In principio, l’odòs
2022/11, p. 18
“Sinodalità”, un neologismo che, senza bisogno di eccessivi dispiegamenti esegetici, è arrivato dritto al cuore di tutti – e di tutte –, proponendo, nell’immagine viva del “camminare insieme”, la ferialità dell’esperienza di fede di tanti e tante di noi. Ricchezza del termine odòs da cui deriva.
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LA PAROLA SINODO
In principio, l’odòs
“Sinodalità”, un neologismo che, senza bisogno di eccessivi dispiegamenti esegetici, è arrivato dritto al cuore di tutti – e di tutte –, proponendo, nell’immagine viva del “camminare insieme”, la ferialità dell’esperienza di fede di tanti e tante di noi. Ricchezza del termine odòs da cui deriva.
Per chi frequenta ambienti cattolici è normale, ormai, parlare e sentir parlare di sinodo e di sinodalità: prima c’è stato il Sinodo sulla famiglia, poi quello sull’Amazzonia, poi il Sinodo sui giovani; adesso è arrivato il Sinodo sulla sinodalità. La parola “sinodo” con i suoi derivati ha acquisito diritto di libera circolazione in tutti gli ambienti ecclesiali, a qualsiasi livello, smarcandosi dall’uso circoscritto proprio delle parole del lessico settoriale, conosciute e utilizzate soltanto da pochi addetti ai lavori.
Alcuni dettagli tecnici, a dire il vero, rimangono confinati in zone dai contorni nebulosi. Per esempio, ad ottobre 2021 si è aperto il cammino sinodale universale che si chiuderà con il Sinodo dei vescovi nel 2023, mentre a maggio 2021 si è aperto il cammino sinodale della Chiesa italiana che si chiuderà nel 2025: ci sono due Sinodi contemporaneamente, dunque? e perché? che differenza c’è tra l’uno e l’altro? chi fa che cosa? E poi, c’è il Sinodo nella Chiesa cattolica, d’accordo; ma c’è anche il Santo Sinodo delle Chiese ortodosse e il Sinodo della Chiesa valdese: sono la stessa cosa? sono differenti? che cosa li distingue?
Se l’uso in senso tecnico della parola “sinodo” può talvolta dar adito a punti di domanda, diverso è il discorso rispetto alla parola “sinodalità”, un neologismo che, senza bisogno di eccessivi dispiegamenti esegetici, è arrivato dritto al cuore di tutti – e di tutte –, proponendo, nell’immagine viva del “camminare insieme”, la ferialità dell’esperienza di fede di tanti e tante di noi.
Da sinodale, sinodalità
Sotto il profilo lessicale, la parola “sinodalità” ci si presenta con la veste dei sostantivi astratti che derivano dagli aggettivi, concettualizzando la qualità, cioè il modo di essere e il modo dell’essere, di cui quell’aggettivo è portatore: così da vano, vanità; da reale, realtà; da arido, aridità; da sereno, serenità. Da sinodale, sinodalità. La cosa interessante è che il neologismo “sinodalità” ha potuto dispiegare il suo dirompente significato perché, nel prendere le mosse dall’aggettivo “sinodale”, non si è fermato al senso corrente di questo aggettivo, cristallizzato nella prassi ecclesiastica, ma è tornato con grande finezza a recuperarne la radice etimologica.
Alla fine del primo capitolo dei Promessi sposi, quando don Abbondio, dopo la fatidica passeggiata serale del 7 novembre 1628, rientra in canonica col cuore in tumulto e i pensieri confusi, al suo richiamo allarmato accorre prontamente Perpetua. Con poche, essenziali pennellate, Manzoni propone un indimenticabile ritratto della domestica di don Abbondio, “serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione”, brontolona e lunatica anzi che no, “da che aveva passata l’età sinodale dei quaranta”.
L’esempio manzoniano è un’interessante testimonianza di uso letterario dell’aggettivo “sinodale”; nei Promessi sposi, ambientati nella Lombardia di inizio Seicento e nati da un accurato lavoro preparatorio sui documenti storici dell’epoca, Manzoni descrive il diffondersi e il radicarsi anche nelle parrocchie di campagna delle indicazioni normative del Concilio di Trento finalizzate alla riforma della Chiesa: l’uso delle pubblicazioni matrimoniali e del registro parrocchiale dei matrimoni; il decreto Tametsi e le limitazioni ai matrimoni segreti; le visite pastorali del vescovo; l’età minima per le domestiche a servizio degli ecclesiastici fissata in quarant’anni. Quell’età sinodale, appunto, che Perpetua aveva superato ormai da un pezzo.
Papa Francesco e la sinodalità
Fino a papa Francesco l’aggettivo “sinodale” lo conoscevamo soltanto nell’accezione manzoniana, come termine variamente riferito a sinodi, concili e assemblee dei rappresentanti della Chiesa. Tutti maschi, ça va sans dire, e tutti vescovi. Poi, però, è arrivato un papa dall’America latina, e qualcosa, piano piano, ha cominciato a cambiare.
Era l’ottobre del 2015 quando, nel discorso commemorativo del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, papa Francesco pronunciava parole decisive per comprendere quale traiettoria avrebbe dato al suo pontificato. Nel ricordare l’impegno alla valorizzazione del sinodo, “una delle eredità più preziose dell'ultima assise conciliare”, papa Bergoglio affermava:
«Dobbiamo proseguire su questa strada. Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio. Quello che il Signore ci chiede, in un certo senso, è già tutto contenuto nella parola "sinodo". Camminare insieme – laici, pastori, VESCOVO di Roma – è un concetto facile da esprimere a parole, ma non così facile da mettere in pratica».
La parola “sinodalità” faceva capolino e, intanto, “sinodo” cominciava a recuperare un respiro più largo. Neanche due anni e mezzo dopo, il 2 marzo 2018, la Commissione teologica internazionale (CTI) presentava un corposo documento dal titolo La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, in cui la spiegazione della sostanza etimologica e storica della parola “sinodo” veniva posta a premessa dell’intera riflessione:
«“Sinodo” è parola antica e veneranda nella tradizione della Chiesa, il cui significato richiama i contenuti più profondi della Rivelazione. Composta dalla preposizione σύν, con, e dal sostantivo ὁδός, via, indica il cammino fatto insieme dal Popolo di Dio. Rinvia pertanto al Signore Gesù che presenta se stesso come “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), e al fatto che i cristiani, alla sua sequela, sono in origine chiamati “i discepoli della via” (cfr. At 9,2; 19,9.23; 22,4; 24,14.22)».
Proprio liberando dal profondo l’ἔτυμον(étumon), cioè l’essenza e il significato vero del sostantivo “sinodo”, si è potuti arrivare a cogliere nella “sinodalità” la dimensione costitutiva della Chiesa, così da poter definire tout court la Chiesa stessa come Chiesa sinodale – e qui, evidentemente, anche l’aggettivo ha ritrovato e assunto, grazie allo scavo etimologico, uno spessore e una profondità prima inimmaginabili.
Pensare e ri-pensare la Chiesa in prospettiva sinodale, e vivere la sinodalità: questa l’urgenza, e la responsabilità, che ci viene consegnata oggi da papa Francesco. Un’urgenza e una responsabilità rispetto alle quali può essere importante permettere all’etimologia un ulteriore affondo.
Ricchezza del termine odòs
Perché noi diciamo ὁδός e traduciamo via o strada, e dentro la parola “via”, dentro la parola “strada”, senza che neanche ce ne accorgiamo, prendono corpo le immagini delle vie e delle strade a noi note, le vie e le strade che percorriamo ogni giorno o quelle che studiamo sulla mappa quando dobbiamo recarci in posti nuovi; le vie che ci portano da un luogo preciso ad un altro luogo preciso; le strade che sappiamo dove iniziano e dove vanno a finire, che hanno un nome e una riconoscibilità. Diciamo “via”, e si apre una storia che inizia con le viae che, tutte, portavano a Roma, viae stratae realizzate con strati sovrapposti di materiale diverso, pietrisco, ghiaia, basolato, garanzia di durevolezza e stabilità; vie rettilinee progettate per evitare tornanti e dislivelli, monumenti di un’istituzione che delle sue strade aveva fatto uno strumento di conoscenza e di conquista del mondo intero.
L’ὁδός, invece, racconta tutta un’altra storia. La storia di un mondo in cui lo spostamento su lunghe distanze di merci e di persone avveniva soprattutto per mare, perché viaggiare con le navi era molto più veloce ed economico, oltre che meno rischioso, che viaggiare via terra; un mondo in cui le vie terrestri di lunga percorrenza erano poco più che trazzere, piste che acquistavano leggibilità solo quando i solchi lasciati sul terreno dalle ruote dei carri per l’uso ripetuto venivano ad incidersi nel suolo in modo definitivo. Con la parola ὁδός si potevano indicare percorsi di terra e percorsi via acqua, nel mare e nei fiumi; ma ὁδός era anche l’invisibile orbita degli astri nel cielo.
Nella forma arcaica della lingua greca, attestata in Omero, ὁδός si confonde con οὐδός (oûdós) e con οὖδας (oûdas), la soglia ed il suolo, parole tutte che, forse come varianti della stessa parola pre-greca, serbano memoria della radice protoindoeuropea *sodós, che ritroviamo nel latino sedeo e nell’inglese to sit, col significato di “stare, posare”; ma anche di una radice *sed- che rimanda al latino cedo, “andarsene, andare via”. Ὁδός è la sosta che spinge al cammino, la soglia che gli dà accesso; è il sostare che tiene in sé la promessa di un movimento, la stasi che custodisce il dinamismo; è il movimento che non gira a vuoto, ma vive la tensione verso un altrove a partire da una spinta, da un punto di partenza; è il farsi della strada.
Il dizionario Liddell-Scott individua una triplice anima nella parola ὁδός: ὁδός può infatti essere intesa as a place, as an action, oppure as a way of doing. Ὁδός è, dunque, la strada (place), ma è anche il cammino (action), ed è il modo con cui quel cammino si fa. Come scriveva Antonio Machado in una sua famosa poesia:
Caminante, son tus huellasel camino, y nada más;caminante, no hay camino:se hace camino al andar.Al andar se hace camino,y al volver la vista atrásse ve la senda que nuncase ha de volver a pisar.Caminante, no hay camino,sino estelas en la mar.
Viandante, sono le tue ormeil cammino, e niente più;viandante, non esiste cammino:il cammino si fa nell’andare.Nell’andare si segna il camminoe nel volgere lo sguardo all’indietrosi vede il sentiero che maisi tornerà a calpestare.Viandante, non esiste cammino,ma soltanto scie nel mare.
La via è imposta dall’alto; qualcuno ha deciso che lì deve passare una strada e perciò, mappa alla mano, ne ha individuato il tracciato ideale; ha predisposto un progetto, ha segnato il terreno; ha reclutato soldati o ingaggiato operai per metterla in opera. Può essere violenta, la via. Le basta la punta di una matita per segnare sulla cartina rettilinei che tengono conto di utilità che non hanno nulla a che vedere con la vita di persone, alberi, animali che in quei luoghi hanno storia e dimora.
L’odós segue la curva delle colline e si addentra nelle foreste disegnando sentieri fra gli alberi; non ha paura di allungare il percorso se può sporgersi a contemplare un tramonto; gioca a rimbalzello con i sassi sulla riva del fiume; prende il largo nel blu, mare o cielo non conta. Non è una via precostruita a tavolino, ma è cammino che-si-fa in dialogo vivo con la verità della vita; è accesso alla libertà, relazione trasformativa che permette alla vita di fiorire dentro un processo vivo di libertà. Ed è lì che possiamo sentire Gesù che ci dice: Ἐγώ εἰμι ἡ ὁδὸς– Io sono l’odòs.
ANITA PRATI