Prati Anita
Dall’odòs al syn-odòs
2022/12, p. 15
“Nell’intenzione di papa Francesco, la sinodalità ecclesiale non è un supplemento di carineria ecclesiasticamente corretta, che renda più sorridenti le riunioni. Piuttosto, è l’acquisizione di una postura permanente – non clericale e non sindacale – della complicità fra coloro che sono afferrati dal Vangelo: sia pure all’ultima ora e all’ultimo posto, come la Samaritana e Zaccheo, la Cananea e il Centurione”.

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Testimoni
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SINODALITÀ (2° parte)
Dall’odòs al syn-odòs
“Nell’intenzione di papa Francesco, la sinodalità ecclesiale non è un supplemento di carineria ecclesiasticamente corretta, che renda più sorridenti le riunioni. Piuttosto, è l’acquisizione di una postura permanente – non clericale e non sindacale – della complicità fra coloro che sono afferrati dal Vangelo: sia pure all’ultima ora e all’ultimo posto, come la Samaritana e Zaccheo, la Cananea e il Centurione”
L’avvertimento di Pierangelo Sequeri che, nell’ottobre dello scorso anno, in concomitanza con l’apertura dei lavori del Sinodo sulla sinodalità sottolineava il rischio che l’idea di sinodalità finisse con l’essere declinata, e banalizzata, nella forma di una semplice operazione di restyling ecclesiale, si rivela quanto mai opportuno oggi, a distanza di un anno, a cammino avviato e cantieri definitivamente aperti. Di pari passo con la presa di confidenza e la familiarizzazione con il termine “sinodalità”, si colgono, infatti, più o meno sotto traccia, avvisaglie di tentativi di progressiva normalizzazione del dirompente portato di novità che informa la parola, allo scopo di contenerne gli effetti o, al più, di ricondurli nell’alveo di situazioni ben note e consolidate. Tradotto in quotidianità di vita ecclesiale, il rischio è che, nelle parrocchie, all’insegna della sinodalità si moltiplichino eventi e incontri in cui, comunque, è sempre il parroco ad avere l’ultima parola.
Ora, se il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio, la prima responsabilità che ci compete come cristiane e cristiani, - premessa indispensabile per poter assumere e incarnare la sinodalità dentro la nostra esperienza viva di Chiesa, - riguarda la tematizzazione e la comprensione del significato profondo del termine stesso “sinodalità”. Il primo passo è liberarsi dall’idea che camminare insieme significhi percorrere, - per quanto insieme -, una rassicurante strada precostruita e precostituita e, alla luce della tridimensionalità del significato della parola ὁδός (a place, an action, a way of doing), aprirsi alla prospettiva di un cammino-che-si-fa nel suo stesso farsi. Il secondo passaggio riguarda una presa di consapevolezza rispetto alla preposizione ��ύν che, entrando in composizione con ὁδός, dà origine alla parola σύνοδος.
Sappiamo che, nel lessico ecclesiastico, il termine sinodo si è connotato in modo specialistico, andando ad indicare il convegno di vescovi e prelati, e sappiamo che solo in questa accezione è approdato al nostro vocabolario. Ma papa Francesco ci chiede di aprire il significato della parola sinodo, superando l’angolatura ristretta con cui l’abbiamo letta e utilizzata da molti secoli a questa parte. Tenuto conto che la significazione di base di ὁδός si riverbera anche sul suo composto, i vocabolari di greco antico e di greco neotestamentario indicano che σύνοδος può venire tradotta sia come comitiva, sia come incontro, riunione, assemblea. “Fare sinodo” può indicare, dunque, tanto il camminare quanto l’incontrarsi e lo stare insieme. Insieme. Ecco l’elemento critico. Cosa significa “insieme”? Cosa significa σύν (syn)?
Per fare sinodo, per vivere la sinodalità, è sufficiente trovarsi insieme negli stessi luoghi, occupare gli stessi spazi? La folla che ascolta un comizio o partecipa ad un raduno fa sinodo? Le persone che stanno insieme in una sala cinematografica fanno sinodo? L’assemblea che ascolta la Messa fa sinodo? E viaggiare insieme sullo stesso autobus o nello stesso vagone del treno? E vivere insieme, o convivere, sotto lo stesso tetto? Forse sì, forse no. Dipende. Da cosa dipende? Cosa fa di quell’ “insieme” un segno di sinodalità?
Sinodalità e koinonìa
Usato soprattutto come preposizione per formare il complemento di compagnia, syn, che in latino suona cum, quando entra in composizione con altre parole indica non solo unione, ma anche simultaneità, uguaglianza e completezza di azione. La sua anima si esplicita principalmente nell’idea della condivisione e della partecipazione, come appare chiaro dall’aggettivo koinòs, che a syn è legato etimologicamente e che porta il significato di comune, pubblico, condiviso, e dalla parola koinonìa, a sua volta derivata da koinòs, il cui significato primo è proprio partecipazione:
“Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere”.
Il tema della koinonìa è incastonato nel cuore del noto versetto di Atti 2, 42, che descrive la vita della prima comunità cristiana. La scelta traduttiva di Girolamo ben coglie il dinamismo che sostanzia la parola greca koinonìa: mentre l’italiano comunione mette l’accento più sul risultato, sull’esito, che non sul processo, il latino communicatio, ossia partecipazione, condivisione, indica sempre un work in progress, uno svolgimento aperto, un percorso partecipativo. Koinonìa, così come communicatio, non è stasi ma dinamismo, non è un dato, ma un darsi.
Lo sguardo prospettico sull’esito che syn ha nei suoi derivati koinòs e koinonìa ci permette di cogliere la qualità che questo prefisso conferisce all’idea del camminare e dello stare insieme: non statica giustapposizione, ma partecipazione e condivisione aperta e dinamica. Syn marca il respiro della sinodalità nel segno di una apertura che continuamente rimette in circolazione la vita, portandoci oltre l’immagine stessa della piramide rovesciata: la circolarità aperta della sinodalità supera le polarizzazioni, scardina dal di dentro le logiche del clericalismo, permette di ripensare i legami tra potere e ritualità e, senza abdicare all’autorevolezza, attinge alla radicalità della proposta evangelica per declinare in forme nuove il concetto di auctoritas.
Eppure il rischio che “sinodalità” rimanga una bella parola vuota, un artificio cosmetico, una spuntatina della siepe del nostro giardino, solo per fare contento il capo - come ironicamente chiudeva il suo articolo Sequeri-, non è così remoto. Il momento è importante. È nuovo. E la Chiesa è chiamata a giocare la carta della credibilità proprio sul piano della coerenza tra l’immagine simbolica del popolo di Dio in cammino sinodale e le pratiche concrete di sinodalità.
Da febbraio 2021 una donna, suor Nathalie Becquart, religiosa saveriana francese, è stata nominata sottosegretario del Sinodo dei vescovi, la prima e per ora unica donna con diritto di voto nell’evento sinodale. Una “conquista” (le virgolette qui sono dovute) che, ormai, più che farci indignare, ci fa sorridere. Scriveva Antonietta Potente qualche anno fa a proposito del sinodo sull’Amazzonia: “Mentre scrivo mi rimane come un retrogusto amaro che si trasforma in delusione e un po’ di tristezza, provocando in me una domanda per tutte noi donne nella chiesa. Vi siete chieste perché nel Sinodo sull’Amazzonia le donne, seppur presenti, non potranno esprimere le loro posizioni e decisioni attraverso il voto? Mentre lo faranno i maschi anche laici. Questo mi sembra assurdo, privo di fondamento. Noi maestre della cura, proprio mentre l’Amazzonia brucia per volere di politiche maschili sempre più violente, noi siamo tagliate fuori e ancora una volta lasciate in secondo piano. Forse dovremmo osare almeno quella critica risata che osò Sara, nelle ore più calde del giorno all’ingresso della tenda, mentre Abramo e “altri tre” decidevano anche per lei. Non basta dire che siamo presenti e che i nostri contributi verranno senz’altro raccolti. Questo è assurdo, è falso e non basta.”
Non basta. In una Chiesa davvero sinodale non basta e non può bastare che una (sola) donna abbia diritto di voto. Una donna, Roberta Metsola, è presidente del Parlamento europeo; una donna, Ursula von der Leyen, è presidente della Commissione europea; una donna, Elisabetta II d’Inghilterra, ha incarnato per settanta lunghi anni, come nessun altro mai, l’idea di sovranità. Abbiamo donne sul podio a dirigere orchestre, donne sulle astronavi nello spazio. Dal 1963, in Italia abbiamo anche donne in magistratura.
Dalla teoresi alla prassi
Strada lunga e accidentata quella dalla teoresi alla prassi, come ricorda Paola Di Nicola nel suo libro La giudice. Una donna in magistratura. Intrecciando autobiografia e ricerca storiografica, la giudice Di Nicola illumina, documenti alla mano, le difficili tappe che hanno portato alla promulgazione della legge 9 febbraio 1963 n.66, con cui è stata sancita l’ammissione delle donne ai pubblici uffici e alle libere professioni. La legge del 1963 rappresenta il punto d’arrivo di un serrato dibattito iniziato nelle aule della Assemblea Costituente, quando si doveva dare forma a quello che diventerà l’articolo 51 della nostra Carta Costituzionale. Di Nicola cita, a tal proposito, significativi stralci di discorsi pronunciati nel corso dei lavori della Costituente. Così il magistrato democristiano Antonio Romano:
Con tutto il rispetto per le capacità intellettive della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte di giudicare. Questa richiede grande equilibrio, e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni fisiologiche.
Fondamentale, in un contesto così fortemente viziato da atavici pregiudizi, fu la presenza in Assemblea delle ventuno madri costituenti, che ebbero un ruolo attivo nel sostenere, in ossequio al principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3, la formulazione dell’articolo 51 nei termini che vennero poi approvati:
Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.
Ma altri ostacoli dovevano essere rimossi perché si potesse finalmente arrivare alla legge del 1963, che permise la piena partecipazione delle donne al potere giudiziario. La giudice Di Nicola fa memoria di alcuni passi del pamphlet La donna giudice ovverosia la “grazia” contro la “giustizia”, dato alle stampe nel 1957 dal presidente onorario della Corte di Cassazione Eutimio Ranelletti. Con il tono disteso di chi non ammette repliche, Ranelletti affermava che la donna è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti.
Il primo concorso di Magistratura aperto anche alle donne, bandito nel maggio del 1963, permise l’accesso alla carriera di giudice a otto magistrate. Oggi, a distanza di quasi sessant’anni, possiamo dire che, grazie ad una silenziosa ma non per questo meno efficace rivoluzione, davvero molta strada è stata percorsa: al 29 febbraio 2020, dei 9.787 magistrati presenti in Italia 5.308 (il 54% circa) sono donne.
È come se, da un giorno all’altro, fosse consentito alle donne di vestire anziché una toga una tonaca sacerdotale e celebrare la messa interpretando, a modo nostro e con la nostra cultura ed esperienza di esclusione, le Sacre Scritture, la parola di Dio, le parabole dei vangeli, i gesti di Cristo, le sofferenze di sua madre.
ANITA PRATI