L’interculturalità della missione
2022/10, p. 3
Quando ero piccola, vedendo i missionari che “salpavano per i lidi più lontani”, mi sembravano persone che non solo diffondevano la nostra santa religione, ma anche la nostra civiltà in quelle terre sfortunate. Poi si preferì parlare di cultura al posto di civiltà (come potevamo noi dirci civili, dopo i massacri e le nefandezze delle due guerre mondiali?). Poi si parlò di inculturazione al posto di cultura (che cosa aveva ancora di cristiano la nostra cultura laicistica o materialistica?).
Ora si parla di interculturalità al posto o accanto a inculturazione, data la vicinanza di molte culture diverse, che devono convivere, senza sopraffarsi e senza dilaniarsi.
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Testimoni
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L’INTERCULTURALITA’ DELLA MISSIONE
Le confessioni di suor Giacomina
Come cambiano le parole!
Quando ero piccola, vedendo i missionari che “salpavano per i lidi più lontani”, mi sembravano persone che non solo diffondevano la nostra santa religione, ma anche la nostra civiltà in quelle terre sfortunate. Poi si preferì parlare di cultura al posto di civiltà (come potevamo noi dirci civili, dopo i massacri e le nefandezze delle due guerre mondiali?).
Poi si parlò di inculturazione al posto di cultura (che cosa aveva ancora di cristiano la nostra cultura laicistica o materialistica?).
Ora si parla di interculturalità al posto o accanto a inculturazione, data la vicinanza di molte culture diverse, che devono convivere, senza sopraffarsi e senza dilaniarsi.
In un tempo come il nostro, dove tutti si muovono (o si muovevano prima del corona virus), tutto si mescola dalle lingue alle religioni, dal colore della pelle alle abitudini, dalle mentalità alle culture, creando grandi occasioni di incontri, come dicono gli ottimisti, o grandi occasioni di scontri, come dicono i pessimisti.
Anche per il quieto vivere parliamo di interculturalità, di rispetto delle singole culture, di favorire l’incontro più che lo scontro. E, come cristiani, per via della fraternità dal momento che apparteniamo tutti alla grande famiglia dei figli di Dio.
Ma io, povera suor Giacomina, un tempo ardente missionaria, in questa interculturalità dove metto il mio spirito missionario? Mi domando spesso come posso essere missionaria fra tante diversità di compiti: esigenze di dialogo, necessità dell’annuncio, l’attenzione a evitare il proselitismo… Non mi sembra per nulla facile… non solo per me, ma anche per chi studia questi problemi, quando li affrontano nella vita quotidiana. Confesso che quando voglio schiarirmi le idee, rivado col pensiero a un colloquio avuto con un missionario impegnato in territorio islamico, al quale chiedevo se, a suo parere, qualche musulmano immigrato dalle nostre parti, poteva convertirsi. Con mia sorpresa rispose affermativamente, “a due condizioni: che siano accolti fraternamente e che noi dimostriamo di credere in Dio”. E aggiungeva: “Il problema più serio per voi è il secondo”.
Mi è sembrata una buona regola di comportamento per l’incontro con le varie culture: accogliere con carità ogni persona, cercando di capirla prima di giudicarla, guardando più ai bisogni che alle idee, e poi testimoniare serenamente la mia fede, attendendo che Dio apra la porta del suo cuore, quando a Lui piacerà che io parli di Lui.
È una regola che può essere utile per ogni forma di interculturalità, sia tra le religioni, sia tra le religiose, proprio anche tra noi religiose Ancelle!
Mi pare che questo sia anche l’insegnamento di papa Francesco, che ha preso sul serio il primato della carità in tutti gli aspetti della vita personale e sociale sia per fedeltà al Vangelo, sia per la situazione esplosiva del mondo contemporaneo, dove si verifica, sempre più frequentemente, che nella lotta per le idee, sono gli uomini a lasciarci la pelle. Mi pare che sia anche questa la lezione magistrale lasciataci da Sorella Lucia Ripamonti, la quale ha fatto molto, ha ascoltato moltissimo e ha parlato poco. Ma quell’immensa quantità di silenziosa dedizione ha dato un’autorevolezza straordinaria alle sue semplici ma incisive parole, comprensibili da ogni categoria di persone di ogni estrazione culturale. Persino noi suore siamo riuscite a comprenderla, dopo aver contribuito a santificarla.
E qui devo fare proprio una confessione ulteriore: a volte mi sembra che ciascuna di noi sia una cultura a parte, perché talvolta diciamo le stesse parole, ma diamo ciascuna un suo significato, con conseguente difficoltà a capirci. E non solo perché una è bresciana, l’altra è milanese o udinese, ma perché ci chiudiamo a riccio e non ascoltiamo né ci confrontiamo seriamente le une con le altre. Qui devo chiedere la vostra assoluzione, per avervi coinvolte nella mia visione monoculturale…(Grazie!).
Ma torniamo al nostro argomento, per concludere il discorso che rischia d’essere sconclusionato. Il linguaggio della carità è un linguaggio universale, che gode della più ampia udienza, che viene compreso da tutte le culture, che apre le porte al dialogo, che rispetta l’identità altrui, che permette di rispondere alle domande circa la nostra vita… È l’amore vero che apre le porte all’annuncio del Dio vero. Omnia vincit Amor! L’amore-carità supera ostacoli che sembrano invalicabili, anche alla testimonianza della nostra fede.
L’amore vero è come un virus che non fa differenza di cultura, è un’entità interculturale, che si adatta ad ogni vivente… con la differenza che la carità è un virus benefico…
Chiedo allo Spirito Santo che mandi il virus della carità interculturale, prima per me e poi per tutte le mie carissime sorelle, perché siamo capaci di gettare ponti più che di costruire muri, di comprendere per essere comprese, di essere portatrici sane del santo virus del Vangelo!
PIERGIORDANO CABRA