Vantini Lucia
L’impatto del virus sulla vita consacrata
2022/1, p. 1
La LXI Assemblea CISM, che si è tenuta a Torino/Valdocco dall’8 all’11 novembre 2021, ha posto a tema la rivoluzione della vita fraterna causata dalla pandemia di Covid-19. Ne abbiamo cominciato a dare conto, pubblicando un estratto della relazione di padre Luigi Gaetani, presidente della Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori. In queste pagine diamo spazio alla relazione (la riduzione è nostra) di Lucia Vantini, presidente del Coordinamento teologhe italiane, che ha affrontato con originalità il tema dell’“Impatto della pandemia sull’umano a livello soggettivo e collettivo”, e alle parole di saluto del nunzio apostolico in Italia, monsignor Emil Paul Tscherring, che ha voluto suggerire alcune significative lezioni per la vita consacrata.

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L’impatto del virus sulla vita consacrata
La LXI Assemblea CISM, che si è tenuta a Torino/Valdocco dall’8 all’11 novembre 2021, ha posto a tema la rivoluzione della vita fraterna causata dalla pandemia di Covid-19. Ne abbiamo cominciato a dare conto, pubblicando un estratto della relazione di padre Luigi Gaetani, presidente della Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori. In queste pagine diamo spazio alla relazione (la riduzione è nostra) di Lucia Vantini, presidente del Coordinamento teologhe italiane, che ha affrontato con originalità il tema dell’“Impatto della pandemia sull’umano a livello soggettivo e collettivo”, e alle parole di saluto del nunzio apostolico in Italia, monsignor Emil Paul Tscherring, che ha voluto suggerire alcune significative lezioni per la vita consacrata.
Inizio soffermandomi sulle parole del titolo, che non vorrei in alcun modo dare per scontate. Infatti, nei momenti di crisi succede sempre qualcosa alle parole e si rischia di raccontare il mondo in modo sfasato, mancandone i movimenti in atto. Siamo indubbiamente all’interno di una crisi perché le nostre vite sono state interrotte da una presenza imprevista, una presenza impercettibile eppure estremamente pericolosa per la nostra stessa sopravvivenza, che ci ha costretto a modificare la nostra quotidianità, le nostre abitudini, il nostro stato d’animo, i nostri modi di organizzare gli spazi condivisi sul lavoro, nelle scuole, nelle chiese e anche nelle case. Quando viene sconvolta la quotidianità, e questo vale anche quando non ci sono perdite personali, accade sempre qualcosa di traumatico.
Su questo sfondo il titolo si fa più chiaro: l’“impatto”, che il virus ha prodotto nel mondo, è un trauma. Ed è un trauma perché, come tutti i traumi, non si dà completamente alla luce del sole. Qualcosa di implicito e di inconscio è successo nelle nostre vite. Gli sconvolgimenti evidenti hanno lasciato un segno che ancora si esprime per sintomi che fatichiamo a leggere.
Una crisi complessa
Sentiamo di aver vissuto qualcosa che sta ancora dentro una sorta di gestazione inconscia. Non è facile trovare le parole per dire l’esperienza perché quando l’imprevisto irrompe, si tende a fare con le risorse già capitalizzate, ma qualcosa sfugge e c’è da fare un lavoro ulteriore, una rielaborazione.
Tutto questo indica una crisi, perché è saltato l’orizzonte della sicurezza nel quale ci eravamo ormai acquietati come se la realtà fosse sotto controllo. Le nostre mascherine sono il frutto di un evento che in fondo ci ha smascherato nella nostra illusione di sovranità, ci ha scoperto – tolto le coperte di dosso – nella nostra vulnerabilità. Credevamo, come scrive papa Francesco, di essere «sani in un mondo malato». Invece siamo malati e abbiamo generato malattie. Sempre papa Francesco scrive che una crisi non lascia mai identici a prima. Ci scopriremo migliori o peggiori. A seconda di verso dove ci sbilanceremo. È una crisi complessa perché lo sbilanciamento non è da una parte o dall’altra. O almeno non si tratta solo di una scelta di fondo e radicale, anche se questa è ormai inevitabile.
Il tempo della scelta
Oggi, che abbiamo più consapevolezza, c’è bisogno di analisi e di discernimento. Per esempio, occorre farsi una domanda a partire dal fatto che, lo sappiamo, nulla tornerà come prima. E ci domandiamo: quello che non torna è un bene che abbiamo perso o un simulacro che andava avanti per inerzia?
Allora veniamo alle specificazioni del titolo: impatto della pandemia a livello soggettivo e collettivo.
In un libro che si intitola Del buon uso delle crisi, Christiane Singer, scrittrice di profonda sensibilità cristiana, dice che le crisi sono sempre difficili, ma vengono per evitarci il peggio. Non dobbiamo misurare le crisi con l’immaginario della perfezione, che sarebbe potuta essere. Una crisi può essere anche un’occasione per evitare il peggio. Questo allora non è il tempo della prova ma il tempo della scelta, dello sbilanciamento che farà la differenza. Cito ancora papa Francesco: non è il tempo del giudizio di Dio ma è il tempo del nostro giudizio, è il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare il necessario dal superfluo, di fare i conti con le patologie e gli squilibri sociali, culture dello scarto, disuguaglianze, indifferenze.
Di fronte a una delle parole che risuonano sempre di più oggi – vulnerabilità = l’altro mi può ferire e io posso ferire l’altro – c’è da scegliere da che parte stare: se da quella della paura o da quella della solidarietà. Possiamo dire: oddio come siamo fragili! Oppure possiamo dire: oddio come siamo vicini, prossimi, interdipendenti! Sono vere entrambe le cose. Ma tutto dipende da quale delle due verità ci ispira di più.
Le storie di singoli dentro la comunità
Si tratta per noi di una rielaborazione in senso pasquale: si tratta cioè di ritrovare il filo della speranza, della fiducia, dell’amore che si radica sulla gioia della risurrezione. Ma si tratta di fare tutto questo senza chiudere gli occhi sul dolore, sulle perdite, sulla fatica, sulla vulnerabilità che abbiamo scoperto o riscoperto. In gioco ci sono le altre parole del titolo, che ci invitano a pensare in modo forse un po’ troppo separato ciò che accade ai soggetti e ciò che accade alle comunità. Non voglio dire che la differenza non sia giustificata, ma la mia proposta è quella di riattraversare gli eventi con una domanda scomoda: dov’è che il vissuto soggettivo e quello delle nostre comunità si incontrano? Quali parole e quali pratiche abbiamo perché questo non sia un impatto devastante?
L’impatto è – a questo non eravamo abituati – universale: tutte e tutti, in un modo o nell’altro, abbiamo fatto un’esperienza di vulnerabilità inaggirabile. Questa pandemia ci ha messo di fronte al dramma personale ma anche a qualcosa di comune. Siamo tutti sulla stessa barca, si è sentito spesso ripetere. Anche Fratelli tutti insiste su questo: «Una tragedia globale come la pandemia del Covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la consapevolezza di essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si può salvare unicamente insieme...» (n. 32)
Certo, qualcuno è al timone, qualcuno viaggia in prima o in seconda classe, qualcuno è clandestino a bordo. Ma abbiamo fatto l’esperienza di una vulnerabilità che esprime sia fragilità e sia interconnessione. In questo senso si ripropone la solita questione: non si può ragionare in termini solo individualistici né in termini comunitari astratti: occorre salvare le singole storie dentro le comunità, rendendole capaci di ospitare le differenze e di prendersene cura.
LUCIA VANTINI