Prati Anita
Ludmila Javorová sacerdote nella chiesa del silenzio
2022/10, p. 18
Nonostante gli interrogativi suscitati, non si può ignorare una testimonianza affascinante che proviene dalla “chiesa del silenzio”. Certamente suscita degli interrogativi anche nella Chiesa cattolica, che, al di là del piano canonico, di tanto in tanto affiorano anche sul piano teologico.

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Testimoni
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UN LIBRO, UNA TESTIMONIANZA
Ludmila Javorová
sacerdote nella chiesa del silenzio
Nonostante gli interrogativi suscitati, non si può ignorare una testimonianza affascinante che proviene dalla “chiesa del silenzio”. Certamente suscita degli interrogativi anche nella Chiesa cattolica, che, al di là del piano canonico, di tanto in tanto affiorano anche sul piano teologico.
Dalla copertina un’anziana signora ci guarda sorridente. Lo sguardo è limpido negli occhi chiari e il sorriso è gentile ed arguto. La perla dei piccoli orecchini pendenti, bianca come la sciarpetta che le avvolge il collo, dice un’eleganza semplice, pulita; il polso magro e la mano nodosa appoggiata al mento raccontano una vita di lavoro e di pensiero. Il ritratto fotografico si staglia sullo sfondo di uno degli scorci panoramici più famosi della città di Praga, con il ponte Carlo sulla Moldova illuminato dai colori del tramonto.
Un volto di donna, una città
Le due immagini accostate nello spazio basso della copertina lavorano di contrappunto con il titolo stampato nella parte alta – Ludmila Javorová, sacerdote nella chiesa del silenzio–, saldando in modo deciso l’eccezionalità dell’esperienza esistenziale di questa anziana signora gentile, “ordinata sacerdote della Chiesa Cattolica Romana”, come recitava il titolo di un altro libro a lei dedicato, con le drammatiche vicende di clandestinità e persecuzione vissute nel Novecento dai cattolici dei paesi del patto di Varsavia, ai tempi della cosiddetta “chiesa del silenzio”, una stagione della nostra storia recente le cui conseguenze pesano in misura decisiva, ancora oggi, sulle dinamiche politiche e religiose degli Stati europei.
Il libro si snoda nella forma di una lunga intervista in ventidue capitoli, a ciascuno dei quali è premessa una titolazione e una sintetica introduzione dell’intervistatore, il sacerdote salesiano Zdeněk Jančařík. Il dialogo tra Jančařík e Javorová scorre agile; Ludmila, ottantottenne nell’anno dell’intervista, risponde con disarmante freschezza alle domande che le vengono rivolte, sorretta da un’unica preoccupazione: dare testimonianza dell’immenso aiuto ricevuto da Dio.
Le parole di padre Jančařík in apertura del primo capitolo del libro sono espressione significativa del clima di rispetto e di ascolto che fa da sfondo all’intervista, consentendo alla comunicazione di liberarsi da un pre-giudizio quasi inevitabile (…una donna non può essere un sacerdote cattolico!) per accogliere, sotto il piano delle apparenze, il pulsare della vita:
“Fin dall’inizio ho avuto la consapevolezza di star intraprendendo una conversazione in qualità di sacerdote che interroga un altro sacerdote, la consapevolezza che avevamo un unico tema intorno al quale avremmo orbitato per tutta la durata del suo racconto: il sacerdozio come sacramento, il sacerdozio come dono, il sacerdozio come destino, fato, a volte anche maledizione. Un sacramento che segna tutta la vita di chi è stato consacrato, un simbolo che non si esprime col colletto né con la stola, ma col proprio essere.” (p. 23)
È proprio affrancandosi dalle apparenze che padre Jančařík riesce a portare ad evidenza una delle qualità intrinseche non solo del sacramento in sé, ma anche della sacramentalità stessa dell’umana, quotidiana esistenza: il fatto, cioè, che il sacramento viene a toccare la nostra umanità non nel suo apparire di superficie, ma in quella dimensione dell’intimo e del profondo che sola custodisce il Mistero. Non c’è più giudeo né greco, schiavo o libero, uomo o donna…
La memoria di Ludmila
La memoria di Ludmila tesse i fili del racconto. Nei suoi ricordi scorrono le immagini felici dell’infanzia in una famiglia in cui si respirava l’autenticità spirituale; poi la guerra, i rastrellamenti degli ebrei, l’irruzione della Gestapo; il colpo di stato del febbraio 1948, la repressione comunista; l’impossibilità di vivere la fede alla luce del sole, la via della segretezza e del silenzio per sfuggire alle persecuzioni. E poi la figura del vescovo Felix Davídek, conosciuto da Ludmila sin da bambina a motivo della amicizia e della stima reciproca che univa le loro famiglie.
Ludmila fu ordinata sacerdote da Davídek nel silenzio della notte del 28 dicembre 1970:
“Se ora ci ripenso, so che dentro sentivo una sicurezza che era, ed è, talmente profonda, che se la avessi calpestata, sarebbe andato perduto qualcosa del mio stesso essere.” (pag. 140)
La vita sacerdotale di Ludmila Javorová negli anni successivi all’ordinazione appare in tutto simile a quella di tanti sacerdoti della chiesa del silenzio che, non avendo il permesso statale, svolgevano lavori da laici, limitavano la loro attività pastorale al seguire piccoli gruppi o singole persone nella preparazione al battesimo o al matrimonio, e celebravano la Messa in casa, di nascosto, spesso in solitudine.
Felix Davídek morì nel 1988, poco prima della Rivoluzione di Velluto; negli anni 1989-90 iniziarono ad aprirsi trattative tra le conferenze episcopali ceca e slovacca e il Vaticano in merito alle linee da adottare con i vari rami della chiesa del silenzio. La questione urgente era quella della regolamentazione delle ordinazioni fatte in clandestinità. Nel gruppo dei Koinótés, organizzatosi attorno a Davídek, tra il 1964 e il 1989 erano state ordinate circa una settantina di persone – uomini celibi e sposati, alcune donne. Il problema dei sacerdoti e dei vescovi sposati venne nella maggior parte dei casi risolto e regolarizzato con il loro inserimento nelle strutture greco-cattoliche di rito orientale, dove il matrimonio dei sacerdoti è ammesso. La maggior parte dei sacerdoti in incognito ricevette l’ordinazione sub condicione. Ma a Ludmila e alle altre donne non venne offerta nessuna sub condicione.
Ludmila racconta i primi incontri con i rappresentanti della chiesa ufficiale: il primo colloquio con il vescovo di Brno Vojtěch Cikrle e poi quello con il nunzio in Cecoslovacchia Giovanni Coppa – colloqui condotti con tatto, all’insegna del desiderio di comprensione. Fu, invece, il focolarino padre Karel Pilík a portarle il divieto e le direttive:“Arrivò coi divieti e mi ordinò: «Firmi qui!». Io gli dissi: «Voglio una copia». C’era scritto che non avrei dovuto parlarne e io ci scrissi sopra: «Riconosco che al momento presente non posso celebrare pubblicamente». Non mi hanno dato la copia di quel divieto, anche se l’avevo chiesta.
«Non si può!». Mi rifilò in mano il foglio: «Firmi qui!».
Ho barrato il campo della firma e ho aggiunto: «Non celebrerò pubblicamente, ma non prometto di non parlare del mio sacerdozio». E poi ho annerito gli spazi intorno, in modo che nessuno ci potesse aggiungere niente.” (pag. 172)
“L’argomento principale, che tralasciava del tutto i motivi di quell’ordinazione, era la comunicazione, dal tono perentorio e burocratico, che la dichiarava invalida. Io obiettavo che non si trattava di una spilla che uno può togliersi di dosso con nonchalance, che era una cosa inscritta nel mio essere”. (pag. 199)
“Gli articoli canonici non sono lo Spirito Santo. Servono pro foro externo ma lo Spirito Santo non si lascia vincolare dai nostri articoli”. (pag. 201)
“Io in quel protocollo ho firmato che il papa non mi riconosce il sacerdozio, ma non ho firmato di non essere sacerdote. Non intendo tacere il fatto che sono sacerdote”. (pag. 208-9)
Quando Padre Pilík mi intimò: «Da quest’istante è finita!», io gli ho risposto: «E secondo lei è possibile? Come dovrei fare?». Non è possibile! È una cosa che non si può estirpare! È fuori questione.” (pag. 227)
Ora come allora?
Un filo di indignata tristezza percorre le parole di Ludmila mentre ricorda la violenza delle pressioni e delle intimidazioni subite. Come mettono in evidenza Marinella Perroni e Cristina Simonelli nella loro introduzione al libro di padre Jančařík, una duplice spirale di silenzio avvolge Ludmila Javorová. L’espressione ecclesia silentii indica, sì, l’esperienza della chiesa clandestina nei paesi del blocco sovietico durante gli anni della Guerra Fredda; ma c’è anche un altro silenzio dentro la Chiesa: il silenzio che, a partire dal paolino Mulieres in ecclesiis taceant, ha coperto nei secoli, e ancora tenta di coprire, la parola femminile.
E, così, duplice è il valore testimoniale della vicenda umana di questa anziana, gentile signora, che parla senza acredine, senza toni accusatori e senza rivendicazioni: da una parte c’è l’esemplarità di una coraggiosa vita di fede in tempo di persecuzione e martirio; dall’altra c’è la testimonianza delle azioni messe in atto dalla Chiesa per rimuovere l’esperienza ministeriale femminile dalla carne viva della sua storia ed espungerla dalla Tradizione.
Proprio grazie a questa testimonianza possiamo gettare uno sguardo sui meccanismi di sottrazione del protagonismo femminile che, nella Chiesa e non solo, hanno attraversato i secoli; e mentre diventa naturale e legittimo chiedersi quante altre donne abbiano ricevuto lo stesso violento, perentorio diktat, e quante voci e presenze di donne siano state nel tempo marginalizzate, mistificate o siano del tutto andate perdute, viene a rafforzarsi ancora di più la consapevolezza che, per restituire alla storia la sua verità, non si può prescindere da un approccio ermeneutico capace di leggere nei testi le complicazioni del non detto, dell’implicito, del sottaciuto, del rimosso, dell’espunto.
Come scrive Elisabeth Schüssler Fiorenza:
“Tenendo conto del contesto patriarcale in cui si è svolto il processo di formazione del canone, è necessario fare appello ad un’ermeneutica «del sospetto». Le notizie relative alle donne, che si trovano nei testi canonici sopravvissuti, e gli scritti dell’ortodossia patristica non sono obiettivi o neutrali.”
A distanza di pochi anni dalla Caduta del Muro di Berlino e dalla Rivoluzione di Velluto, nel 1994, Giovanni Paolo II emanava la Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis - “Sull’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini”, come risposta alla Chiesa anglicana che aveva permesso l’ordinazione delle donne e, implicitamente, per prendere le distanze in modo inequivocabile da quanto accaduto nella ecclesia silentii d’oltrecortina.
Nel documento, Giovanni Paolo II fa riferimento ad un passaggio della propria enciclica Mulieris dignitatem: «Chiamando solo uomini come suoi apostoli, Cristo ha agito in un modo del tutto libero e sovrano».
Qualche anno dopo, nel 2016, papa Francesco apporta una leggera modifica al Calendario Romano Generale elevando la celebrazione liturgica di Maria di Màgdala da “memoria” a “festa”, in modo da porla sullo stesso grado di festa dato alla celebrazione degli altri apostoli. In Maria Maddalena si riconosce infatti, secondo una antica tradizione della Chiesa, l’apostola degli apostoli che annuncia ai Dodici quello che essi, a loro volta, annunceranno a tutto il mondo: Santa Maria Maddalena, Resurrectionis dominicae prima testis et evangelista, prima testimone oculare del Cristo Risorto e prima evangelista, apostolorum apostola.
Yentl, lo studente della «Yeshivà»
Negli anni successivi all’Ordinatio sacerdotalis, il tema dell’ordinazione delle donne ha continuato ad attraversare, in forme più o meno manifeste, la vita della Chiesa, suscitando non poche preoccupazioni nella gerarchia. Nel 2018 il cardinale Luis Ladaria, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha emanato il documento “A proposito di alcuni dubbi circa il carattere definitivo della dottrina di Ordinatio Sacerdotalis”, in cui ribadisce a chiare lettere che la Chiesa si è sempre riconosciuta vincolata alla decisione del Signore di comunicare il sacramento dell’ordinazione ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini. Nel documento il Cardinal Ladaria ribadisce: “La Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla «sostanza del sacramento» dell’Ordine.”
Ma dove sta la sub-stantia? Nella superficie che appare o nel profondo che sub-sta e non si vede?
Nel racconto di Isaac B. Singer intitolato Yentl, lo studente della «Yeshivà», protagonista è Yentl, una giovane che, insieme al padre rabbino, dedica lunghi anni allo studio della Torah, nonostante alle donne sia proibito, dimostrandosi un’allieva molto brillante. Dopo la morte del padre, per poter continuare a studiare, la ragazza decide di cambiare città e travestirsi da uomo, facendosi chiamare Anshel, così da essere ammessa in una scuola rabbinica. Qui entra in amicizia con il giovane Avigdor, con il quale stabilisce un legame molto profondo, tanto da sentirsi in dovere di svelargli la verità. Il momento della rivelazione è drammatico: Avigdor non vuole credere alle parole di Yentl che, per mettere l’amico di fronte all’evidenza, si vede costretta a spogliarsi del giubbetto, dello scialle frangiato e della biancheria intima. Avigdor, ammutolito, la guarda sconvolto. Le gambe non lo reggono, deve mettersi a sedere. È pieno di orrore, non sa più cosa fare: la Legge gli impedisce di trascorrere anche solo un momento in presenza di Yentl – che è una donna, non un uomo come lui pensava. Eppure, non appena Yentl torna ad indossare gli abiti maschili, ecco che davanti a lui compare di nuovo l’aspetto familiare di Anshel, l’amico più caro, e la conversazione può riprendere con la stessa disinvoltura di prima:
«Come hai potuto indurti a trasgredire ogni giorno al comandamento: “La donna non indosserà ciò che si confà all’uomo”?»
«Non sono stata creata per spennare galline e cicalare con femmine.»
«Preferisci perdere il tuo posto nell’al di là?»
«Forse…»
A poco a poco, i due tornarono alla loro conversazione talmudica. A tutta prima parve strano ad Avigdor discutere di Sacre Scritture con una donna, eppure, di lì a non molto, la Torah li aveva riuniti. Sebbene i loro corpi fossero diversi, le loro anime erano della stessa specie.
ANITA PRATI