Occorre un ripensamento pastorale più profondo
2022/10, p. 25
Dobbiamo accettare con onestà che questi temi suscitano ancora troppa resistenza e rifiuto sia a livello teorico che pastorale. In ballo non c’è soltanto il complesso universo dell’omosessualità, bensì la sessualità in quanto tale perché è in questa prospettiva più ampia che va collocata.
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Testimoni
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LGBT, NON BASTANO SLOGANS
Occorre un ripensamento pastorale
più profondo
Dobbiamo accettare con onestà che questi temi suscitano ancora troppa resistenza e rifiuto sia a livello teorico che pastorale. In ballo non c’è soltanto il complesso universo dell’omosessualità, bensì la sessualità in quanto tale perché è in questa prospettiva più ampia che va collocata.
«Ecco, tre uomini ti cercano; alzati, scendi e va’ con loro senza esitare, perché sono io che li ho mandati» (At 10,20): sono le parole che lo Spirito dirige a Pietro quando i tre messaggeri di Cornelio giungono a Giaffa. Pietro non conosce la ragione della loro missiva, né Cornelio ha un’idea di cosa voglia da Pietro. Entrambi hanno risposto a un invito ricevuto mentre erano in preghiera: al primo è stato ordinato di uccidere e mangiare anche animali impuri – cosa scandalosa per un pio ebreo qual era –; al secondo, di mandare a chiamare Simone perché andasse da lui. L’incontro tra i due uomini è avvenuto, ancor prima che in casa di Cornelio, nella preghiera, in uno spazio in cui Dio ha funto da mediatore e orchestratore.
“La mia esperienza”
Se dovessi riassumere la mia esperienza nei gruppi di persone LGBT – uso questa sigla, seppure riduttiva – lo farei con le parole dello Spirito a Simone: «Va’ con loro senza esitare», «va’», si potrebbe parafrasare «non cavillare, non opporre resistenza, poi capirai».
Tutto è nato per caso, senza alcuna pianificazione previa.
Era il 2014. Da alcuni anni insieme a una decina di volontari avevamo dato vita a Guadalajara (città messicana dove ho svolto la mia missione per 35 anni) a un «Centro ascolto giovani e adolescenti» (CdE). Offrivamo, con scadenza settimanale, da dieci a quindici colloqui personali a ragazzi e ragazze in difficoltà. Non eravamo ben coscienti a cosa andavamo incontro. Ben presto la realtà ha superato la nostra immaginazione.
Abbiamo sentito il bisogno di organizzare delle serate di studio, guidate da esperti, aperte al pubblico sui temi più frequenti e scottanti: suicidio, depressione, abuso sessuale e psicologico, dipendenza da droghe, omosessualità, conflitti familiari, ecc. Volevamo che quelle serate fossero anche un’occasione di sensibilizzazione e di approfondimento per genitori, operatori educativi e pastorali e per quanti avessero a cuore il disagio giovanile. La nostra sorpresa più grande è stata la sera in cui si è affrontato in una tavola rotonda il tema dell’omosessualità. La sala, che poteva ospitare al massimo un’ottantina di persone, s’era riempita all’inverosimile. Lo scambio tra i relatori era stato molto acceso perché di tendenze diametralmente opposte. Il pubblico aveva reagito con una partecipazione altrettanto vivace. All’improvviso si è alzato un ragazzo, uno spilungone un po’ impacciato e timido, che ci ha rivolto una domanda a bruciapelo: «Parlate tanto, però cosa fate per coloro che sono emarginati dalla Chiesa?». Non sapevo cosa rispondere. Mi sono limitata a dire: «Per ora niente. Questa è la verità. Se vuoi ne parliamo dopo». Quando ormai tutti se ne erano andati, quel ragazzo, insieme ad altri amici, mi ha aspettata fuori e abbiamo cominciato a chiacchierare un po’. «Perché non torniamo a vederci? Possiamo invitare altri a venire?».
La richiesta mi è piombata addosso come un masso. Non avrei mai pensato di trovarmi in tale frangente. Confesso che tutto quello che avevo studiato al riguardo mi allontanava istintivamente da quel mondo. Non so perché ho detto di sì. Gli occhi di quel ragazzo mi guardavano supplicanti, attendevano almeno comprensione. Sentivo che non potevo tirarmi indietro.
Abbiamo iniziato a vederci ogni quindici giorni, dapprima erano una decina, fino a diventare venti e più. Venivano da confessioni cristiane diverse (cattolici, anglicani, chiesa metropolitana) tutti accomunati da un unico dolore: essere stati emarginati dalle rispettive Chiese. C’era chi aveva fatto la catechista per tanti anni e poi, il giorno in cui ha dichiarato la propria omosessualità, allontanata senza se e senza ma da quel servizio. C’era chi si era aperto con il confessore e si era visto privare dell’assoluzione o mandato via prima ancora di enumerare i propri peccati. C’era un sacerdote della Chiesa anglicana che per anni era stato escluso da posti di rilievo.
Forte bisogno di sentirsi capiti
Potrei raccontare tante altre storie: queste sono le più emblematiche.
I primi incontri non avevano un andamento molto definito. C’era il bisogno di conoscersi, di condividere la propria storia, di sentirsi capiti. Quando arrivava un membro nuovo, tutti mettevamo la mano al centro del tavolo e promettevamo di non rivelare ad altri quanto sarebbe emerso nell’incontro; era una garanzia di riservatezza necessaria perché tutti e tutte si sentissero a proprio agio.
Fin dal primo incontro le domande rimbalzavano come schegge impazzite: «Noi cosa siamo per la Chiesa? Siamo peccatori, pervertiti, criminali, malati psichici, eccentrici? È o non è amore quello che proviamo per la persona che abbiamo scelto come compagno/a?».
Mi rendevo conto che le risposte date un tempo non bastavano più e che, pur addolcendone i termini, finivano sempre per ferirli. Ho lasciato che facessero venir fuori il troppo pieno del cuore. Mi limitavo ad ascoltare, a cercare di guardare il mondo coi loro occhi. E ho visto cose che non avrei immaginato. Non erano soltanto storie di dolore, di rifiuti e di disprezzi, erano anche storie belle, storie di incontri, di innamoramenti, di ferite ricucite, di gesti d’amore e di squisita delicatezza.
Esperienze di umiliazioni
Una volta Juan (i nomi sono fittizi) si presentò all’incontro con il volto tumefatto, il corpo pieno di lividi. Di ritorno a casa un gruppo di giovani l’aveva picchiato, così, tanto per divertirsi un po’. Ci disse delle umiliazioni sofferte nel collegio di suore dove aveva studiato, delle bugie che inventava per fingere quello che non era. Aveva desiderato farsi sacerdote, capì ben presto che sarebbe stato impossibile.
Un’altra volta Diego ci ha raccontato della sera in cui era stato punto da uno scorpione. In preda al dolore e alla paura aveva telefonato a Manuel, un altro del gruppo, chiedendogli di portarlo all’ospedale, viveva solo e non sapeva a chi rivolgersi. Manuel è andato a prenderlo ed è rimasto a dormire in macchina tutta la notte, fuori dal pronto soccorso, finché non l’ha visto riapparire ormai fuori pericolo.
Sera dopo sera, incontro dopo incontro, siamo diventati amici, amiche, fratelli, sorelle. Si pregava insieme, si scambiavano opinioni su questo o quel tema scelto per l’occasione, si raccontava il vissuto, si condivideva il pane e la festa. Abbiamo imparato persino a danzare perché uno dei ragazzi ci ha voluto insegnare a farlo. Purtroppo alcuni, dopo avere condiviso storie drammatiche, non tornavano più. Il timore del giudizio, del rifiuto era, ed è, ancora troppo forte, troppo amaro per essere sciolto da semplici incontri tra persone che si vogliono bene. Noi eravamo una piccola oasi in pieno deserto.
Non basta affermare
che Dio è un Padre buono
Ho cercato e cerco ancora di capire, di avere una visione più profonda e comprensiva di questa realtà. Credo che per giustificare l’accettazione cordiale di queste persone non basti affermare che Dio è un padre buono, che ama tutti i suoi figli e le sue figlie così come sono. Non basta perché molti di loro si scontrano con un divario scandaloso tra queste affermazioni e le realtà ecclesiali in cui si trovano a vivere. Non si può affrontare un fenomeno così complesso a colpi di slogans o di frasi semplificatrici.
C’è bisogno di un ripensamento molto più articolato sia dal punto di vista antropologico-psicologico che etico-teologico. Dobbiamo accettare con onestà che questi temi suscitano ancora troppa resistenza e rifiuto sia a livello teorico che pastorale. In ballo non c’è soltanto il complesso universo dell’omosessualità, bensì la sessualità in quanto tale perché è in questa prospettiva più ampia che va collocata. Nonostante timide aperture al riguardo, nonostante se ne parli in lungo e in largo, rimane per la Chiesa una dimensione temuta, un campo minato. Essa fa fatica a capire e più ancora ad accogliere il mutare delle pratiche e delle percezioni riguardo alla sessualità avvenute dal secolo XX in poi.
Abbiamo assistito in questi anni a un aumento di gruppi LGBT, a iniziative di studio, di preghiera, di aggiornamento pastorale per accompagnare persone di diversi orientamenti sessuali, tuttavia, finché ci sarà una pastorale «speciale», vorrà dire che quei fratelli e quelle sorelle continueranno a essere una «questione», un’eccezione da trattare con i dovuti riguardi.
Nel gruppo che ho avuto la fortuna di accompagnare, ogni tanto veniva fuori questa domanda: «Cosa ci stiamo a fare qui? A cosa serve trovarci insieme?». All’inizio la risposta più scontata era: perché abbiamo bisogno di questo spazio di libertà in cui raccontarci e sentirci amati per quello che siamo. Poi non è più bastata. Si capiva che la prima spinta emotiva sostenuta dall’ «è bello stare insieme», prima o poi si sarebbe esaurita. C’era bisogno d’abbozzare una meta, un senso, un itinerario più ampio. La loro domanda si è incrociata con quella dei volontari del CdE che ogni settimana si trovavano ad affrontare la stessa inquietudine nei colloqui personali coi ragazzi e le ragazze. «Li incoraggiamo nel loro orientamento sessuale o li dissuadiamo? Li accettiamo così come sono o facciamo capire che devono raddrizzare qualcosa?». Occorre tener conto che molti di loro venivano da una religiosità popolare piuttosto accentuata. Era chiaro che anche noi eravamo chiamati a un cammino di riflessione comune e di conversione.
Benché non fosse facile giungere a degli orientamenti condivisi, non potevamo esimerci da tale compito. Ne andava dell’efficacia del nostro servizio e della serietà con cui affrontavamo quella sfida. Quando nel 2018 ho lasciato il CdE – era sopraggiunto il mio ritorno in Italia –una piccola certezza l’avevamo raggiunta. Non toccava a noi dire ai ragazzi se dare libero sfogo al loro orientamento – ciò valeva anche per tante altre dimensioni – né se reprimerlo, sublimarlo, cambiarlo, ammesso che questo fosse stato possibile. Era nostro dovere cercare di aiutare ciascuno di loro a fare il passo alla sua portata verso una maggiore umanità. Non era importante il punto di partenza. Contava crescere nel sapere accettare i propri e altrui limiti, nel rinunciare a qualcosa di sé per il bene dell’altro, nell’accettare di perdonare ed essere perdonati. Umili passi. Forse.
VIRGINIA ISINGRINI MISSIONARIA SAVERIANA