Salvarani Brunetto
Il punto sull’ecumenismo
2022/1, p. 10
Qual è la temperatura dell’ecumenismo, alla vigilia della tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (SPUC)? Difficile rispondere in maniera netta: anche perché non mancano segnali contraddittori.

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Testimoni
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SETTIMANA DI PREGHIERA PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI
Il punto sull’ecumenismo
Qual è la temperatura dell’ecumenismo, alla vigilia della tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (SPUC)? Difficile rispondere in maniera netta: anche perché non mancano segnali contraddittori.
Durante la Settimana di preghiera rifletteremo – grazie a materiali elaborati dal Consiglio delle Chiese del Medio Oriente – su “Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo” (Mt 2,2). Difficile tuttavia rispondere in maniera netta all’attuale situazione: non mancano i segnali contraddittori, che spingono i commentatori, di volta in volta, a ripristinare la classica immagine dell’inverno, ahinoi!, seguito alla primavera conciliare, o a lanciarsi in lusinghiere previsioni sul suo futuro, in una Chiesa che, in prospettiva, sarà ecumenica o non sarà.
La crisi fra Mosca e Costantinopoli
Certo, scrutando l’orizzonte europeo, e segnatamente la situazione in casa ortodossa, non si può stare allegri. Fra Mosca e Costantinopoli, la Terza Roma e il Patriarcato ecumenico, l’annosa crisi legata alla situazione ucraina sta provocando una rottura drammatica le cui radici – in realtà – vengono da lontano e ha il sapore amaro dello scisma interno: la tempesta avviatasi con il riconoscimento dell’autocefalia ucraina nel 2019 da parte di Bartolomeo I, patriarca ecumenico, si è ormai trasformata in un autentico uragano che, per la Chiesa russa, avrebbe la gravità dell’antica frattura fra Oriente e Occidente del 1054. Mentre le celebrazioni per i vent’anni della Charta Oecumenica (2001-2021), qualche mese fa, ci hanno permesso di toccare con mano la distanza siderale da un’epoca invero abbastanza vicina cronologicamente, quella delle Assemblee di Basilea, Graz e Sibiu. Il cambio d’epocacopyright papa Francesco – si sta verificando anche qui, e la sensazione diffusa è che, al di là della spinta impressa indubbiamente dallo stesso Bergoglio, occorrerebbero linguaggi nuovi, e nuovi contesti, soprattutto in vista di un maggiore coinvolgimento delle giovani generazioni (problema che peraltro, notoriamente, non riguarda solo il movimento ecumenico).
Testimonianza della giovane valdese Erica Sfredda
Va in questa direzione la scelta del SAE (Segretariato Attività Ecumeniche), che di recente ha eletto alla presidenza la giovane valdese Erica Sfredda, veronese ora trasferitasi a Torino, prima protestante a ricoprire tale carica, per la quale “essere ecumenici non è un di più, un fiore all’occhiello che alcuni vogliono e a cui altri possono rinunciare”. Cresciuta in una comunità multiculturale che ha vissuto il processo di Essere chiesa insieme, Erica sostiene di aver appreso nella sua esperienza quotidiana che “la contaminazione è una grazia, perché la diversità e la differenza sono una ricchezza inestimabile, un dono prezioso che ci arricchisce spiritualmente, ma anche esistenzialmente”. Aggiungendo: “A sedici anni sono approdata per la prima volta al SAE, che allora faceva le sue sessioni al Passo della Mendola, ed è stata un’esperienza che mi ha segnata per sempre. Anno dopo anno, sono cresciuta nella fede e nella mia identità di valdese, attraverso il dialogo con tanti pastori (allora io vivevo in diaspora e quindi per me le Sessioni erano un’occasione preziosa anche per conoscere meglio la mia chiesa), ma anche con religiosi delle altre confessioni e soprattutto con i giovani e le giovani che come me cercavano la propria fede e la propria collocazione in un mondo in continuo fermento e cambiamento”. Finalmente, un’iniezione di ottimismo… Per dirla con il motto del pellegrinaggio ecumenico che a fine ottobre, proveniente dalla Germania, è stato ricevuto dal Papa: Besser zusammen (Meglio insieme). Una strada obbligata, se si vuole risultare minimamente credibili agli occhi di un mondo sempre più smarrito e frammentato.
Necessario allargare l’ottica
Tornando alla SPUC, nell’emisfero settentrionale essa si svolge dal 18 al 25 gennaio. Fu avviata ufficialmente dal reverendo episcopaliano Paul Wattson a Graymoor (New York) nel 1908 come Ottavario per l’unità della Chiesa, auspicando che divenisse pratica comune, con un trasparente significato simbolico: apertura in coincidenza con la memoria della cattedra di san Pietro, mentre la chiusura si collega alla memoria della (cosiddetta) conversione di san Paolo.
Se l’ecumenismo, inteso come processo di riunificazione delle Chiese cristiane dopo le tante fratture interne avvenute nel corso della storia, sta attraversando oggi una complessa fase di transizione, contrassegnata ora da chiusure identitarie, ora da incertezze e talvolta da aperture insperate, in occasione di ogni SPUC siamo chiamati a ricordarci a vicenda che le lentezze e la precarietà di tale cammino mettono in discussione la stessa azione missionaria del cristianesimo. E dunque, allargando l’ottica, il suo senso nel mondo attuale. Va detto che il fatto che la SPUC si sia radicata come appuntamento annuale, e che si tenga con la presenza spesso determinante delle diocesi e delle chiese locali, resta un dato positivo, che nessuno potrebbe sognarsi di sottovalutare. Permane peraltro la sensazione, soprattutto in chi da anni vi partecipa convintamente, di un’occasione non sfruttata appieno, e non di rado un po’ rituale: in particolare quando, e capita spesso, a essa non segua un cammino congruente durante il resto dell’anno, con un’attenzione non solo episodica alle dinamiche ecumeniche e ai rapporti con le altre Chiese.
Come argomentava anni or sono sul settimanale Riforma il pastore Luca Negro, fino a poche settimane fa presidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, riferendosi alla SPUC: “Ne abbiamo fatto una riserva, un ghetto, non in senso spaziale ma temporale. Per una volta all’anno, diventiamo tutti fratelli e sorelle, riscopriamo la nostra vocazione all’unità. Nel resto dell’anno, fondamentalmente, ogni Chiesa continua a farsi i fatti suoi”. Vale la pena di tenerlo presente, quando mediteremo e pregheremo su Mt 2,2: “In oriente abbiamo visto apparire la sua stella e siamo venuti qui per onorarlo”. Tanto più che la nascita di Cristo, nella narrazione del Vangelo di Matteo, è un evento che, pur nelle caratterizzazioni storiche e genealogiche tipiche dell’evangelista, si apre subito a una dimensione cosmica e dossologica. L’incarnazione di Cristo e la sua entrata nello spazio e nel tempo diventano l’occasione in cui angeli e uomini si uniscono in un’unica lode, gli abitanti di Betlemme si abbracciano idealmente con i Magi che provengono dal lontano oriente e tutti insieme offrono i loro i doni al Grande Visitatore. La gioia e la speranza riempiono l’anima di tutti perché “Egli ci ama” e tutti con una voce inneggiano all’Altissimo, che si è degnato di ricevere la nostra natura umana. È questo cosmico e straordinario evento che la Chiesa Ortodossa cerca di esprimere quando, nella vigilia di Natale, canta con stupore e reverenza: “Che cosa ti offriremo, o Cristo? Tu per noi sei apparso uomo sulla terra. Ciascuna delle creature da Te create ti offre la sua riconoscenza: gli angeli l’inno, i cieli e la stella, i magi i doni, i pastori lo stupore, la terra la grotta, il deserto la mangiatoia; ma noi una Madre Vergine!”.
Sviluppo del dialogo ebraico-cristiano
In Italia, c’è un ulteriore elemento a rendere più ricco questo tempo di potenziali grazie. A partire dal 1990, infatti, in sintonia con la dichiarazione conciliare Nostra aetate, i vescovi italiani invitano comunità e Chiese locali a vivere una Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo religioso ebraico-cristiano, da tenersi il 17 gennaio di ogni anno. L’iniziativa si deve soprattutto all’impegno del vescovo di Livorno Alberto Ablondi, scomparso nel 2010, e di Maria Vingiani, fondatrice del SAE (Segretariato Attività Ecumeniche), morta quasi centenaria esattamente due anni fa. La scelta della data non è casuale. La ricorrenza, che nel tempo ha spontaneamente assunto anche un valore ecumenico, infatti, si situa immediatamente prima della SPUC, con la doppia intenzione di rimarcare la priorità dell’incontro con Israele, radice santa della nostra fede rispetto a qualsiasi sforzo ecumenico, e nel contempo l’impossibilità che quest’ultimo possa produrre risultati concreti senza un costante invito a porsi appunto, tutti insieme, alla scuola di Israele. Affinché il dialogo ebraico-cristiano non sia un impegno solo di vertice nella Chiesa, o di alcuni gruppi o movimenti, ma diventi coscienza ecclesiale di tutte e tutti. In vista di una fruttuosa celebrazione di essa, non andrà dimenticato che lo scopo della Giornata non è di pregare per gli ebrei, ma di iniziare i cristiani al rispetto, al dialogo e alla conoscenza della tradizione ebraica, in sintonia con la svolta del Vaticano II, dopo secoli di persecuzioni e incomprensioni. È opportuno, pertanto, che diocesi e parrocchie promuovano nell’occasione momenti di approfondimento lungo questi due filoni complementari: la riflessione sul vincolo particolare, anzi unico, che lega Chiesa e Israele (Nostra aetate 4), da un lato; e l’esistenza viva e attuale del popolo ebraico, dall'altro. Per il prossimo 17 gennaio 2022, concluso il percorso sulle Dieci parole e quello sui Meghillot (i Rotoli), la Commissione episcopale della CEI per l’ecumenismo e il dialogo invita – con un messaggio intitolato Realizzerò la mia buona promessa – a soffermarsi su Geremia 29,10, versetto in particolare sintonia con il tempo pandemico che stiamo attraversando: si trova nel contesto della Lettera agli esiliati di Babilonia (29, 1-14). Geremia, qui, reinterpreta l’esilio vissuto dal popolo ebraico come si trattasse di un nuovo inizio per la sua gente: Israele si trova in mezzo ai pagani, ben distante dalla terra della promessa, senza il tempio e le certezze religiose di sempre, ma è proprio in quella situazione drammatica dal punto di vista economico, sociale e religioso che potrà ritrovare il senso autentico della propria vocazione. Oggi, la pandemia in atto ci sta costringendo a rivedere gli stili della nostra presenza di credenti nella storia, in realtà largamente in crisi già ben prima di due anni fa. Una situazione che, in modo differente, tocca e interpella tanto gli ebrei quanto i cristiani. Quello di Geremia è dunque un testo che, se letto a due voci nella Giornata del 17 gennaio e più in generale valorizzato come punto di partenza per il confronto tra credenti ebrei e cristiani, ci può aiutare a collocare la nostra esperienza di fede nella presente stagione.
BRUNETTO SALVARANI