Ferrari Matteo
La fraternità come dono e impegno nel Salmo 133
2022/1, p. 39
Il Salmo 133 costituisce un piccolo manuale della fraternità e della comunità. A partire dai numerosi spunti che il testo ci suggerisce possiamo recuperare un volto biblico della fraternità e della comunione accogliendola come dono e come impegno. Da una parte la fraternità è un dono di Dio, ma, dall’altra, di questo dono è necessario prendersi estrema cura.

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«COME È BELLO CHE I FRATELLI VIVANO INSIEME»
La fraternità come dono
e impegno nel Salmo 133
Il Salmo 133 costituisce un piccolo manuale della fraternità e della comunità. A partire dai numerosi spunti che il testo ci suggerisce possiamo recuperare un volto biblico della fraternità e della comunione accogliendola come dono e come impegno. Da una parte la fraternità è un dono di Dio, ma, dall’altra, di questo dono è necessario prendersi estrema cura.
Introduzione
Il Salmo 133 è un piccolo gioiello che può costituire una essenziale «grammatica» della comunità. A volte si sente parlare di comunità in modo disincarnato e idealizzato; altre volte questa dimensione così importante e irrinunciabile per la fede cristiana è guardata con rassegnazione e pessimismo; altre volte ancora siamo davanti ad un tema rimosso, di cui sembra meglio tacere. Il Salmo 133, penultimo dei Salmi delle salite (Sal 120-134), ci offre, come è tipico della Bibbia, da una parte uno sguardo «concreto» sulla fraternità, dall’altra ce ne presenta il fondamento a partire da una prospettiva di fede.
Il Salmo si struttura in tre parti. Dopo la soprascritta, tipica dei Salmi delle salite, una prima parte è costituita da una affermazione circa la bontà e la dolcezza della fraternità (v. 1). Segue una parte centrale costituita da due paragoni che illustrano l’affermazione iniziale (vv. 2-3ab). Infine, l’ultima parte è costituita da una benedizione (v. 3cd). La prima e l’ultima parte formano come una cornice intorno alle due immagini centrali. In questo modo «alla bontà della vita fraterna corrisponde la benedizione che dona la vita».
Vivere come fratelli uniti
Nella prima parte del salmo troviamo condensato tutto il suo contenuto. Il testo inizia, come abbiamo visto con l’avverbio «ecco» che lo lega al salmo precedente e a quello successivo. Il Salmo 132 annunciava una benedizione, «ed ecco» che il Samo 133 ci mostra, con una sentenza sapienziale, il primo volto di tale benedizione divina.
Il cuore del messaggio è il tema della fraternità, di cui si parla non in modo astratto, bensì molto concreto. Il linguaggio che il salmista utilizza sembra in primo luogo far riferimento a un modello di famiglia patriarcale nella quale più generazioni vivono insieme. Un’esperienza molto lontana dalla nostra, ma che ci fa pensare alla famiglia di Giacobbe/Israele come viene descritta dalla Genesi. Vista da questa prospettiva, l’affermazione del salmo risulta molto più chiara: il breve poema canta la straordinaria bellezza e bontà di una famiglia «allargata» ma che riesce a vivere unita e concorde. Da qui nasce il canto stupito del salmista. Infatti, «in genere una tale situazione non funziona bene: si sta insieme ma spesso malamente. Non è affatto normale che la famiglia sia l’ambiente buono dove si vive bene: è oggetto di stupore, piuttosto, scoprire una realtà positiva di questo genere».
Ma il salmo non si ferma solamente a far riferimento alla fraternità in questo modello familiare patriarcale. Nella Scrittura «fratelli» sono anche tutti i membri del popolo. Ad esempio, il libro del Deuteronomio, parlando dei quaranta colpi, afferma: «gli farà dare non più di quaranta colpi, perché, aggiungendo altre battiture a queste, la punizione non risulti troppo grave e il tuo fratello resti infamato ai tuoi occhi» (Dt 25,3). È importante sottolineare che quando si parla di «fratelli» nella Bibbia si fa riferimento a una «fraternità concreta che deve dar prova di sé in azioni di fraternità e che esorta ad aiutare, tutti e sempre gratuitamente, in nome della fraternità in ciò di cui si ha bisogno. Se si ha fame, se si ha bisogno di vestiti, se non si possono pagare le tasse, se si è in difficoltà in un processo, se il bestiame si perde, se non si ha abbastanza semente di grano, se il campo viene devastato da cinghiali – sono tutte situazioni in cui è raccomandata una fraternità concreta». Nel Deuteronomio addirittura questo vale anche per i nemici (Dt 22,1-4; Es 23,4-5): quando un nemico si trova nel bisogno, infatti, non cessa di essere fratello e va quindi aiutato. Soprattutto tenendo conto del caso limite del nemico, si tratta di una prospettiva, assai tipica delle Scritture, che mostra un volto di fraternità che non si basa su legami famigliari e nemmeno su sentimenti o simpatie, ma si fonda nella più profonda identità Israele come popolo di Dio, che trova nella Torah, il fondamento della propria esistenza.
Nel nostro salmo la fraternità è scoperta nel tempio, una volta che il pellegrino è giunto a Gerusalemme, nell’assemblea liturgica. Il pellegrino, che nella sua vita ha dovuto attraversare persecuzione e «guerra», che nel suo cammino ha vissuto la solitudine, nel tempio, davanti al Signore e in mezzo all’assemblea liturgica di tutti quelli che lodano il nome di Dio, scopre la fonte della fraternità: un popolo radunato intorno all’altare del Signore per cantare la sua lode.
Nella Scrittura la fraternità, il vivere come fratelli, è una grande sfida che la segna fin dall’inizio. Per la Bibbia il dramma della fraternità ferita è presente fin dai racconti delle origini con la vicenda di Caino e Abele (Gn 4,1-16). Tutta la Genesi è segnata fin dal suo inizio dalla domanda che il Signore Dio rivolge a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gn 4,9). Insieme all’altro interrogativo che il Signore rivolge all’uomo nei racconti della creazione – «Dove sei?» (cf. Gn 3,9) – quello che egli formula a Caino è forse la domanda di fondo che segna l’intera storia dell’umanità secondo le Scritture. Per rimanere all’interno del libro della Genesi pensiamo ad Abramo e al nipote Lot, ai due fratelli Giacobbe ed Esaù, figli di Isacco, per giungere al ciclo di Giuseppe (Gn 37-50), dove il tema della fraternità è certamente centrale. In tutte queste vicende che toccano il tema del rapporto tra fratelli emerge che «la fratellanza è un dato di fatto che può certo generare una solidarietà talvolta molto forte, ma anche e forse soprattutto generare tensioni, conflitti, gelosie e odi a volte feroci e tenaci». Su questo sfondo si comprende anche lo stupore che emerge dall’inizio del Salmo 133: che dei fratelli vivano uniti non è affatto scontato, anzi è un fatto meraviglioso.
L’atteggiamento di stupore e meraviglia che apre il salmo è sottolineato ulteriormente dai due aggettivi «bello» e «dolce». Il primo termine utilizzato «buono» (tob) ha certamente una risonanza biblica molto forte. Nella Bibbia «è usato in ambito molto vasto. Perciò, a seconda del contesto, esso può essere tradotto con “buono”, ma anche con numerosi altri aggettivi: “piacevole, allietante, soddisfacente, gradevole, favorevole, pratico, idoneo, retto, utile, abbondante, bello, proporzionato, profumato, benevolo, clemente, lieto, onesto, valoroso, vero”» (DTAT, I, 566). In particolare nella letteratura sapienziale l’uso di questo aggettivo indica un giudizio, «la presa di posizione positiva del soggetto nei confronti di una realtà» (DTAT, I, 569). In questa prospettiva tob diventa «una particella di assenso», assume un «carattere di decisione» (DTAT, I, 569). Il pellegrino, giunto a Gerusalemme, sperimentando l’unità dell’assemblea liturgica nel tempio, da una parte esprime il suo stupore, la sua meraviglia, dall’altra dà il suo assenso a questa realtà e il suo impegno per viverla.
Essendo un termine che esprime stupore, presa di posizione positiva e assenso, tob non può non far risuonare il primo racconto della creazione (Gn 1,1-2,4), dove per sette volte ritorna l’aggettivo (Gn 1,4.10.12.18.21.25.31) per scandire i giorni della creazione. Nel contesto della creazione «lo sguardo di Dio è un giudizio e una lode. Definire una realtà con l’aggettivo tob è lodarne la bellezza estetica e la bontà etica: esse si fondono all’unisono nello sguardo amorevole di Dio. Come l’artigiano, Egli vede e giudica la sua opera e dà il suo assenso di compiacimento e approvazione. Da questa bontà/bellezza riconosciuta dallo stesso creatore sgorga l’invito alla lode».
L’uso dell’aggettivo tob nel nostro salmo appare quanto mai significativo, se letto sullo sfondo dei racconti della creazione. Fin dall’origine Dio ha creato l’uomo e la donna per la relazione. È significativa la constatazione di Dio nel secondo racconto della creazione: «Non è bene (tob) che l’uomo sia solo» (Gn 2,18). Anche qui si usa il medesimo aggettivo. Ciò significa che la solitudine non appartiene al sogno di Dio sulla creazione, mentre la fraternità sì. Si tratta di una «componente radicale dell’antropologia biblica: l’uomo è destinato ad “assidersi” stabilmente in una comunità; l’uomo solitario, scomunicato, isolato è un maledetto, è come un membro reciso dall’organismo vivo del popolo dell’alleanza». La fraternità appartiene quindi al sogno di Dio sull’umanità, al suo progetto originario.
Il secondo aggettivo che viene utilizzato per indicare la fraternità è «dolce» (na‘im). Il suo significato «gradevole, attraente, piacevole, armonioso, sereno». Nella Bibbia l’utilizzo di questo termine non è certo paragonabile al primo aggettivo. Si potrebbe dire che questo secondo aggettivo mette in risalto la valenza piacevole e attraente di fratelli che vivono in concordia e unità, spostando l’attenzione all’«esterno»: la fraternità è attraente per gli altri. Chi vede dei fratelli che vivono insieme uniti è attratto dalla bellezza della loro vita, dalla straordinarietà della loro esistenza. La concordia tra fratelli, nella sua dimensione concreta che la Bibbia ci presenta, diventa quindi come un annuncio vivente della Torah del Signore, della Parola di Dio. Il popolo che vive la fraternità incarna nella sua esistenza la Torah del Signore, diventa manifestazione al mondo della sua gloria e della sua presenza.
Il Signore stesso è definito nella Scrittura «buono» e «dolce». Il tob per eccellenza è Dio stesso: «Buono e retto è il Signore, indica ai peccatori la via giusta» (Sal 25,8). Anche l’aggettivo na‘im nella Bibbia può riferirsi a Dio: «Lodate il Signore, perché il Signore è buono (tob); cantate inni al suo nome, perché è amabile (na‘im) (Sal 135,3). Nel Salmo 135 entrambi gli aggettivi sono riferiti a Dio che è buono e amabile. Il Salmo 133, letto sullo sfondo del fatto che il buono e l’amabile per eccellenza sia il Signore, potrebbe dirci che costruire la fraternità significa vivere quella «somiglianza» con Dio che è la vocazione originaria di ogni uomo e donna (cf. Gn 1,26).
Come olio prezioso… come rugiada dell’Ermon
Dopo l’affermazione sapienziale iniziale, il salmista illustra quanto ha affermato attraverso due paragoni: l’olio prezioso e la rugiada dell’Ermon. Leggendo la seconda parte del salmo occorre quindi comprendere che cosa le due immagini dicono della fraternità che nel primo versetto era stata definita «buona» e «dolce».
La prima immagine è l’«olio buono». Si potrebbe definire «prezioso», «profumato». In ebraico si usa lo stesso aggettivo tob che abbiamo già trovato nel versetto precedente (cf. 1Re 20,13; Is 39,2; Qo 7,1). Non si tratta quindi dell’olio comune, che già nella Scrittura è segno di abbondanza e di benessere (cf. Dt 11,14; Os 2,10; 2,24), ma di un olio particolare. L’olio del salmo potrebbe avere un duplice significato. Da una parte potrebbe essere l’olio della consacrazione del sommo sacerdote e degli oggetti sacri (Es 30,22-33). È la parola del Signore a ordinare a Mosè come l’olio debba essere confezionato. Si tratta quindi di un dono di Dio. Solo obbedendo alla sua voce si può avere quest’olio. Ma l’unguento profumato può essere anche segno di accoglienza, di ospitalità e di festa. Pensiamo al Salmo 23 che, utilizzando l’immagine dell’ospite, afferma: «Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici. Ungi di olio il mio capo; il mio calice trabocca» (Sal 23,5). Questa interpretazione dell’immagine dell’«olio migliore» sottolineerebbe il suo rimando alla dimensione della festa, della gioia e dell’accoglienza. Trattandosi poi di una usanza legata ai banchetti, il paragone dell’olio esprimerebbe anche l’abbondanza e la prosperità.
La seconda immagine è costituita dalla «rugiada dell’Ermon». Nell’antichità in Israele la rugiada doveva essere considerata un fenomeno molto importante per la fecondità della terra. Il salmo parla della «rugiada dell’Ermon», quindi del monte più alto in Israele (2770 mt di altezza). È un rafforzativo per parlare di rugiada abbondante. Il salmo, usando l’espressione «rugiada dell’Ermon», non vuole parlare di questa immagine nel senso di qualcosa di evanescente e provvisorio, ma, al contrario, di una realtà abbondante che dona vita. Questo è anche il significato che essa assume in molti passi della Scrittura.
Attraverso il secondo paragone il salmista sottolinea come la fraternità vissuta concretamente nel popolo e nelle famiglie sia garanzia di fecondità e di vita per tutti. È un’illusione pensare che l’accaparramento per sé porti al maggiore benessere. Il salmo dice che è nella condivisione tra fratelli il fondamento della vera prosperità di tutti. Tuttavia, questa abbondanza è possibile per un dono di Dio. Nessuno infatti può far venire la rugiada dal cielo, se non Dio. Come il fenomeno atmosferico non può in nessun modo essere determinata dal lavoro e dall’impegno degli uomini e delle donne, così è anche la fraternità: un dono che l’essere umano da solo non è in grado di realizzare.
Le due immagini hanno diversi elementi in comune. Innanzitutto, di entrambe si dice che scendono. Il verbo «scendere» compare due volte in riferimento alla prima immagine (Sal 133,2) e una volta per quanto riguarda la seconda (Sal 133,3). Questo elemento è di grande importanza. Sottolinea ulteriormente infatti un aspetto della fraternità di cui abbiamo già parlato. Essa non è una conquista dell’uomo e della donna. L’essere umano con le sole sue forze non sa realizzare «il miracolo» di fratelli che vivono nell’unità e nella concordia.
L’altro elemento che le due immagini hanno in comune consiste nel fatto che entrambe indicano la fraternità come unità del popolo. L’immagine dell’olio che scende sull’orlo della veste di Aronne, secondo molti commentatori del salmo, rimanda al pettorale indossato dal sommo sacerdote, sul quale erano incastonate dodici pietre con i nomi delle dodici tribù dei figli di Israele, come il Signore ha comandato a Mosè secondo la narrazione dell’Esodo (Es 28,17.21.29).
L’olio che scende dal capo sull’orlo della veste di Aronne può indicare il legame tra il sommo sacerdote, quindi il culto nel tempio alla presenza del Signore, e tutto il popolo: «Che cosa trova l’olio fluendo sullo sparato dell’ornamento, se non il cosiddetto “pettorale”, in foggia di borsa rigida, decorata, appesa al collo?». Si tratta di una immagine molto bella. Infatti, nel pettorale del sommo sacerdote si trovano dodici pietre tutte differenti eppure tutte disposte armonicamente, secondo la parola del Signore (cf. Es 28,17).
Le dodici tribù, che Aronne porta davanti al Signore, non sono uguali, non c’è uniformità. Sono tutte rappresentate da una pietra diversa e la bellezza e la preziosità del pettorale del sommo sacerdote è proprio data da questa pluralità e diversità. Il pettorale rappresenta quindi «la comunità di tribù, come gioiello composto di pietre preziose diverse in unità armonica». Questa armonia e unità, che non cancella la diversità, ma la valorizza, è un dono di Dio: scende dal capo di Aronne ed è possibile grazie all’obbedienza alla Parola del Signore. Il pettorale non è stato costruito secondo il gusto di uomini, ma secondo la Legge del Signore. Così anche la fraternità non si costruisce se non obbedendo alla parola di Dio. Come il pettorale del sommo sacerdote è bello e prezioso perché fatto di tante pietre pregiate, così anche la fraternità non è uniformità e annullamento di ogni diversità, ma consiste nel mettere insieme le alterità secondo la Parola del Signore, per creare un gioiello di inestimabile valore. La bellezza non è data dall’appiattimento, ma dall’armonia. Così è anche per la fraternità.
Anche la seconda immagine esprime l’unità del popolo. Il salmo afferma che la fraternità è come la rugiada dell’Ermon che scende sui monti di Sion. L’attuale versione del salmo unisce nel paragone della rugiada tutto il territorio di Israele, e in particolare il Regno del Nord e quello del Sud. Un caso di fraternità ferita nella storia del popolo di Dio è stato proprio la divisione, dopo la morte di Salomone, tra il Regno di Israele e quello di Giuda. Proprio come le dodici pietre differenti, ma disposte in armonia, rimandano all’unità di tutte le tribù, così l’acqua delle sorgenti dell’Ermon, alimentate dall’abbondante rugiada, scorrono nel Giordano fino a giungere nella parte meridionale del Paese. L’immagine della rugiada dell’Ermon che scende sui monti di Sion rimanda all’unità del popolo. Anch’essa scende dal cielo, sopra il monte più alto. Si tratta quindi di un dono di Dio che crea unità e fa fiorire la vita in tutto il territorio di Israele. La rugiada è fatta di tante piccole gocce d’acqua che insieme possono dare refrigerio alla terra e portare fertilità: le singole gocce d’acqua non possono fare nulla per la fertilità della terra e per l’abbondanza del raccolto, ma insieme sono fonte di vita.
Il Signore manda la benedizione
La terza e ultima parte del salmo ha per tema la benedizione che viene da Sion. Se nel primo elemento della cornice (v. 1) si parla della bellezza e dolcezza del vivere come fratelli in concordia e unità, nella conclusione (v. 3cd) si parla della benedizione che il Signore manda da Sion. Si crea quindi un parallelismo tra fraternità e benedizione. Si sottolinea inoltre che la benedizione è mandata da Dio, da Sion, è dono di Dio.
Il salmo presenta la dimensione discendente della benedizione. Questo aspetto è accentuato dalla presenza, unica in tutto il testo, del nome di Dio, il tetragramma. La benedizione può avere due accezioni: può essere ascendente, quando il soggetto è l’uomo e Dio è il destinatario, tuttavia la benedizione dell’essere umano che sale a Dio è preceduta da quella discendente, che da Dio scende sulle sue creature. Quando, come nel caso del Salmo 133, ci si trova di fronte a una benedizione discendente, dove Dio è il soggetto e l’essere umano il destinatario, il significato del termine berakah è molto differente, rispetto al caso di un movimento ascendente. Infatti, in questo caso per benedizione si intendono «i beni singoli e concreti con cui Dio si china sull’uomo per colmarne i bisogni».
Anche per quanto riguarda la benedizione, la Scrittura ha una prospettiva molto concreta. Infatti, quando si parla di benedizione di Dio non si fa riferimento alle grandi opere di salvezza compiute da Dio nella storia del suo popolo, ma alla sua premurosa e continua assistenza nella ordinarietà della vita: «Del Dio che benedice si fa esperienza dove il lavoro porta frutto e dove ha successo come espressione di sé e come socialità, dove i figli nascono, crescono e danno buona prova di sé in quella staffetta che è la trasmissione della vita, dove i rapporti umani tra uomo e donna, tra vicini o tra membri di un gruppo etnico accrescono la felicità, dove le feste rafforzano la solidarietà, dove il reciproco aiuto nella necessità, nell’afflizione e nella fatica alleviano la vita. In breve, la benedizione di Dio è la forza che ci fa capaci di dire sì alla vita quotidiana in tutti i suoi bassi e alti».
Nei Salmi delle salite abbiamo incontrato questa prospettiva, quasi come se ci fosse una benedizione silenziosa e «sotterranea» di Dio nella vita del pellegrino, che a Sion si è infine manifestata. Infatti, in questa raccolta non abbiamo trovato riferimento alla grande storia di salvezza, ma a immagini legate alla vita quotidiana, famigliare (cf. Sal 123; 127; 128), al lavoro dell’agricoltore (cf. Sal 126; 127; 128; 129), alla vita della città (Sal 121). Nel tempio, alla presenza di Dio, il salmista scopre la benedizione che ha segnato la sua esistenza, la sua vicinanza che non lo ha mai abbandonato.
Nel salmo la benedizione di Dio è messa in parallelo all’espressione «vita per sempre» (Sal 133,3). Si afferma quindi che la benedizione che Dio dona è la vita. A questo riguardo è particolarmente significativo far riferimento ai racconti della creazione, in particolare al primo. Per tre volte compare il verbo «benedire», con Dio per soggetto e alcune creature come destinatarie (cf. Gn 1,21-22.27-28.23.28). Alla benedizione divina corrisponde la fecondità, la vita. Quando Dio benedice dona la vita in abbondanza. Da queste due benedizioni sembra discostarsi la terza che si riferisce al sabato: «Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato ogni lavoro che egli aveva fatto creando» (Gn 2,3). Perché il racconto della Genesi attribuisce una benedizione anche riguardo al settimo giorno e quale connessione c’è con le due precedenti benedizioni nel primo racconto delle origini? In realtà il nesso c’è. Infatti, anche il sabato per il racconto biblico è come una creatura di Dio: l’ultima creatura che permette la vita e la fecondità. Infatti «creando» il sabato, il creatore permette alle sue creature di vivere e di essere feconde. Senza il settimo giorno la creazione sarebbe un prolungamento di Dio. Invece, creando il sabato, Dio «apre uno spazio di autonomia per ciò che non è lui, cioè per l’universo e in particolare per l’umanità alla quale ha appena affidato la terra (Gn 1,26-28); predisponendo uno spazio di libertà e di vita per un altro».
Senza questa autonomia e senza il limite che Dio mette al suo stesso potere, creando il sabato, sarebbe anche impossibile pensare all’idea di alleanza, che si trova, in primo luogo, nel racconto del diluvio con Noè e la sua discendenza (Gn 9,9) e, successivamente, con Abramo (Gn 15,18).
Questo riferimento alla creazione ci permette di comprendere meglio il legame tra la benedizione e il dono della vita. In questa prospettiva si manifesta in modo evidente come la fraternità, in quanto tema fondamentale del salmo, sia una benedizione di Dio e, quindi, portatrice di vita e di fecondità. La fraternità, proprio perché la benedizione discendente si riferisce sempre a beni concreti con cui Dio risponde ai bisogni dell’essere umano, è intesa come dono di Dio per la vita degli uomini e delle donne.
Le due immagini della strofa centrale del salmo gettano luce non solamente sul tema della fraternità, bensì anche su quello della benedizione della terza strofa. Sia l’olio che la rugiada che scendono, manifestando l’unità di un popolo di fratelli, esprimono il senso della benedizione di Dio e lo legano ulteriormente al tema della fraternità. La fraternità frutto della benedizione divina si manifesta ancora una volta come un dono del Signore.
Conclusione
Immaginiamo che il pellegrino giunto a Gerusalemme al tempio offra un sacrificio di comunione (cf. Lv 7,11-34) in ringraziamento al Signore per aver portato a termine felicemente il suo cammino. Questo tipo di rito sacrificale prevede che, oltre all’offerta al Signore di alcune parti della vittima che vengono bruciate sull’altare, e ad altre parti riservate ai sacerdoti, il resto della carne venga consumato in un banchetto. Si può affermare che «caratteristica specifica del sacrificio di comunione è il pasto condiviso fra tutti i partecipanti al rito».
Potrebbe essere questo lo sfondo nel quale il pellegrino scopre la fraternità e la canta attraverso il Salmo 133. È un rito celebrato nella casa di Dio che «crea» l’unità di tante persone differenti, che non si conoscono, e le rende fratelli e sorelle seduti a un’unica mensa. È forte l’esperienza del mangiare insieme, del condividere il cibo, per far sperimentare la fraternità. Il rito non è il luogo in cui noi facciamo qualcosa per Dio, ma, al contrario, è il tempo gratuito nel quale il Signore compie cose grandi per noi. Il pellegrino è venuto al tempio per fare un servizio a Dio e invece si scopre «servito da lui».
Come abbiamo già detto, il salmista viene da una esperienza di divisione e di asprezza (cf. Sal 120) e ora, al termine del suo cammino, trova la fraternità nel tempio del Signore. La pace e la fraternità sono la ricerca di tutti i Salmi delle salite. Lungo il suo cammino «il salmista si rende conto che la fraternità va cercata in un cammino, che presuppone molte difficoltà come in un vero pellegrinaggio». Potremmo dire che i Salmi delle salite costituiscono come il pellegrinaggio della fraternità.
Questo aspetto ci rivela una cosa molto importante: la fraternità come l’intende la Bibbia, vivere uniti come fratelli, non è qualcosa di automatico o naturale, non si tratta di una realtà statica ma di un cammino che deve affrontare ostacoli e prove, fatiche e delusioni, per giungere a scoprire, nella casa di Dio, la fonte della fraternità nell’ascolto della Parola e nella celebrazione del Nome del Signore. La fraternità è veramente come la benedizione. Essa ha un movimento ascendente, i passi del pellegrino che sale a Sion, e un movimento discendente, la Parola del Signore e la sua misericordia che scende verso di noi. È nel sentirsi tutti perdonati (Sal 130) e amati (Sal 131) che possiamo scoprire la fonte della fraternità. E tuttavia, la fraternità non è solo dono, perché ogni dono deve essere accolto. Della fraternità quindi, per poter accogliere il dono di Dio, occorre anche prendersi cura.
Il Salmo 133 costituisce un piccolo manuale della fraternità e della comunità. A partire dai numerosi spunti che il testo ci suggerisce possiamo recuperare un volto biblico della fraternità e della comunione accogliendola come dono e come impegno. Da una parte la fraternità è un dono di Dio, ma, dall’altra, di questo dono è necessario prendersi estrema cura. La Bibbia ci insegna infatti che la fraternità di cui non ci si prende cura può diventare il luogo della violenza e della lacerazione. Solo una fraternità accolta come benedizione e coltivata come dono può diventare luogo di vita, di fecondità e di annuncio.
MATTEO FERRARI,
MONACO DI CAMALDOLI