Chiavi di lettura parziali o sbagliate
2022/1, p. 3
In questa crisi abbiamo l’occasione di uscire dalla dicotomia
tra i valori soggettivi e quelli comunitari.
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Testimoni
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DUALISMI CHE NON FANNO BENE ALLA VITA
Chiavi di lettura parziali o sbagliate
In questa crisi abbiamo l’occasione di uscire dalla dicotomia tra i valori soggettivi e quelli comunitari.
La nostra cultura occidentale si è ritrovata con questa lacerazione anche perché ha messo al centro un modello di pensiero tradizionale e a mio avviso patriarcale che si nutre di dualismi che non fanno bene alla vita. Da un lato la cura come valore da vivere nell’intimità del mondo privato (una cura più femminile) e dall’altro la giustizia come valore pubblico (che sarebbero gli uomini a dover gestire). In questo senso non ci siamo preoccupati troppo dell’etica e della giustizia dei nostri luoghi di cura, e abbiamo domandato a chi ci lavora di comportarsi da eroi. Abbiamo visto personale sanitario, infermieristico e medico stremato. Non ci siamo mai fatti seriamente la domanda: chi si prende cura delle e dei curanti? In quali condizioni etiche, spirituali e politiche versano gli spazi in cui finisce la vita fragile? Nemmeno il samaritano è un eroe solo, perché c’è l’albergatore che accetta di lasciarsi implicare in un’opera di bene che non nasce per sua iniziativa e che per lui comporta qualche rischio di non ritorno.
Non a caso, in Fratelli tutti spicca la parabola del buon samaritano, che è una figura di cura in cui sono le norme religiose – le norme di purità seguite dal sacerdote e dal levita che tirano dritto senza fermarsi a soccorrere l’uomo mezzo morto a terra sul ciglio della strada – a rivelarsi un ostacolo alla vita. È stata toccata l’anima del Vangelo, la prossimità, e non abbiamo un pensiero, un linguaggio, delle pratiche che siano all’altezza delle trasformazioni.
Libertà, uguaglianza e fraternità: una triade che abbiamo assunto in una chiave malata. Libertà come spazio autoreferenziale. Per esempio, la posizione delle persone che rifiutano il vaccino esprime un’idea individualistica di libertà, come se la libertà venisse dal nulla, fosse una proprietà da far valere e da esercitare in autonomia. Così abbiamo un’etica costruita sull’autonomia e sulla competizione perché non abbiamo ascoltato abbastanza le donne, che ci mostrano la possibilità di un paradigma differente. Il modello materno, per esempio, racconta di una cura che ha le proprie asimmetrie ma che non ragiona sull’asse del mors tua vita mea, dell’“o sei lupo o sei agnello”, “o sei vittima o sei carnefice”. Nei lavori femminili di etica della cura c’è la proposta di superare il dualismo tra pubblico e privato, tra politica e cura, tra etica e giustizia.
Ma il modello dell’uguaglianza riconduce purtroppo le differenze a un modello privilegiato (le donne uguali agli uomini ma si può dire di tutte le differenze che il diritto non sa ospitare ma solo avvicinare alla norma che ha privilegiato).
Fraternità come qualcosa che non ha a che fare con il contesto pubblico, da vivere nelle famiglie e nelle chiese, in forma spesso mascherata e ipocrita.
Questa pandemia ha portato l’attenzione sul fatto che non possiamo dare per scontato di essere una comunità. Stiamo insieme, ma non ci abbiamo mai pensato veramente a come stiamo insieme. A questo servono le parole: proviamo a raccontarci le nostre esperienze di comunità e a metterle insieme, proviamo a sostare sugli attriti che si generano, proviamo a renderci conto che la comunità dipende da come stiamo insieme, da come parliamo, pensiamo, ci comportiamo, distribuiamo le risorse, da come lavoriamo...
Uscire da una tragica dicotomia
In questa crisi noi abbiamo l’occasione di uscire dalla dicotomia così tragica tra i valori soggettivi e quelli comunitari... Uscire dalla logica della sovranità che di fatto è competitiva, uscire da una scala di valori tutta centrata rigidamente sull’autonomia e riscoprire i legami come scommessa di senso non solo soggettiva ma anche politica...
Ci siamo ritrovati in un deserto imprevisto, e vi abbiamo camminato con fatica proprio mentre pensavamo che la vita fosse ormai tutta sotto controllo, che il nostro sapere fosse sufficiente a farci da garanzia e che la natura ci avesse concesso un posto d’onore che legittimasse il nostro atteggiamento estrattivo e predatorio. Abbiamo scoperto un virus che ci ha scoperto, ci ha tolto le coperte di dosso... E questo deserto è stato soprattutto deserto pieno di paure e vuoto di relazioni.
È accaduto qualcosa di importante: distanza, e non prossimità, è diventata la nuova parola della cura. L’abbiamo chiamata distanza sociale, ma di fatto è una distanza dei corpi. Con tutto quello che questo ha comportato nelle nostre diverse storie di vita, che vanno rispettate nelle loro differenze.
In questa differenza sono accadute molte cose e, credo, è proprio qui che siamo chiamati a un senso nuovo. È ciò che ha scritto Etty Hillesum, prima di morire in un campo di concentramento: «Se non sapremo offrire al nostro mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo, e non un senso nuovo delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e desolazione, allora non basterà». Queste parole... ci scuotono: non si tratta solo di sopravvivere, ma di trovare un senso nuovo delle cose.
Il nostro linguaggio è ipotecato da antiche sicurezze che non vogliamo mollare. Come quando continuiamo a dire «il sole sorge» o «il sole tramonta», anche se di fatto non crediamo più al sistema tolemaico. È segno che siamo refrattari ai cambiamenti o è una forma di fedeltà all’esperienza percettiva nella quale la terra sotto i piedi ci sembra ferma e il sole pare fare il giro da est a ovest? Difficile dirlo.
Non che le parole manchino. È che i linguaggi sono inadeguati. Lo si vede chiaramente: usiamo la chiave bellica (virus come nemico, noi in trincea, medici in prima linea, accaparramenti come in tempo di guerra e ripresa come dopoguerra) o quella matematica (i numeri della pandemia), o quella apocalittica (il virus come un profeta come se questo virus avesse una verità divina da rivelare, una critica da condividere, una richiesta di conversione da far risuonare, un altrove da far sperimentare). Non sono mancati tra l’altro coloro che in un modo o nell’altro lo hanno presentato come un castigo divino, che per evidenti ragioni non meritano troppa attenzione. Il linguaggio meramente scientifico, certamente fondamentale e ineludibile per gestire l’incertezza degli esiti e i problemi della malattia, è insufficiente sul piano politico, spirituale e comunitario, dove si richiedono una riflessione critica solida e un discernimento continuo.
In questo conflitto simbolico, ormai abbiamo imparato che ci manchiamo. Prendo in prestito alcuni versi di una bellissima poesia di Mariangela Gualtieri, Nove marzo 2020: «E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano. / Forse ci sono doni. / Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo. / […] Per la prima volta / stringere con la mano un’altra mano / sentire forte l’intesa. Che siamo insieme. / Un organismo solo. Tutta la specie / la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo. / […] Adesso lo sappiamo quanto è triste / stare lontani un metro».
Proviamo a pensare la fisionomia delle comunità a partire dalle storie che le persone raccontano. Anche le storie più intime, quelle più disturbanti, sono una misura del volto delle nostre comunità che si possono aprire o chiudere. La scelta non è indifferente per il destino comune. Questa dovrebbe essere la verità della pandemia: ripensare la libertà in modo tale che la comunità non sia una lesione.
LUCIA VANTINI