a custodire il roveto ardente dell’esperienza anche quando per alcune i tempi e i modi dovranno essere diversi, e forse per tutta la comunità perché in quattro non si potrà che essere coinvolte. Preoccupazione legittima, ma che mi sembra rischi di portare con sé ancora la preoccupazione del fare, fosse pure un fare intorno a “ cose spirituali”. La fragilità è dell’umano, in 30 anni di Nazareth anche questa avrà avuto spazio e parafrasando san Paolo, la sororità con il Signore non può essere tolta.
Altro, invece, è la giusta considerazione di una maturazione del gruppo che accadrà quando le età saranno diverse e si variegheranno sempre di più i doni spirituali da valorizzare e condividere.
Con uno sguardo veloce potremmo dire che se la vita religiosa di antica data dilata quasi all’infinito la possibilità della differenza, rischia di rendere più debole il riferimento alla comunione donata; d'altra parte alcune esperienze di nuove comunità ravvicinano le due dimensioni, con il serio rischio di uniformità. Un reciproco influsso sarebbe utile e poi a ciascuno la dovuta vigilanza.
Riferimento alla Chiesa locale
Un altro luogo di utile dialogo tra esperienze antiche e nuove potrebbe essere il riferimento alla vita diocesana. Come molte altre di recente fondazione, questa comunità ha un forte riferimento alla Chiesa locale, che per le sorelle si concretizza nel riferimento a un sacerdote diocesano, che per ora è il Fondatore.
Questa specificità è in questo caso, come in altri, comprensibile all’interno di una logica di incarnazione che accoglie la storia che è donata a ciascuno di noi, nella quale siamo posti, e questa è per tutti. D’altra parte la storia ci insegna pure “l’esenzione” il cui aspetto positivo è stato quello di lasciare libertà, anche passando per questioni economiche, alle comunità religiose.
Ogni aspetto ha un diritto e un rovescio, un aspetto che incrementa la fedeltà al vangelo, e altri che ne sono una degenerazione. In questa sede è impossibile approfondire e specificare. Tener conto reciprocamente dei diversi riferimenti sarebbe utile per tutti in relazione a quella dimensione diffusiva che la vita consacrata porta con sé. La novità dello Spirito ha sempre trovato nella vita consacrata uno spazio di accoglienza e ne è la riprova che oggi, come in altri tempi, possiamo ancora parlare di “nuove comunità”. La novità dello Spirito ha sempre bisogno di libertà e autonomia e i tradizionali bilanciamenti istituzionali potrebbero essere eredità preziosa, anziché servire solo a certe prassi di isolamento.
ELSA ANTONIAZZI