Cozza Rino
Consapevolezze che rendono possibile il cambiamento
2022/2, p. 21
Occorre un rinnovamento di prospettiva in ambito religioso che permetta di trasferirsi dalla patria perduta alla patria in cui ancora nessuno fu, dalla terra posseduta alla terra promessa lasciando spazio alla fantasia.

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DIFFICOLTÀ NELLA VITA CONSACRATA OGGI
Consapevolezze che rendono possibile
il cambiamento
Occorre un rinnovamento di prospettiva in ambito religioso che permetta di trasferirsi dalla patria perduta alla patria in cui ancora nessuno fu, dalla terra posseduta alla terra promessa lasciando spazio alla fantasia.
Perché la vita religiosa è arrivata a un momento di grande difficoltà?
La risposta di coloro che da tempo vanno riflettendoci è univoca: la situazione in cui si trova è l’esito di una identità prigioniera di se stessa delle sue paure e di una visione di sé che non le permette di intravvedere la missione all’interno di quel futuro verso cui Dio sta conducendo la Chiesa.
L’esemplarità per l’oggi non può essere desunta come ripetizione del passato in senso passivo. Da qui il dire di E.Bloch: «si impone un rinnovamento di prospettiva in ambito religioso che permetta di trasferirsi dalla patria perduta alla patria in cui ancora nessuno fu» […] «dalla terra posseduta alla terra promessa lasciando spazio alla fantasia».
È quanto nel ‘96, il Sinodo della Vita Consacrata auspicava con l’indicare l’opportunità di «avere storicamente una ulteriore varietà di forme di VC». E circa otto anni dopo, il documento Ripartire da Cristo (n.12) diceva che le persone consacrate sono oggi obbligate a cercare nuove forme. Indicazione espressa già nel 1984 da J.M.Tillard, il quale, in quel condensato di VC espresso in «Davanti a Dio e per il mondo» scriveva: «l’assottigliamento degli effettivi, basta a mostrare che per la maggior parte delle comunità s’impone un cambiamento radicale della forma della vita attuale. Tra non molto – diceva ancora – ritroveremo indubbiamente quella che fu la condizione delle origini: piccoli gruppi disseminati, personalità forti, strutture molto duttili, stile di preghiera omogeneo a quello di tutta la comunità cristiana, fedeltà agli uomini, amore senza riserve per Gesù Cristo».
Oggi, dopo mezzo secolo di appelli trascurati, ci troviamo con tanto di amaro in bocca per aver disatteso il fatto che l'ago in grado di orientare le scelte è prevalentemente la capacità di leggere i segni del veniente.
In questa riflessione mi soffermo, nell’evidenziare alcune consapevolezze che la teologia e la sociologia da tempo vanno portando all’attenzione grazie alle quali è cresciuta la consapevolezza di una nuova stagione della vita religiosa.
Nessuno può restare se stesso senza evolvere
Di stimolo è la consapevolezza che nessuno può restare se stesso senza evolvere.
Solo da poco tempo ci si sta convincendo che «di un’identità invariabile si muore». Ossia – come dice F.Alberoni – nessuno può ripetere senza inventare.
C’è una legge ineludibile: nessuno può conservare il sapere senza imparare continuamente. Avviene come in un organismo che smette di essere vigile, attento: si impigrisce, non reagisce, facendo così spazio al ristagno e alla decadenza. Al posto dell’innovazione subentra la «routine». Allora anche la creatività degli individui si spegne e viene inghiottita dalla mediocrità, perché «l’ordine del mondo (cosmologico, politico, conoscitivo e perfino morale) non è statico, non è definito una volta per tutte, ma è storico, vale a dire che si dà temporalmente, attraverso una processualità di mutazioni». Con altre espressioni potremmo dire che non è possibile legittimare il nuovo facendo riferimento soltanto alla storia e identità delle origini, (eccetto quella carismatica), ma si tratta di integrare in quell'identità ciò che non è mai esistito. È allora evidente che per la maggior parte degli Istituti storici sia necessaria una coraggiosa, creativa immersione nella crisi, per il fatto – scrisse Schillebeeckx – che ogni svolta radicale parte dall'affermazione del primato del futuro sul passato. Di conseguenza la vita religiosa per uscire dal posto marginale che ha di fatto nella coscienza collettiva della Chiesa, ha bisogno di principi orientatori che la portino a non essere esclusa da quei circuiti della vita che sono in sintonia con le legittime esigenze dell’oggi, forti unicamente del Vangelo riscoperto, il cui messaggio dice che il cristiano non è mai un arrivato, per il fatto che l’identità è un cantiere sempre aperto, è un processo che non smette mai.
Non si tratta di rinnegare il passato ma di andare oltre, ad esempio al millecinquecento in poi, tempo che a far sorgere un Istituto è stato primariamente l’attenzione ad un bisogno della società che ne definiva il fine apostolico alimentato da una dimensione spirituale. Tempo in cui l’«agire» ha di diritto o di fatto costruito un tipo di comunità funzionale ad una maggiore efficienza apostolica – così si pensava – con il rischio di reggersi su una concezione corporativistica per la quale era il sistema di valori e di funzioni a tenere insieme, e questo bastava a riconoscersi come confratelli e consorelle, a prescindere dalla qualità e numero delle comunicazioni dirette.
Questo è continuato anche dopo la rivoluzione francese fino alla metà del millenovecento, con il pullulare di Congregazioni, specie su sollecitazione dei bisogni sociali del tempo, che ricalcavano modelli comunitari di impronta prevalentemente gesuitica, frammisti a schemi di tipo monastico «in cui predominava un rigido ascetismo, l’uniformità, le pratiche spirituali e devozionali, l’osservanza regolare».
Provvidenzialmente dal concilio Vaticano II in poi, un “Vento” forte incominciò a soffiare, gonfiando le vele della perenne creatività evangelica. Incominciarono così a sorgere da varie parti «nuove proposte che, per la loro spontaneità e il loro entusiasmo giovanile, tracciarono inediti sentieri, molto dinamici e stimolanti». Un cambiamento che questa volta non è venuto dai professionisti della religione, ma da coloro che ponendosi la questione «che cosa debbo fare per avere la vita?» hanno intravisto la risposta all’interno dei nuovi orizzonti ecclesiologici che vedevano la laicità protagonista: laici e laiche che, con la libertà dovuta al non aver sedimentato le soluzioni storiche e giuridiche del passato, diedero l’avvio a inedite forme di vita evangelica capaci di intercettare le nuove istanze spirituali, culturali, sociali, di forme che Giovanni Paolo II dirà – «manifestazione di energia e di vitalità ecclesiale da considerarsi certamente uno dei frutti più belli del vasto e profondo rinnovamento spirituale promosso dall’ultimo Concilio».
Tutto ciò è venuto a dire che molteplici possono essere le espressioni di vita evangelica, e nessuna di queste va assolutizzata ma ricondotta a manifestazioni tipiche di ecclesiologie diverse, e differenti teologie della vita evangelica, che testimoniano la possibilità di modalità differenti di vivere l’unica comunione».
Nuova persuasione carica di futuro
Nuova persuasione carica di futuro sta nel credere che «è arrivato il tempo in cui la fraternità non dipende da un solo tipo di vita comunitaria monastico-conventuale».
Espressioni di p. Maccise, il quale, dopo una lunga esperienza di governo del suo Ordine, ha inteso dire che «la vita fraterna ha bisogno di forme espressive rivelatrici di diversificate tracce di senso, che passino da una prevalente concezione coabitativa della comunità, a una comunionale per riproporre nell’oggi l’essenziale, perché il mondo un po’ autistico in cui si muove, le impedisce di dare attualità, presenza, incidenza storica agli appelli del Vangelo in risposta alle attuali attese. Oggi, non consentire questa configurazione significherebbe in molti casi condannare la comunità a vivacchiare in un essere comunitario male articolato».
Le nuove esperienze hanno evidenziato che nel Vangelo il contarsi come comunitari, non è riferito a quelli che «coabitano» ma a coloro che nello sforzo di sintesi tra Parola e vita, annunciano per condividere una gioia con il linguaggio esperienziale, e si interrogano come comunità in rapporto al contesto in cui sono inserite. Questo progetto comunionale che in Atti (2,44) è espresso nei termini «stavano insieme» (koinonia) non ha il significato di convivenza in senso locale.
«La koinonia con i suoi assi di accoglienza e di perdono, scrisse Tillard – che fu tra gli artefici di Perfectae Caritatis – non va necessariamente confusa, (almeno per le comunità di vita apostolica) con una perpetua presenza simultanea che realizza la situazione idillica di una famiglia dell’epoca pre-moderna. L’essere comunità deve trovare un ritmo in cui i tempi forti di presenza-insieme (non necessariamente quotidiani) assumano la loro importanza e la loro funzione di simbolo, e non necessariamente uno stare assieme in senso locale-temporale.
Altra consapevolezza di futuro
Non da adesso ci si sta rendendo conto che alla VC, per essere significativa, non bastano i segni dell’efficienza dell’apparato istituzionale. Con questi termini si intende tutto ciò che è in funzione dell’organizzazione, cosa certamente importante se la sua forza d’inerzia aiuta ad andare oltre il tempo, ma il suo limite – diceva il teologo Metz – è di «non sognare, e se sogna difficilmente porta a maturità i sogni, perché priva di passione». Da qui l’anteporre ai segni di efficienza i segni di novità evangelica, la quale non privilegia la simbologia della potenza, della visibilità, del plauso. Gli anni tra il ’60 e ’70 furono quelli anni di massimo prestigio: l’età media dei religiosi/e era dai trentacinque ai quarant’anni anni; le case di formazione tutte rinnovate, ampliate e piene; le opere ricche di riconoscimenti. Ma questi stessi anni furono quelli in cui la vita religiosa iniziò a trovarsi ferita dalla sua grandezza, potenza e status.
Il Capitolo Generale ha ancora una funzione?
Inoltre, da relativizzare sul versante degli apparati della VC, è il Capitolo Generale, strumento istituzionale nato in funzione del pensare il carisma in un orizzonte di significato per i nuovi contesti, ma che sono oggi finiti per essere visti più sul versante delle «indicazioni per galleggiare piuttosto che stimoli per navigare» verso contesti inediti.
È sotto gli occhi di tutti che in questi ultimi sessant’anni non ci sono stati Capitoli che abbiano saputo costituirsi unità di crisi in grado di dare l’avvio, ad esempio, a diversi nuovi «tavoli di pensiero» generatori di nuova coscienza», in cui la preoccupazione non fosse di aggiustare ciò che non può più essere riaggiustato.
Con ciò non si intende dire che momenti assembleari alti, a scadenza pluriennale non abbiano uno scopo. Mi spiego con un esempio: dopo il Capitolo di un Istituto c’è chi ha chiesto a un gruppo di capitolari: «com’è andato il Capitolo?». «Molto bene – fu la risposta», «ed ora – continuò l’intervistatore – che cosa cambierà?», «niente o quasi»».
L’esperimento fu replicato con pari esito in altre quattro congregazioni. Da questo dire apparentemente antitetico Mi pare che l’asserzione positiva vada innanzitutto a indicare la necessità di incontro a valenza prevalentemente carismatica e spirituale, necessaria ai fini della comunione che passa attraverso il conoscersi, il riconoscersi, il celebrare, la collaborazione, reciprocità, mutualità, corresponsabilità, ma nel contempo questa risposta viene a dire che specialmente nella società della comunicazione istantanea gli interventi fatti, come nel caso, una volta ogni sei anni non incidono nel “continuo” del momento evolutivo, in riferimento ad aree geografiche e culture diverse, specie se gli interventi si esprimono attraverso delle deliberazioni tendenzialmente omologanti.
Infine la distanza tra l’apparato istituzionale e il messaggio, è riscontrabile nella forma di governo e di espressione dell’autorità ai vari livelli istituzionali.
Nel IV secolo per Basilio (330-379) chi ha autorità «non è il capo e neppure può essere detto il rappresentante di Dio, ma è l’occhio attento, vigile, discreto, premuroso». Ma dopo Costantino e ancor più dopo Teodosio, quando il cristianesimo divenne religione dell’impero – scrive Schillebeekx – nella Chiesa incominciò a prendere piede l’atteggiamento gerarchico in forme contrarie alla verità evangelica, che fanno dire a M. Alonso Rodriguez: è davvero doloroso che per definire l’autorità nella vita consacrata, i giuristi non abbiano trovate altre espressioni meno infelici di potestà dominativa, denominazione presente anche nel Codice di diritto canonico del 1917 (can 501§1) in uso fine al 1983. Non meraviglierà allora se anche nell’attuale Codice (ad esempio can.630 §4) si ritrova il termine «suddito» che si spiega – come disse Y.Congar – con un contagio del paganesimo», se non altro per il fatto di rendere «signori» coloro la cui vocazione – disse Gesù – è di essere «servi». Oggi a riprova che qualcosa della plurisecolare cultura non evangelica sopravvive tuttora, c’è il richiamo in «Per vino nuovo otri nuovi» che dice: «non può non preoccupare la permanenza di prassi di governo che si allontanano e contraddicono lo spirito di servizio, fino a degenerare in forme di autoritarismo».
Mettere la Chiesa dentro il mondo
Inoltre stimolante è la consapevolezza di dover transitare dal mettere il mondo dentro la Chiesa, al mettere la Chiesa dentro il mondo
Nell’indicazione di papa Francesco a «guardare al mondo non come una minaccia ma come al proprio chiostro», c’è il ribaltamento di quella originaria prospettiva di vita religiosa che vedeva nella fuga dal mondo la sua ragion d’essere. Rovesciamento dovuto al credere, com’è detto in Ecclesiam suam (n.18) di Paolo VI, che: «non si salva il mondo dal di fuori, ma occorre, come Colui che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo; occorre condividere, senza porre distanza di privilegi, o diaframma di linguaggio incomprensibile, se si vuole essere ascoltati e compresi».
Il teologo conciliare M.D. Chenu osservava che soltanto accettando a fondo l’evidenza del mondo, soltanto credendo profondamente ad esso si potrà, dall’interno, ricollocare e far riapparire Dio e il Cristo. È in questo che è offerta alla VC l’opportunità di riacquistare la capacità fecondativa, con il dire Dio in modo nuovo, e farlo apparire nella sua bellezza accogliente e ospitale dell’umano. Dunque la vita religiosa per essere a misura della sua missione, disse papa Francesco deve farsi «capace di incontrare la gente nella loro strada», nelle loro case e non solo nelle proprie istituzioni [...] e «se siete diventati distratti, o peggio ancora non conoscete questo mondo contemporaneo ma conoscete e frequentate solo il mondo che vi fa più comodo o che più vi alletta, allora è urgente una conversione!»
Tutto ciò è riassumibile in una espressione: in futuro non potrà esserci carisma fuori contesto. Contextus significa tessere insieme, intrecciare, collegare, fino a diventare cornice normativa; non è dunque riconducibile a un fondale, ma deve essere un elemento che gioca il ruolo principale nella costruzione dell'azione della vr che, in una cultura in cui il cambiamento è sistemico significa vivere il presente con l’occhio attento al futuro. Ne consegue che una cultura può vivere a lungo e in buona salute solo se è un sistema aperto che si nutre dello scambio vitale con altre culture. Dunque un certo tasso di ibridazione è vita per i sistemi culturali. Papa Francesco continua a ripetere che una Chiesa «chiusa», ripiegata su se stessa, che non si apre, è una Chiesa malata. Sono queste le parole con cui invita a non concentrarsi unicamente su se stessi e su ciò che favorisce la conservazione rispetto alla proiezione verso il mondo e i suoi problemi, perché le risposte del Signore sono sempre all’interno di un «qui, ora», per cui l’evangelizzazione deve far leva sulla positività del mondo piuttosto che sui pericoli del mondo, con disponibilità a stare nel mondo abitandolo, non “beneficandolo” dal di fuori senza condividerne le sue ansie, essendo ciò non soltanto uno spazio dell'agire ma un elemento che gioca un ruolo determinante, linfa appunto, nella costruzione dell'azione apostolica.
Rino Cozza