Pernia Antonio
L’importanza di promuovere lo spirito missionario
2022/10, p. 39
Centrale in questo argomento è l’espressione “spirito missionario”. La riflessione qui proposta si articola in due parti: la prima descrive le sfumature dell’espressione “spirito missionario”; la seconda, esamina alcuni tratti o caratteristiche di questo stesso spirito.

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NUOVO PARADIGMA DELLA MISSIONE
L'importanza di promuovere
lo spirito missionario
Centrale in questo argomento è l'espressione "spirito missionario". La riflessione qui proposta si articola in due parti: la prima descrive le sfumature dell'espressione “spirito missionario”; la seconda, esamina alcuni tratti o caratteristiche di questo stesso spirito.
Sfumature dello “Spirito missionario”
Anzitutto, le sfumature dello “spirito missionario”. Credo che l'espressione “spirito missionario” comprenda, fra le altre, tre sfumature importanti: la prima riguarda la persona del missionario; la seconda, la spiritualità missionaria e la terza, la "missio Spiritus", la missione dello Spirito.
1.1 La persona del missionario
Credo che l'espressione "spirito missionario" rappresenti un cambiamento importante che ha avuto luogo nella comprensione della missione negli ultimi 30 anni circa, ovvero il passaggio dall'enfasi sull’"attività missionaria" all'enfasi sullo "spirito missionario” o il passaggio dall'enfasi sul “lavoro del missionario” all'enfasi sulla “persona del missionario”. Questo spostamento pone l'accento sulla “persona del missionario”.
Penso che si possa dire che questo cambiamento sia dovuto alla famosa dichiarazione di Paolo VI nella sua Esortazione apostolica del 1975, Evangelii Nuntiandi (EN n.41): «L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni».
Giovanni Paolo II ribadisce la medesima idea nell’enciclica Redemptoris Missio (n.42) : «L'uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri, più all'esperienza che alla dottrina, più alla vita e ai fatti che alle teorie».
Da entrambe le affermazioni, credo che possiamo vedere uno spostamento di accento dall’attività del missionario alla persona del missionario – cioè dal missionario maestro, al missionario testimone. Si tratta di uno spostamento di accento da ciò che il missionario fa a ciò che il missionario è. Un passaggio, in altre parole, dal “fare” all'“essere”. Gli spagnoli usano una bella espressione per dirlo. Parlano di passaggio dall “hacer” al “ser”: dal fare del missionario all’essere missionario.
Come sappiamo, entrambi i Papi considerano la missione o l'evangelizzazione come un “processo complesso, fatto di elementi diversi” (EN 24), o come una “realtà unica ma complessa che si sviluppa in modi diversi” (RM 41). EN (17-24) enumera sette elementi, mentre RM (41-59) ne elenca otto. In entrambi gli elenchi, “testimone” figura come il primo degli elementi o modi (EN 24, 26; RM 41).
Tenuto presente ciò, penso si possa anche dire che, mentre in passato la “formazione missionaria” era incentrata nel cercare di corredare il missionario delle diverse competenze necessarie per la sua attività missionaria, oggi la formazione missionaria si concentra sullo sviluppo degli atteggiamenti richiesti al missionario come testimone. Mentre in passato l'accento era posto sull'efficacia del suo lavoro di missionario, oggi questo è posto sulla credibilità della sua testimonianza in quanto missionario. Se in passato l’enfasi si poneva sull’attività missionaria, oggi l'accento è posto sullo spirito missionario.
1.2 Spiritualità missionaria
Questo spostamento di accento ha sviluppato naturalmente un interesse per la "spiritualità missionaria". Infatti i tre principali documenti missionari degli ultimi Papi dedicano un capitolo o una sezione a una riflessione sulla spiritualità missionaria – ossia l'Evangelii nuntiandi di Paolo VI (76-82), la Redemptoris missio di Giovanni Paolo II (capitolo VIII) e la Evangelii Gaudium di papa Francesco (capitolo V)
Paolo VI, Evangelii nuntiandi (76-82)
Nel n. 76 di EN, Paolo VI dice: « Consideriamo ora le persone stesse degli evangelizzatori». Egli prende in considerazione la persona dell'evangelizzatore nel contesto della sete di autenticità e di ricerca della verità e di onestà, soprattutto tra i giovani. Ed esorta così vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi, famiglie e laici: «Il nostro zelo evangelizzatore deve scaturire dalla vera santità della vita e, come suggerisce il Concilio Vaticano II, la predicazione deve a sua volta far crescere nella santità il predicatore, che si nutre della preghiera e soprattutto dell'amore per l'Eucaristia» (EN 76). E aggiunge:« …il mondo reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio che essi conoscano e che sia a loro familiare, come se vedessero l'Invisibile. Il mondo esige e si aspetta da noi semplicità di vita, spirito di preghiera, carità verso tutti e specialmente verso i piccoli e i poveri, ubbidienza e umiltà, distacco da noi stessi e rinuncia. Senza questo contrassegno di santità, la nostra parola difficilmente si aprirà la strada nel cuore dell'uomo del nostro tempo, ma rischia di essere vana e infecondaۛ» (EN 76).
Paolo VI mette in guardia dal pericolo di una mancanza di fervore, che si manifesta in «stanchezza, disincanto, compromesso, disinteresse e soprattutto mancanza di gioia e di speranza». Perciò esorta gli operatori dell'evangelizzazione ad «alimentare sempre il fervore spirituale» (EN 80). E, in quella che sembra essere una buona descrizione dello “spirito missionario”, afferma: «Conserviamo dunque il fervore dello spirito. Conserviamo la dolce e confortante gioia d'evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime. Sia questo per noi – come lo fu per Giovanni Battista, per Pietro e Paolo, per gli altri Apostoli, per una moltitudine di straordinari evangelizzatori lungo il corso della storia della Chiesa – uno slancio interiore che nessuno, né alcuna cosa potrà spegnere» (EN 80).
Giovanni Paolo II, Redemptoris missio (c.VIII)
Il capitolo VIII di RM è intitolato “Spiritualità missionaria” ( 87-91). Il centro di questo capitolo sembra essere l'affermazione di Giovanni Paolo II che «il vero missionario è il santo» (RM 90). Qui egli sviluppa una spiritualità missionaria basata sull’idea che la chiamata alla missione deriva dalla chiamata alla santità. Ogni cristiano è chiamato alla missione perché ogni cristiano è chiamato alla santità. Come egli dice: “La chiamata universale alla santità è strettamente legata alla chiamata universale alla missione. Ogni fedele è chiamato alla santità e alla missione» (RM 90). E aggiunge: «Il rinnovato impulso alla missione ad gentes richiede santi missionari. Non basta aggiornare le tecniche pastorali, organizzare e coordinare le risorse ecclesiali, o approfondire i fondamenti biblici e teologici della fede. Occorre incoraggiare tra i missionari un nuovo “ardore di santità”… (RM 90).
In questo capitolo di RM, Giovanni Paolo II espone quelle che possono essere considerate le “caratteristiche” della spiritualità missionaria. Se ne possono ricavare cinque – vale a dire: un vero missionario è colui che è (1) guidato dallo Spirito (RM 87), (2) centrato in Cristo (RM 88), (3) contrassegnato dalla carità apostolica (RM 89 ), (4) una persona delle Beatitudini (RM 91), e (5) un contemplativo in azione (RM 91).
Giovanni Paolo II sottolinea particolarmente l'ultimo punto e dice: «... il futuro della missione dipende in gran parte dalla contemplazione. Se il missionario non è un contemplativo, non può annunziare il Cristo in modo credibile. Egli è un testimone dell'esperienza di Dio e deve poter dire come gli apostoli: “Ciò che noi abbiamo contemplato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunziamo a voi”». (1 Gv 1,3) (RM 91).
Si rivolge perciò ad ogni fedele dicendo: «Cari fratelli e sorelle: ricordiamo lo slancio missionario delle prime comunità cristiane. Nonostante la scarsezza dei mezzi di trasporto e comunicazione di allora, l'annunzio evangelico raggiunse in breve tempo i confini del mondo» (RM 90).
Papa Francesco, Evangelii gaudium (c. V)
Nel n. 78 di EG, papa Francesco lamenta che per molti nella Chiesa – compresi i consacrati e le consacrate - «la vita spirituale si confonde con alcuni momenti religiosi che offrono un certo sollievo ma che non alimentano l’incontro con gli altri, l’impegno nel mondo, la passione per l’evangelizzazione. Così, si possono riscontrare in molti operatori dell’evangelizzazione, sebbene preghino, un’accentuazione dell’individualismo, una crisi d’identità e un calo del fervore» (EG 78).
Papa Francesco elabora questa impressione nel capitolo V di EG, dove afferma che «dobbiamo respingere la tentazione di offrire una spiritualità privatizzata e individualistica che mal si accorda con le esigenze della carità… C'è sempre il rischio che alcuni momenti di preghiera possano diventare un pretesto per non offrire la propria vita in missione» (EG 262). Per questo, egli incoraggia una "spiritualità di incontro" – una spiritualità di uscita dalle proprie zone di comfort e per incontrare "l'altro" nelle periferie della società (EG 259, 272). Si tratta di una spiritualità che non è separata dal proprio impegno missionario, ma piuttosto che scaturisce dalla propria missione. Dice papa Francesco: «Se vogliamo crescere nella vita spirituale, non possiamo rinunciare ad essere costantemente missionari» (EG 272).
Secondo papa Francesco, ciò di cui abbiamo bisogno oggi sono “missionari pieni di spirito”, cioè «evangelizzatori coraggiosi aperti all'opera dello Spirito Santo» (EG 259). Dice: «L'evangelizzazione piena di Spirito non è la stessa cosa di un insieme di compiti debitamente svolti nonostante le proprie inclinazioni e desideri personali. Quanto desidero trovare le parole giuste per suscitare entusiasmo per un nuovo capitolo di evangelizzazione pieno di fervore, gioia, generosità, coraggio, amore sconfinato e attrazione. Ma, mi rendo conto che nessuna parola di incoraggiamento sarà sufficiente finché il fuoco dello Spirito Santo non arde nei nostri cuori. Un'evangelizzazione piena di spirito è quella guidata dallo Spirito Santo, perché Egli è l'anima della Chiesa chiamata ad annunciare il Vangelo» (EG 261).
Per papa Francesco, al cuore della spiritualità missionaria sta l'esperienza della “gioia del Vangelo” (Evangelii gaudium). Infatti ogni vero incontro con Gesù è un'esperienza di gioia. Il Vangelo, perciò, è un invito alla gioia. Perciò, anche l'annuncio del Vangelo è un'esperienza di gioia. Il Papa afferma: «Solo chi prova gioia nel cercare il bene degli altri, nel desiderare la loro felicità, può essere missionario» (EG 272). Solo un missionario ripieno di Spirito che manifesta la gioia del Vangelo può evangelizzare per attrazione (cfr EG 15).
1.3 Missio Spiritus
L'interesse per la spiritualità missionaria ha indotto, a sua volta, a riconsiderare il ruolo dello Spirito Santo nella missione, giungendo alla comprensione della missione come “missio Spiritus” o “missione dello Spirito”. Infatti, fin dall'affermazione di Giovanni Paolo II che lo Spirito Santo è il “principale agente della missione” (RM cap. III), riprendendo l'affermazione di Paolo VI che lo Spirito Santo è il “principale agente dell'evangelizzazione” (EN 75 ), “missio spiritus” è diventata un'espressione comune in missiologia.
Missio Spiritus è generalmente considerata una versione più specifica di Missio Dei o "Missione di Dio" (cf.José Cristo Paredes: Complici dello Spirito).
Il teologo pentecostale, Amos Yong, presenta un tentativo di teologia della Missio Spiritus in un articolo dell'International Review of Mission, intitolato “Primad for the Spirit: Creation, Redemption and the Missio Spiritus”. Sulla base di questo articolo, penso che si possa dire che Missio Spiritus sottolinea la nozione della missione di Dio che soffia il respiro della vita nel nostro mondo.
Il Ruah Elohim, il soffio divino, che aleggia sulle acque primordiali, infonde vita alla polvere della terra e costituisce così tutta la realtà creata. Aleggia su Maria e discende sul Figlio incarnato, la cui vita, morte e risurrezione inaugurano la ricostituzione della realtà resa alienata al Creatore dal peccato. È effuso sulla Chiesa perché si effonda su ogni carne in vista della riconciliazione finale di tutte le cose con Dio e l'emergere di un nuovo cielo e di una nuova terra, «dimora di Dio con gli uomini» (Ap 21,3).
È interessante notare che la dottrina classica della Trinità parla del Figlio che procede dal Padre e dello Spirito che procede dal Padre e dal Figlio. La processione del Figlio dal Padre si chiama “generazione”, mentre la processione dello Spirito dal Padre e dal Figlio si chiama “spirazione”. Il Figlio è “generato” non creato dal Padre, e lo Spirito è “spirato” o esalato dal Padre e dal Figlio. La Missio Spiritus può quindi essere considerata come un'estensione della “spirazione” dello Spirito da parte del Padre e del Figlio. Missio Spiritus è il Padre e il Figlio che spirano lo Spirito nel mondo. Sembra, allora, che non basti dire, come fecero papa Paolo VI in EN 75 e papa Giovanni Paolo II in RM 21, che lo Spirito Santo è “l'agente principale dell'evangelizzazione o della missione”, come se la missione fosse qualcosa di esterno allo Spirito. Piuttosto, alla luce della Missio Spiritus, sembrerebbe più appropriato dire che lo “Spirito Santo È missione”. Perciò, la missione è Dio che condivide il dono del suo Spirito. In altre parole, è Dio che condivide il suo respiro, la sua stessa vita, il suo stesso io.
Riassumendo questa prima parte della riflessione, credo si possa dire che lo “spirito missionario” di cui deve essere impregnata la persona del missionario, fa riferimento al fervore (Paolo VI), all'entusiasmo (Giovanni Paolo II) e alla gioia (Francesco) di annunciare il Vangelo. Tale è lo spirito della missione, perché lo Spirito Santo è l'agente principale della missione, o anche, perché lo Spirito Santo è missione.
2.Tratti caratteristici dello “Spirito Missionario” oggi
Venendo ora alla seconda parte di questa riflessione, vorrei approfondire questo spirito missionario cercando di indicarne alcuni tratti fondamentali. E vorrei farlo considerando le implicazioni del paradigma della comprensione di oggi che è la come "missio Dei", o missione di Dio.
2.1 Missio Dei
La Missio Dei, in quanto concetto missiologico, può essere fatta risalire all'opera di Karl Barth negli anni '30, in particolare a un documento da lui letto alla Conferenza Missionaria di Brandeburgo nel 1932, in cui articolò l'idea di missione come attività di Dio stesso. Da allora, Missio Dei è diventata il nuovo paradigma della missione, in cui la missione è vista non primariamente come un'attività della Chiesa, ma come un attributo di Dio. Dio è un Dio missionario e la missione è un movimento cha va da Dio al mondo. La Chiesa è considerata come uno strumento di questa missione. Pertanto, la dottrina classica della Trinità, secondo cui il Padre invia il Figlio e il Padre e il Figlio inviano lo Spirito, si allarga per includere ancora un'altro "invio", cioè il Padre, il Figlio e lo Spirito che inviano la Chiesa nel mondo. Quindi la Chiesa, invece di essere "la mittente", è "un’inviata". Perciò c'è Chiesa perché c'è missione, e non viceversa.
Nella teologia cattolica, l'idea di Missio Dei è contenuta nei documenti del Vaticano II. In particolare, Ad Gentes, il “Decreto sull'attività missionaria della Chiesa” del Vaticano II, fa risalire l'origine della missione della Chiesa all'invio da parte del Padre del Figlio e dello Spirito Santo per realizzare il disegno universale di salvezza (AG 1-2, 9). Questa idea è stata riconosciuta come “l’origine trinitaria della missione”. Il concetto fondamentale della Missio Dei, perciò, è che l’origine della missione è Dio e non le creature umane o la Chiesa. La missione esiste non perché la Chiesa l'abbia comandata, ma perché Dio è un Dio uno e trino.
Il Dio uno e trino è comunione e comunicazione, interazione e dialogo, tra Padre, Figlio e Spirito Santo. E questa comunicazione o dialogo interno pervade, – o meglio abbraccia – la creazione e la storia. La missione, perciò, è il dialogo permanente di Dio uno e trino con il mondo e con l'umanità, un dialogo che invita e attira l'umanità alla piena comunione con la comunità divina. La missione è l’effusione nel mondo del dialogo intratrinitario e della comunione tra Padre, Figlio e Spirito.
La nostra chiamata alla missione è una chiamata a partecipare a questo permanente dialogo. Perciò diciamo che la missione è innanzitutto di Dio. Noi, missionari o Chiesa, siamo chiamati solo a condividere e a collaborare a questa missione che è di Dio.
2.2 Implicazioni della Missio Dei
La Missio Dei, come nuovo paradigma della missione, richiede, tra le altre cose, i seguenti atteggiamenti da parte del missionario: (1) contemplazione, (2) dialogo, (3) umiltà, (4) collaborazione e (5) gioia.
1.Contemplazione
La Missio Dei sottolinea che la nostra partecipazione alla Missione di Dio è fondamentalmente un incontro con il mistero – il mistero del Dio uno e trino che chiama l'umanità intera a condividere la sua vita e la sua gloria, il mistero del piano salvifico di Dio per il mondo, il mistero della presenza di Cristo e dell'azione dello Spirito nel mondo. Ma, la prima vera sfida nella missione è cercare, discernere e rafforzare la presenza di Cristo e l'azione dello Spirito nel mondo. Ma sarà impossibile discernere se non ci avviciniamo alla missione nella contemplazione.
Il missionario, in effetti, evangelizza prima di tutto non facendo delle cose per la gente, ma stando con essa e mettendola in grado di fare essa stesse le cose. Il metodo della missione o del missionario sarà caratterizzato non dall'attività frenetica, ma dalla presenza contemplativa tra il popolo di Dio. Il missionario non sarà tentato di spiegare il mistero di Dio, piuttosto cercherà in un rispettoso dialogo di introdurre la gente in questo stesso mistero attraverso segni e simboli. Darà la priorità all'essere missionario anziché a svolgere attività missionarie.
Pertanto, ciò che ci si attende dai missionari di oggi è lo sviluppo di uno spirito contemplativo nella missione. Dobbiamo abbandonare l'idea che la contemplazione sia l'opposto della missione. Dobbiamo, piuttosto, promuovere l'idea che la contemplazione è una dimensione costitutiva della missione. Infatti, la contemplazione comporta non solo un "momento ascendente" di guardare il volto di Dio nella preghiera, meditazione, adorazione, ma anche un "momento discendente" di contemplare il mondo con lo sguardo di Dio. Quanto sarebbe diverso il nostro mondo se tutti imparassimo a guardare il mondo con gli occhi di Dio. Perché con lo sguardo di Dio i nemici diventano amici, i muri divisori diventano porte aperte, gli estranei diventano fratelli o sorelle, i confini diventano ponti, e la diversità non porta a differenze e conflitti, ma all'armonia e all'unità.
2. Dialogo
Comprendere la missione come Missio Dei, o il dialogo permanente di Dio uno e trino con il mondo, cambia il nostro modo di considerare la missione. Corregge la nozione di missione come movimento a senso unico, dove tutto è fatto dal missionario per il popolo. Il missionario è l'evangelizzatore, il popolo l'evangelizzato. Il missionario è portatore della buona notizia, il popolo è il destinatario del vangelo. Il missionario è il soggetto, il popolo l'oggetto. Il missionario è il predicatore che annuncia la verità, il popolo è quello che ha bisogno di conversione.
Il presupposto era che il popolo fosse completamente privo di qualsiasi ricchezza spirituale, e quindi non avesse nulla da condividere in cambio.[“Noi non siamo gli 'abbienti', i beati possidenti, che stanno sopra i 'non abbienti' spirituali, la massa dannata .” (David Bosch, Transforming Mission: paradigm Shifts in Theology of Mission, 484)].
Questa è la realtà che risulta da una comprensione puramente “Ad gentes” della missione. Questo modo di vedere la missione derivava dalla teologia medievale in cui la Chiesa si riteneva il solo e unico baluardo della verità. Le altre religioni erano ritenute nel migliore dei casi in errore e, nel peggiore, demoniache. E la Chiesa riteneva suo obbligo morale conquistare, dominare e sostituire queste religioni. La Missio Dei, invece, ci fa capire che non esiste una situazione completamente priva dello Spirito di Dio. Come affermano i documenti del Vaticano II, le altre tradizioni religiose e culturali contengono dei “semi della Parola” (AG 11) o “raggi di Verità” (NA 2). Esse non sono del tutto malvage o totalmente in errore.
Perciò, la missione è ora intesa come uno scambio bidirezionale di doni tra il missionario e il popolo. Di conseguenza, i missionari devono essere pronti a dare e a ricevere, ad evangelizzare ed essere evangelizzati, a parlare e ad ascoltare. Devono essere preparati a cambiare ed essere cambiati, a formare ed essere formati, a invitare alla conversione e ad essere convertiti. Questa idea è talvolta espressa anche come “missione all’inverso”, cioè “bisogna essere evangelizzati dalla gente prima di poter evangelizzarla; dobbiamo permettere al popolo tra cui lavoriamo di essere nostri insegnanti prima di presumere di insegnare loro" (cf. Claude Marie Marie Barbour, "Seeking Justice and Shalom in the City", International Review of Mission 73 -1984).
Questa è l'implicazione della nuova concezione della missione non solo come "Ad gentes" ma anche come "Inter gentes".
Il dialogo non è più semplicemente un'opzione che siamo liberi di fare o non fare. Piuttosto, è ormai un imperativo missiologico di cui non possiamo fare senza. Come afferma un documento del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso del 1984, il dialogo è «la norma e il modo necessario di ogni forma e di ogni aspetto della missione cristiana… Qualsiasi senso della missione non permeato da questo spirito dialogico andrebbe contro le esigenze della vera umanità e contro gli insegnamenti del Vangelo».( cfr. Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, L'atteggiamento della Chiesa verso i seguaci di altre religioni, 1984, n. 29).
3. Umiltà
Missio Dei implica che il missionario non si ritenga mai il “proprietario” o il “padrone” del Vangelo, ma solo un suo “amministratore” e “servitore”. E perciò, il vangelo può essere condiviso solo come dono e mai come possesso.
Questo sembra essere stato uno dei problemi della missione in passato. Provenienti in gran parte dall'Europa cristiana, i missionari un tempo predicavano il Vangelo come se la fede cristiana fosse loro possesso, dettando in tal modo i termini con cui doveva essere compreso (dottrina/dogma), vissuto (morale/etica) e celebrato (liturgia/culto ). Provenienti, inoltre, da quella che si presumeva fosse una cultura “superiore” e da paesi economicamente sviluppati e tecnologicamente avanzati, i missionari in passato spesso evangelizzavano da una posizione di potere e superiorità. E, ovviamente, questa presunta superiorità dava loro il diritto di imporre la fede cristiana su popoli considerati “culturalmente primitivi”, “religiosamente pagani”, “economicamente poveri” e “tecnologicamente arretrati”.
Oggi, invece, il missionario è chiamato ad evangelizzare da una posizione di impotenza, modestia e umiltà. ( cfr. David Bosch, Transforming Mission: Paradigm Shifts in Theology of Mission, 484.) Egli non cercherà il potere economico, culturale, tecnologico o anche mediatico. L'unico potere di cui ha bisogno è quello della Parola e dello Spirito. E questo potere è il potere dell'amore, che si manifesta nel dono di sé. La ragione ultima dell'umiltà nella missione è che questa è di Dio e non nostra. Detto diversamente, il Regno di Dio è una realtà escatologica. E, anche se siamo chiamati e mandati a lavorarvi, non sappiamo come, quando e in che forma il Regno di Dio alla fine si manifesterà nel mondo. Perciò, un'altra cosa che ci si attende dai missionari oggi è lo sviluppo dello spirito di umiltà e di impotenza nella missione.
4. Collaborazione
Considerare la missione come Missio Dei ci fa comprendere che la nostra chiamata alla missione è una chiamata a condividere la missione di Dio, e ciò implica una chiamata a collaborare con Dio, prima di tutto, e con tutti gli altri che sono chiamati allo stesso modo da Dio. La Missio Dei implica il fatto che la missione è più ampia di ciò che ogni individuo o ogni congregazione può fare. È anche più grande di quello che tutti noi insieme possiamo fare. La collaborazione, quindi, non è tanto una strategia per la missione. Collaboriamo non tanto perché vogliamo essere più efficaci nella missione. La collaborazione, infatti, è una caratteristica essenziale della missione. Essere in missione vuol dire collaborare. La collaborazione è una dichiarazione sulla natura della missione. Collaborando noi diciamo che la missione è in primo luogo di Dio e che l'agente principale della missione è lo Spirito di Dio.
L'opera dello Spirito che condividiamo nella missione è multiforme (cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Iuvenescit Ecclesia, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sul rapporto tra doni gerarchici e carismatici nella vita e nella missione della Chiesa, n.1; Giovanni Paolo II, Ecclesia in Asia, Esortazione apostolica postsinodale, n. 15).
Nella Chiesa, una manifestazione di ciò è la diversità dei carismi che lo Spirito distribuisce «come Egli vuole» (1 Cor 12,11) in mezzo al popolo di Dio per l'edificazione del Corpo di Cristo affinché possa compiere la sua missione. Spesso questi doni dello Spirito sono incarnati in diversi gruppi ecclesiali, istituti di vita consacrata e società di vita apostolica, organizzazioni ecclesiali tradizionali e nuovi movimenti ecclesiali o “nuove comunità” con un'appartenenza prevalentemente laica. Insieme, questi gruppi ecclesiali manifestano la multiforme ricchezza della comunione ecclesiale per la missione.(cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Iuvenescit Ecclesia, n. 2.)
Anche l'opera dello Spirito nel mondo è multiforme. Una manifestazione di ciò è il fenomeno del pluralismo culturale e religioso nel mondo. La pluralità e la diversità nel mondo possono essere considerate il frutto dell'atto creatore di Dio, che riflette il suo stesso essere. Il Dio che adoriamo non è una monade solitaria, ma una koinonia di tre persone divine.(cfr. Peter C. Phan, Being Religious Interreligiously: Asian Perspectives on Interfaith Dialogue - New York, Orbis Books, 2004, p. 21). Oggi il pluralismo religioso è considerato non solo come un "dato di fatto", ma come una "questione di principio" ( cfr. Jacques Dupuis, S.J., Toward a Christian Theology of Religious Pluralism, p. 201; Peter C. Phan, Essere religiosi interreligiosamente: prospettive asiatiche sul dialogo interreligioso, p. 65; Paul F. Knitter, Introduzione alle teologie delle religioni, pp. 7-8. )
In altre parole, non è solo un incidente della storia, meno ancora il risultato della peccaminosità umana, ma fa parte del progetto salvifico di Dio per il mondo. Così come lo Spirito abbellisce la Chiesa con una diversità di carismi, allo stesso modo lo Spirito adorna anche il mondo con una diversità di religioni e culture.
Questo fatto del carattere multiforme dell'azione dello Spirito nella Chiesa e nel mondo richiede collaborazione e dialogo tra i diversi gruppi ecclesiali nella Chiesa, e tra le diverse religioni e culture del mondo.
5. Gioia
In una visione ecclesiocentrica della missione, dove la missione è vista come risposta al “mandato missionario” dato dal Signore risorto alla Chiesa nel giorno dell'ascensione (cfr. Mt 28,18-20), si tende a considerare missione come un sacrificio e un onere – in particolare la rinuncia alla patria e al proprio paese per andare in terre molto lontane, la rinuncia a una vita di benessere e la disponibilità a vivere una vita di privazioni e di difficoltà in una condizione di vita spesso chiamata “primitiva”.
In alcune congregazioni missionarie, come la mia, l'inizio della propria vita missionaria è celebrata con una cerimonia di invio in missione che include il rito della consegna di una "croce missionaria". Mentre la "croce missionaria " ha in realtà un significato più profondo, nel modo di pensare di molti simboleggia il sacrificio e gli oneri che il missionario dovrà abbracciare nella missione. In queste cerimonie viene letto spesso un brano della Seconda Lettera ai Corinzi di San Paolo, dove l’apostolo elenca le difficoltà che egli ha dovuto affrontare nella sua missione di predicare il Vangelo: “molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde...” (2 Cor 11, 23-25).
Generazioni e generazioni di missionari hanno vissuto storie simili di difficoltà e avversità in missione. Sono stati scritti volumi sul grande sacrificio compiuto dai missionari per la missione. Tuttavia, considerare la missione come Missio Dei ci fa capire che la missione non è solo un peso e un sacrificio, ma anche un privilegio e un dono. La missione è la missione di Dio e la nostra chiamata alla missione è una chiamata a partecipare a questa missione. E la partecipazione alla missione di Dio non può essere solo un peso e un sacrificio. Deve essere soprattutto un dono e un privilegio.
Quando San Giuseppe Freinademetz, il primo missionario SVD, seppe che sarebbe stato inviato in Cina, scrisse alla sua famiglia dicendo: “Grazie a Dio... che il Signore ci ha dato la grazia di avere un missionario nella nostra famiglia… Lo considero non come un sacrificio che offro a Dio, ma come il dono più grande che Dio mi fa”. E ancora, dalla Cina scrisse: “Non posso ringraziare abbastanza il Signore per avermi fatto missionario in Cina…”. Nel 1887 disse: “Quando penso alle innumerevoli grazie che ho ricevuto e continuo a ricevere fino ad ora da Dio... confesso che potrei piangere. La vocazione più bella del mondo è quella di essere missionario”.
La Missio Dei sposta la ragione della missione da un bisogno di coloro che sono evangelizzati (cioè il bisogno dei cosiddetti “pagani” di essere salvati dalla dannazione eterna) a un bisogno degli evangelizzatori (vale a dire, il bisogno del discepolo che ha sperimentato il Vangelo come una buona notizia per condividerlo con gli altri). Come dice Paolo VI nella Evangelii nuntiandi, n. 80: “…gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna - ciò che S. Paolo chiamava «arrossire del Vangelo» - o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo?”.
Questa sembra essere la "logica della buona novella ". Se qualcosa è veramente buono, allora deve essere condiviso con gli altri. Come dice papa Francesco, la vera sorgente della missione è l'esperienza della gioia del Vangelo (cfr EG 1-13). Perciò la missione, come condivisione nella Missio Dei, non può essere solo un sacrificio e un peso. Deve essere un privilegio e un dono, un'esperienza di gioia, di gioia nello Spirito (cfr Gal 5,22).
Per riassumere questa seconda parte della nostra riflessione, credo si possa dire che la missione oggi deve essere svolta nel paradigma della Missio Dei o missione di Dio. Questo nuovo paradigma invita i missionari ad essere più contemplativi, dialogici, umili, collaborativi e gioiosi nella loro missione. Anche questi, credo, sono i tratti che caratterizzano lo “spirito missionario”: contemplazione, dialogo, umiltà, collaborazione e gioia.
Conclusione
Per concludere, permettetemi di citare quanto dice papa Francesco al n. 273 dell’ EG: «La mia missione di essere nel cuore delle persone non è solo una parte della mia vita o un distintivo che posso togliere; non è un "extra" o solo un altro momento della vita. Invece è qualcosa che non posso sradicare dal mio essere senza distruggere il mio stesso io. Io sono una missione su questa terra; questo è il motivo per cui sono qui in questo mondo. Dobbiamo considerarci suggellati, persino marchiati, da questa missione di portare luce, benedire, ravvivare, elevare, guarire e liberare… Ma se separiamo il nostro lavoro dalla nostra vita privata, tutto diventa grigio e cercheremo sempre il riconoscimento o affermeremo i nostri bisogni».
“Io sono una missione su questa terra”, dice papa Francesco. Qui sta l'importanza di promuovere lo spirito missionario.
Fr. Antonio M. Pernia, SVD