Siccità e cambiamenti climatici
2022/10, p. 31
Paolo Tarolli è docente di idraulica agraria presso il Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova. Settimana News lo ha intervistato sul tema della siccità che sta affliggendo il Nord e grandi parti del nostro Paese.
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INTERVISTA A PAOLO TAROLLI
Siccità e cambiamenti climatici
Paolo Tarolli è docente di idraulica agraria presso il Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova. Settimana News lo ha intervistato sul tema della siccità che sta affliggendo il Nord e grandi parti del nostro Paese.
Professore, di cosa si occupa esattamente?
Da anni mi occupo della comprensione delle problematiche dei paesaggi di fronte alle crescenti pressioni antropiche, al degrado dovuto all’abbandono delle terre coltivate, e al cambiamento climatico. Mi sono concentrato sulle superfici ad uso agricolo, in particolare nei territori coltivati in pendenza, impiegando tecniche di telerilevamento (remote sensing, con droni e laser scanners), per l’analisi e prevenzione dei fenomeni di dissesto (ad esempio, frane, erosione) e per la maggiore sostenibilità ambientale delle coltivazioni. Le mie ricerche si estendono anche alla pianura − nelle terre di bonifica − per le ragioni che la siccità di questo periodo stanno mettendo in chiara evidenza. I problemi, infatti, non nascono soltanto dai cambiamenti climatici, ma anche da una non corretta gestione delle superfici. Spero che il mio contributo di ricerca possa essere di aiuto e suggerire indicazioni utili a migliorare la gestione del nostro territorio.
La siccità di cui stiamo soffrendo è sicuramente conseguente ai cambiamenti climatici? In fondo situazioni analoghe sono state vissute anche nel lontano passato.
È indubbio che sia in atto un cambiamento climatico. Se si leggono tutte le pubblicazioni scientifiche al riguardo non si può che giungere a una tale evidenza scientifica. Voglio essere molto chiaro: ciò che sta cambiando rispetto al passato è la frequenza dei fenomeni e la loro intensità. Aumentano gli eventi estremi. L’osservazione scientifica dice che questo genere di eventi è sempre più frequente e sempre più estremo.
Ci faccia un esempio…
Due estati fa – agosto 2020 – nella zona di Soave di Verona si è verificato un episodio di downburst (raffiche di vento discendenti e con moto orizzontale) generato da una supercella: un fenomeno di fortissima intensità che in poco tempo ha raso al suolo una striscia consistente dei vigneti della zona. Ho parlato con gli agricoltori che vivono da generazioni in quel territorio. Hanno memoria di eventi disastrosi avvenuti nel passato, soprattutto legati alla grandine. Ma non ricordano qualcosa di simile a ciò che hanno veduto di persona: una sorta di «Vaia per i vigneti».
Nell’estate del 2020 eventi simili hanno interessato vari luoghi della Pianura padana, in alcuni casi anche con tornado. Questi eventi si manifestano, quindi, con maggiore frequenza e con maggiore intensità; il clima dell’area del Mediterraneo è sempre più caldo, soprattutto i mari, con un carico di energia e umidità che prima o poi origina fenomeni meteo molto intensi. Consideriamo poi che tutto ciò avviene in un territorio molto più antropizzato (Nord Italia e Pianura padana) rispetto al passato, che significa più carico di infrastrutture, più urbanizzato e cementificato; e questo amplifica le conseguenze. Una piena improvvisa, così come una siccità, oggi hanno effetti più gravi rispetto al passato.
Le cose non potranno che peggiorare?
Ci sono ormai molte proiezioni, scientificamente elaborate, al riguardo. La comunità scientifica ha lanciato da anni un allarme sul cambiamento climatico e sulle conseguenze. Cito qui un lavoro che con il mio gruppo di ricerca ho pubblicato quest’anno sulla rivista Nature Food inerente l’impatto del cambiamento climatico sulla superficie agricola mondiale. Sono diversi gli scenari climatici che possono essere considerati: dal più estremo al meno estremo. Il livello di gravità varia in ragione di ciò che l’umanità riuscirà o non riuscirà nel frattempo a fare. Mi riferisco alle emissioni di gas serra nell’atmosfera, innanzi tutto. Ebbene, secondo la proiezione peggiore (scenario di concentrazione di gas serra RCP8.5, ovvero senza l’adozione di iniziative a favore della protezione del clima e, pertanto, con crescita delle emissioni ai ritmi attuali) di fine del secolo, l’Italia – parte dell’Emilia-Romagna, Veneto, Toscana, Abruzzo, Molise, Puglia… – andranno verso un clima definito, secondo la classificazione dei climi di Köppen-Geiger, arido, mentre oggi il clima delle regioni sopra menzionate (escludendo parte della Puglia e della Toscana, già ora con clima arido) è temperato. Ovviamente non solo l’Italia sarebbe interessata, ma anche buona parte dell’Europa, soprattutto dell’Est, Romania e Ucraina comprese. Il Sud della Spagna potrebbe essere interessato da una severa desertificazione. Pensiamo all’impatto che ciò avrebbe sulla produzione agricola ed alimentare nazionale e mondiale. Pensiamo alle conseguenze che ora vediamo concentrate nella guerra. È uno scenario davvero critico, in cui la crisi alimentare, le migrazioni di massa e i conflitti potrebbero moltiplicarsi. Non intendo affatto spandere allarmismo. Ma è mio dovere mettere sul tavolo le carte di cui disponiamo, cosa che l’ambiente scientifico cerca di fare, appunto, da tempo. Tuttavia, non si nota un riscontro adeguato alla serietà della situazione da parte della classe dirigente politica a livello globale.
È vero che piove meno?
Non ho sottomano dati aggiornati in merito, tuttavia abbiamo sempre più spesso periodi prolungati senza pioggia e periodi con piogge molto intense e molto localizzate.
Ci dica del «cuneo salino» nel Po: cos’è e perché tanto preoccupa.
Nel Po si sono verificati, dal 2000, escluso l’anno corrente, cinque periodi di «magra», ossia di siccità, precisamente nel 2006, 2007, 2012, 2015 e 2017. In tutti questi casi la portata è scesa al di sotto dei 450 metri cubi di acqua al secondo – portata definita critica dalle autorità di bacino – che comporta la risalita delle acque del mare nel fiume. La FAO – l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – stabilisce la soglia critica di salinità dell’acqua ad uso irriguo in 2 grammi per litro: oltre tale grado di salinità, l’acqua diventa inutilizzabile in agricoltura. Ebbene nel 2006 – il primo (e più severo) dei 5 anni di magra del Po osservati – la portata del fiume, a fine luglio, era scesa a 189 metri cubi al secondo e l’acqua marina era risalita sino a 33 chilometri dalla foce con salinità che hanno superato ampiamente la soglia critica (in alcuni casi si sono superati i 30 grammi per litro). Ora siamo a fine giugno e il «cuneo salino» è già risalito sino a 21 chilometri dalla foce. Anche quest’anno, a meno di importanti piogge nelle prossime settimane, il periodo peggiore di secca potrebbe giungere tra fine luglio e inizio agosto. A tutt’oggi si prevede il superamento del record negativo di 33 chilometri di risalita delle acque salmastre. È, dunque, facile prevedere conseguenze gravissime per l’agricoltura – e non solo – in quell’area.
Quali sono le conseguenze sulle aree «verdi»?
Le immagini del satellite del 22 marzo scorso relative all’area Novara-Milano-Pavia − peraltro facilmente accessibili a tutti dal sito della Agenzia spaziale europea − mostrano come già all’inizio della primavera il colore prevalente fosse il giallo, mentre avrebbe dovuto essere almeno vicino al verde. Altre immagini – più recenti – mostrano le isole che si sono formate nell’alveo del Po: veri e propri lidi bianchi.
Il mio gruppo di ricerca sta lavorando sul confronto delle immagini rispetto al 2006, l’anno di massima risalita del cuneo salino. Abbiamo analizzato l’indice di vigoria della vegetazione delle aree coltivate. Stiamo osservando come nelle superfici più vicine al mare − quelle maggiormente interessate dal fenomeno della salinità dell’acqua − la vegetazione giunga allo stato di stress: il verde non è verde come dovrebbe essere. Ma anche nell’entroterra − in cui il cuneo non è ancora risalito e la salinità è al di sotto della soglia critica − la vegetazione è comunque in stato di sofferenza.
Cosa si sarebbe potuto fare e che cosa si è ancora in tempo a fare?
Andrebbe fatta una riflessione sulla specie homo sapiens, quindi su noi stessi, prima di tutto. Alla fine, potrò rivolgere un appello di etica ambientale. Ciò che osservo è che, nonostante tutto quello che la scienza comunica da anni e nonostante le previsioni dei cambiamenti climatici di cui ho detto, la specie homo sapiens, finché non è toccata direttamente, finché – almeno nel nostro Paese – riesce ad avere la propria casa dotata di impianto idrico, il proprio giardino irrigato, la propria auto lavata, non avverte questi problemi come propri. La politica poi, non solo in Italia, ha uno sguardo principalmente rivolto alle prossime elezioni. Non c’è, dunque, ancora una vera programmazione sistemica che sia volta ad affrontare gli enormi problemi ambientali che abbiamo di fronte. Sinora abbiamo sostanzialmente navigato a vista, cercando di rimediare ai disastri, a posteriori.
Sono ancora molte le cose che – con fondamento scientifico – si possono fare e si devono fare, a mio avviso. A partire da un programma di risparmio e migliore impiego della preziosa risorsa dell’acqua. Penso ai tanti sprechi ancora presenti. Si possono poi programmare opere di invaso (micro-invasi) per raccogliere le acque quando piove molto e costituire riserve per i periodi di siccità e non solo. Bisogna evitare in tutti modi di andare a prelevare altra acqua ad uso irriguo nelle falde di profondità o andare ad esaurire i corsi d’acqua al di sotto del livello minimo per la sussistenza dei loro ecosistemi.
Va poi aperto il confronto sull’alimentazione del futuro portando al tavolo della discussione sia i portatori di interesse, sia i politici, sia i cittadini: non potremo infatti più permetterci, specie in Italia, lo stesso tipo di colture. Si deve passare da un’agricoltura che richiede molta acqua a un’agricoltura che richiede meno acqua, migliorando anche i sistemi di irrigazione. È inevitabile: bisogna mettersi d’accordo per tempo, cioè al più presto, ovvero subito.
Non si tornerà indietro. Senza una visione per il futuro andremo incontro inevitabilmente al collasso. A chi ritiene tale previsione inverosimile dico che la storia insegna come già civiltà del passato siano collassate non essendosi adattate e non avendo trovato soluzioni ai problemi ambientali. A maggior ragione è possibile ora.
Sono possibili sistemi di irrigazione diversi per risparmiare l’acqua? Dalle mie parti certi prati d’erba per l’alimentazione bovina sono irrigati a scorrimento…
Ho recentemente sentito qualcuno sostenere la bontà dell’irrigazione a scorrimento per il mantenimento delle zone umide e la conservazione della biodiversità. A partire dalla obiettiva costatazione della carenza d’acqua di questo periodo − mentre in estate la neve è già tutta sciolta sulle montagne, gli ultimi ghiacciai si stanno sciogliendo e in pianura ci troviamo a 37 gradi centigradi − dico che non possiamo più permetterci questi sistemi di irrigazione: sono troppo dispendiosi. Dobbiamo necessariamente e rapidamente passare alla cosiddetta irrigazione di precisione guidata dalle moderne tecnologie. Lo Stato d’Israele è all’avanguardia in tal senso.
A che punto siamo con i progetti di realizzazione di invasi d’acqua?
Se ne sta parlando. Ma, a parte qualche sperimentazione, siamo lontani dal livello sistemico. I consorzi di bonifica stanno però elaborando qualche interessante progetto. Noi stiamo portando avanti una simulazione al computer su zone adibite a vigneto in pendenza. Stiamo ipotizzando un sistema di micro-invasi, prendendo semplicemente spunto dai padri che sulle colline avevano cura di lasciare pozze d’acqua in cui raccogliere sedimenti dai quali attingere nelle siccità. In pianura, naturalmente, gli invasi dovrebbero essere di maggiori dimensioni. Ma l’obiettivo è lo stesso: raccogliere le acque in deflusso quando piove in modo abbondante per utilizzarle quando non piove. È chiaro che oggi serve un piano capillare sui territori. Siamo solo all’inizio. Ma la strada mi sembra quella giusta.
Quali sono, dunque, i comportamenti da incoraggiare? Quale il suo appello?
Come dicevo, c’è ancora molto individualismo o se vogliamo egoismo – più o meno consapevole – in materia ambientale. È facile pensare che questi siano problemi temporanei, dimenticarsene velocemente, o comunque pensare che possano essere affrontati e risolti a titolo personale. Dovremmo invece renderci conto che la nostra casa è la «casa comune» che condividiamo con tutti gli organismi viventi. Ai miei giovani studenti lo ripeto costantemente. Dobbiamo avere tutti più cura della nostra «casa comune». Dobbiamo nutrire insieme una visione del futuro e delle future generazioni: futuro con cui ha a che fare il termine sostenibilità che oggi tanto si usa, a proposito e a sproposito. Altrimenti si pregiudica il futuro. Ognuno chiaramente ha il proprio posto e il proprio ruolo da svolgere: da uomo di scienza, io devo impegnarmi a studiare e a comunicare dati corretti e comprensibili, gli amministratori devono impegnarsi a realizzare i progetti migliori, i cittadini devono impegnarsi a consumare e a comportarsi nel migliore dei modi rispettando l’ambiente.
Qual è il suo giudizio sull’enciclica Laudato si’ di papa Francesco?
Da studioso laico non ho alcuna difficoltà a riconoscere nella Laudato si’ uno dei documenti di etica ambientale più lungimirante e quindi più importanti del nostro tempo.
GIORDANO CAVALLARI (a cura)