Matté Marcello
Portogallo: un cammino di Chiesa e di Paese
2021/9, p. 42
La stampa internazionale sta mostrando un’attenzione inedita al Portogallo. A colloquio con il vescovo di Setubal, José Carvalho. Tra i temi toccati in questa nostra intervista, l’iter legislativo sull’eutanasia, l’anniversario della rivoluzione e la prossima GMG.

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Testimoni
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INTERVISTA A JOSÉ ORNELAS CARvALHO
Portogallo: un cammino di Chiesa e di Paese
La stampa internazionale sta mostrando un’attenzione inedita al Portogallo. A colloquio con il vescovo di Setubal, José Carvalho.
Tra i temi toccati in questa nostra intervista, l’iter legislativo sull’eutanasia, l’anniversario della rivoluzione e la prossima GMG.
– Mons. Ornelas, iniziamo il nostro colloquio affrontando un tema sensibile. Il parlamento lusitano ha approvato recentemente una legge che legittima l’eutanasia. La Corte costituzionale l’ha rimandata alle Camere. Quali erano i punti in discussione da parte dei vescovi e come lei ha vissuto quei mesi?
L’argomento eutanasia non è da considerare come un tema chiuso e definito. La legge è stata rimandata al Parlamento. Questo per noi è un tema che, pur con tutta la comprensione che si possa avere nei confronti di posizioni diverse e legittime, non è assolutamente pacifico.
Contrariamente all’aborto, il tema eutanasia nei sondaggi spacca il Paese e, in modo trasversale, gli stessi partiti. Due partiti hanno votato chiaramente contro (il Centro democratico sociale – Partito popolare e il Partito comunista, che ha ripreso curiosamente l’argomentazione della Conferenza episcopale). Il PSD (blocco di centro), che si dice abbia un’ispirazione cristiana, ha dato libertà di voto. Anche il Partito socialista ha dato libertà di voto, esprimendosi in maggioranza a favore della legge. Quelli di sinistra sono nettamente in favore della legge.
Riteniamo che la vita non debba essere sottoposta a referendum, ma ne abbiamo promosso uno ottenendo qualche decina di migliaia di firme, ma il Parlamento – che non è obbligato a indirlo – l’ha bloccato.
La sordina del Parlamento
Il Parlamento ha votato in un momento delicato, al culmine della crisi pandemica (che in Portogallo si è registrato nella seconda fase). Ci è sembrata una manovra sgradevole. Non siamo scesi in piazza, però i vescovi hanno sempre fatto sentire la propria voce a favore della trasparenza. L’Ordine dei medici (non solo quelli cattolici) e degli infermieri hanno avuto un ruolo importante di chiarificazione.
Se fossimo andati al referendum, non so quale avrebbe potuto essere il risultato. Forse ne sarebbe sortita un’approvazione della legge, ma con una maggioranza risicata. Nella società il tema è molto dibattuto.
Mentre tanta gente disperata stava lottando per la vita negli ospedali, con l’aiuto dei professionisti della salute, è parso inopportuno approvare una legge di questo tenore. Il Parlamento non ha avuto il coraggio di sollecitare il dibattito pubblico e ha dato l’impressione di voler agire al riparo dell’opinione pubblica, come se ne avesse timore.
Non voglio penalizzare nessuno, anzi, se una persona vuole mettere termine alla sua vita, per disperazione o per dolori insopportabili, ha bisogno non di condanna ma di comprensione. Lo Stato, che dovrebbe fornire un sostegno a queste situazioni delicate, mostra invece tutta la propria debolezza. L’eutanasia è una soluzione che l’individuo può invocare, ma non può essere quella proposta dallo Stato. L’Ordine dei medici – contrario alla legge fin dall’inizio – ha ribadito che aiutare a morire non è un atto medico. Atto medico è aiutare la persona a guarire o a non soffrire.
Questione di civiltà
Non è una questione di fede, ma anzitutto di civiltà. I professionisti della salute hanno fatto osservare che, nei Paesi ove si è introdotta una legislazione favorevole all’eutanasia, i suicidi sono cresciuti esponenzialmente.
L’art. 1 della legge che il presidente della Repubblica ha presentato alla Corte costituzionale precisa che le condizioni per chiedere la morte assistita, convalidate dai professionisti della medicina, sono «la situazione di sofferenza intollerabile o una lesione definitiva di gravità estrema... o una malattia incurabile fatale». Aiutare una persona a morire non è incostituzionale. L’art. 24 della Costituzione sancisce il valore indisponibile della vita ma, secondo la Corte costituzionale, il diritto posto a tutela del patrimonio intangibile della vita non può ignorare le condizioni della vita stessa.
La Corte costituzionale ha accettato come fondante la condizione della sofferenza insopportabile, rispetto alla quale non pone obiezioni di incostituzionalità. Ma il discorso “vita” è troppo vasto e la legge non può arrivare a precisare tutto. Dal punto di vista medico e psicologico, si può raggiungere una valutazione, ma la legge non facilita questo processo.
Inoltre, in ambito medico, il concetto di malattia incurabile o fatale non è adeguatamente precisato. E, dato che le condizioni poste della legge devono essere adempiute per acconsentire la richiesta, se ne viene meno una tutto l’impianto si svuota.
La discussione non è facile né dal punto di vista giuridico né dal punto di vista medico. Probabilmente la legge tornerà in Parlamento e con ogni probabilità verrà approvata.
Interlocuzione con la società civile
Come Chiesa siamo abituati a un’interlocuzione corretta con la società civile e con gli organismi politici. Come vescovi continuiamo a far sentire la nostra voce con rispetto e chiarezza. Non vogliamo imporre alcuna opzione alla società, ma certamente sosteniamo il valore della vita come principio di umanità.
Abbiamo fatto un cammino molto interessante in questa direzione. Già prima della pandemia avevo avviato un lavoro con i giovani; andavo nelle scuole e nelle associazioni sportive e il tema si poneva spontaneamente nel dialogo con loro. Un dialogo possibile perché non si tratta di un tema confessionale, non è un’ossessione cattolica, ma è un tema che riguarda la società e i suoi valori. È un tema concreto, perché spesso ci si trova il problema dentro casa.
Si pensa che la Chiesa, in questa partita, dovrebbe essere a favore di un atteggiamento di misericordia. Nemmeno ai condannati a morte si negava il colpo di grazia.
L’appello alla croce di Gesù è pertinente nel dibattito se si è disposti a porre la questione antropologica: quale valore si riconosce alla vita anche quando non eroga più successi e si presenta come un cammino magari doloroso che spinge a cercare nuovi approcci e soluzioni.
In un Paese dove manca totalmente ogni organizzazione di cure palliative, l’eutanasia è sospettata di essere una scorciatoia deresponsabilizzante, per il sistema e per il singolo, per quanto la legge proposta sia molto restrittiva comparandola con altri disegni.
C’è stato molto dibattito pubblico, al quale abbiamo partecipato in termini anche provocatori, ma poi il Parlamento si è pronunciato approfittando dell’attenzione rivolta alla pandemia.
Le altre religioni
– Le altre confessioni religiose come si sono espresse?
C’è stato un incontro con le altre confessioni religiose, cristiane e non. I gruppi cosiddetti evangelici si sono detti contrari, benché non siano riconducibili ad una opinione uniforme. Anche i musulmani sono contrari. C’è stato un pronunciamento interconfessionale molto importante ripreso da tutti.
La cultura laica dà per scontato il consenso all’eutanasia. È molto interessante che mezzi di comunicazione anche molto seri abbiano rilanciato una discussione stringente, animata da un approccio molto equilibrato: non tanto pro o contro, ma ponendo il problema sul piano antropologico e sociale.
Molti da più parti hanno apprezzato, al di là delle posizioni nello schieramento, il tenore della discussione promosso dalla Chiesa. Il nostro obiettivo non è stato tanto quello di definire gli schieramenti, quanto piuttosto di portare le persone a un ragionamento sulla condizione umana. Imporre non possiamo né vogliamo, però vogliamo difendere la vita e aprire altri orizzonti.
Il presidente del Paese e il presidente della conferenza episcopale
– Il presidente che ruolo ha avuto?
Un ruolo molto interessante. È senza dubbio un cattolico cosciente e intelligente, umanista e giurista. Nella elezione e nella rielezione ha saputo giocare bene. È scaltro. Normalmente la prima visita del presidente neoeletto è riservata alla Spagna, nostro unico confinante. La sua prima visita invece è stata al Papa. È passato dalla Spagna sulla via del ritorno.
Ha saputo stare al suo ruolo, ha saputo mantenere una posizione sua anche distinguendosi dal suo partito. Non c’è sospetto di collateralismo con la Chiesa. Parla spesso e volentieri con noi senza nasconderlo e noi non vogliamo condizionarlo. Sa che, se il Parlamento approva una legge, quella è; non ha potere di veto. Perciò deve sapersi muovere prima.
– Lei, appena eletto, si è presentato in modo molto dialogante con la classe politica. Mantiene questo atteggiamento? È condiviso dai vescovi?
I giornalisti amano sottolineare le posizioni differenti. Sui temi importanti c’è un ampio consenso (fortunatamente non unanimità). Sui temi principali, come l’ecclesiologia, i modelli di Chiesa e le scelte di valore, è importante che riusciamo a lavorare insieme.
Dobbiamo crescere nel fare Chiesa, dobbiamo trovare modalità più sinodali. Ci sono elementi che giocano a nostro favore. Ad esempio, la maggioranza dei nostri seminaristi studia nell’ambito dell’Università cattolica, e questo favorisce una mentalità concorde. Abbiamo instaurato un sistema di continuità alla formazione.
Gli orientamenti espressi durante la pandemia sono sempre stati discussi ampiamente e coralmente. Finora siamo stati capaci di parlare insieme e anche col governo, durante la pandemia, c’è stata capacità di mutuo ascolto per trovare cammini di insieme che hanno aiutato molto il Paese. I media lo hanno riconosciuto: la Chiesa è stata capace di lavorare per il bene comune senza rinunciare agli obiettivi propri.
La celebrazione del 13 maggio 2020 in una Fatima deserta è stata un pugno nello stomaco a livello mediatico. Un’immagine dalla portata simile a quella del Papa solo nella Piazza San Pietro deserta. Abbiamo accettato di celebrare senza la presenza dei fedeli e, quando ci è stato concesso, abbiamo saputo celebrare con tutte le prudenze del caso. Non è stato ricondotto alla Chiesa alcun focolaio di contagio, nonostante le manifestazioni che si sono tenute seppur ridotte. In questo la Chiesa è stata un riferimento esemplare per tutto il Paese.
Nello stesso giorno delle manifestazioni di esultanza per la vittoria del campionato, passando sopra alle precauzioni imposte dalla situazione prima che dalla legge, a Fatima si celebrava il 13 maggio con 7.500 persone – senza contare i molti che non sono stati ammessi – ma secondo comportamenti prudenti. Non possiamo fare delle occasioni di fede un attentato alla vita. Abbiamo insistito nel ricordare che la celebrazione non è un evento che si possa ridurre a una trasmissione televisiva o a un canale di internet, perché fare Chiesa insieme vuol dire essere insieme, a tutti i livelli.
Abbiamo lasciato le chiese sempre aperte, almeno qualche ora al giorno. La gente ha bisogno di conforto e di sostegno. Se la celebrazione si può fare con due sole persone, si faccia. Se si può presenziare in molti, si faccia, con le prudenze dovute.
Nella pandemia e dopo
Ci sono modi di vivere la fede che rimarranno anche dopo la pandemia, ma c’è bisogno di tornare nelle chiese. Quando sparirà la pandemia, non spariranno i problemi; il dopo non sarà più facile. C’è bisogno di una nuova evangelizzazione. C’è preoccupazione soprattutto per i giovani e i bambini che non hanno potuto nemmeno respirare l’aria di chiesa durante la pandemia. Ma è più grave che non abbiano potuto abbracciare i nonni, coltivare gli affetti e le amicizie.
Abbiamo voluto che le chiese restassero aperte per pregare e per incontrare il prete, ma soprattutto per rispondere alle necessità primarie.
I centri di solidarietà sono rimasti aperti e si sono moltiplicati. Ed è aumentato anche il loro lavoro, perché i più fragili e bisognosi erano gli anziani, costretti più di altri a rimanere in casa. Sono più che raddoppiate le persone che vengono a chiedere aiuto per necessità primarie; molte di queste conducevano un tenore di vita più che dignitoso.
Il fascino dei populismi
– Recentemente lei ha messo in guardia da nostalgie politiche di orientamento autoritario da cui il Paese si è liberato non molti decenni fa. Come spiegare alle giovani generazioni i valori morali della democrazia?
Non c’è dubbio che ci sia stata un’ondata mondiale in questa direzione e l’Europa non ne è rimasta estranea. Il miraggio di soluzioni sbrigative promesse da un potere forte, il chiudersi davanti alla globalizzazione, un’Europa che si è scollegata dalla base ed è appesantita dalla burocrazia: tutto questo ha favorito il consenso raccolto dai populismi. Sicuramente nelle prossime elezioni i partiti di destra cresceranno molto, a discapito dell’attuale formazione.
I populisti si presentano come i veri cristiani, in un contesto che vede molti immigrati aderire alle Chiese evangelicali. I populisti si presentano come gli unici a difendere i valori cristiani dalle minacce dell’invasione dei migranti e della loro cultura anticristiana. Si vestono di un manto religioso per raccogliere voti. Non vogliamo condannare nessuno, ma non accettiamo che alcuno si presenti come il partito della Chiesa o del Vangelo o come il partito dei cattolici.
Quando, mentre celebravamo la rivoluzione dei garofani, era emersa la proposta di indipendenza per Madera, io dicevo: «E quando ci saremo liberati dal Portogallo, chi ci libererà dai nostri liberatori?». I grandi dittatori sono stati tutti eletti dal popolo...
Dobbiamo curare molto la comunicazione. Farne una priorità della Chiesa a prescindere dalle preferenze del singolo vescovo. È l’ufficio sul quale ho posto la prima attenzione; ora è guidato da una giovane donna capace di molto ascolto.
La gente – anche quelli che “non vanno in chiesa” – dice: «Il Papa parla un linguaggio che capisco». Diamo per scontato che le cose che andiamo dicendo, avendo valore per se stesse, siano indipendenti dal linguaggio. Invece dobbiamo curare molto la comunicazione, utilizzando i mezzi che la tecnologia mette a disposizione, ma soprattutto rinnovando il linguaggio.
La GMG: un’occasione per il Paese
– La Giornata mondiale della gioventù.
Le GMG sono state rimandate di un anno e ora tutto si pone in altri termini. Nessuno si azzarda a prefigurare il numero dei partecipanti. Ci sono difficoltà logistiche ed economiche, ma anche psicologiche. Molto è stato ritardato dalla pandemia, perché la comunicazione a distanza non è sufficiente.
C’è un accordo anche col governo per la disposizione di strumenti che permettano lo svolgimento; la GMG è un’occasione per il Paese. La gente la dà per scontata. La macchina si sta mettendo in moto. La programmazione è uscita dagli uffici e si sta dispiegando sul campo.
Vorremmo aprire i giovani all’accoglienza e a un consenso di fede che fa bene a loro ma anche a noi. Questo cammino non deve essere soltanto della Chiesa portoghese.
Cammino sinodale
– Come raccoglierete l’appello di papa Francesco per una Chiesa sinodale?
Abbiamo pubblicato recentemente due documenti: uno sulla pandemia e le sue ricadute sulla questione sociale (le conseguenze a diversi livelli, quale mondo ci aspettiamo dopo la pandemia), e un altro ultimamente sulla Chiesa sinodale.
Le attenzioni recenti di papa Francesco sui ministeri, per esempio, sono piccole cose ma di grande rilevanza. È importante sentire la voce del Papa a sostegno di un certo modello di Chiesa. Lex celebrandi è lex credendi.
Abbiamo ancora molti preti che non amano vedere le donne nello spazio del presbiterio. In questo contesto anche i piccoli passi sono significativi. È molto di più che fare indossare una veste liturgica a un laico.
La nostra curia si coniuga ormai al femminile. La donna che lavora nell’ufficio comunicazioni è competente e capace, ma non può avere accesso al Collegio dei consultori e non può essere nominata cancelliere perché il cancelliere deve essere de jure membro del Collegio dei consultori.
Non si può volere un organismo attento alla vita della Chiesa e, nello stesso tempo, impedirne l’accesso a una componente preponderante, per numero e qualità, della Chiesa stessa.
Il vescovo dev’essere il primo a dare l’esempio. Non decidere è un errore, ma lo è altrettanto decidere da soli. La collegialità deve costituire il tessuto della vita quotidiana della Chiesa. Perché solo i presbiteri possono essere consultori? Se si tratta di argomenti economici, che sono delicati, perché non ci può essere un consultore laico esperto in economia? Perché continuiamo a fare della responsabilità una questione di potere e non di servizio, di ricerca comune della volontà di Dio?
L’ultimo concilio della Chiesa portoghese – allora si chiamava così – è stato celebrato cent’anni fa. Può darsi che finalmente si arrivi a convocare una nuova assemblea. Evidentemente non un’assemblea fatta solo di riti. Occorre avere una vera mentalità assembleare per compiere un vero cammino sinodale.
La nostra diocesi compie 50 anni. Non soltanto da parte dei preti, ma anche da parte dei due vescovi che mi hanno preceduto è stato fatto molto per il dialogo. È una diocesi di migranti – preti e laici –. Il mio predecessore – soprannominato il “vescovo rosso” – ha fatto molto per dar vita a una Chiesa di comunione. È stato un uomo coraggioso, un vero “pontefice”, costruttore di ponti, in un momento storico nel quale la nostra zona era considerata “comunista”.
I tempi stanno cambiando radicalmente e abbiamo bisogno di una Chiesa più sinodale. Il sinodo non è tanto un organismo che decide, quanto un modo di essere. Importante per la Chiesa come per la società.
Laudato si’ e Fratelli tutti sono di grande valore e si completano. Li lascio sempre nelle biblioteche delle scuole quando vado in visita. È interessante vedere come siano apprezzate anche in ambito extraecclesiale.
Stiamo progettando la Fondazione Manuel Martins come una piattaforma di dialogo interculturale: luogo dove si ascoltano e si fanno conoscere voci diverse.
–Quali sono le iniziative attraverso le quali volete dare al sinodo un valore più ampio della celebrazione assembleare?
C’è una tradizione in questo senso. L’incaricato dei rapporti con la CCEE e la COMECE è un laico. È da tempo che non si dà più per scontato che ci sia un prete a capo di ogni organismo ecclesiale. Ed è musica per le mie orecchie sentire che la proposta viene dai preti!
Ci sono preti che, con il loro ministero, aiutano a ripensare queste forme partecipative. Vogliamo dare ai laici un ruolo effettivo, anche se la titolarità è affidata a un prete o a un vescovo. È tempo di dare ai laici il loro posto nella Chiesa.
Non siamo una Chiesa ricca per cui ci è difficile scegliere persone che siano capaci e insieme disposte a servire senza la remunerazione che troverebbero altrove. In compenso offriamo loro opportunità formative preziose. Benché siamo un piccolo Paese – 10 milioni di abitanti – il fatto di offrire servizi effettivi, nonostante la nostra povertà, è un modo di essere presenti nella vita delle persone.
Dopo la rivoluzione del 1974 ci sono state voci profetiche di spessore che hanno incoraggiato lo sganciamento della Chiesa dal potere (il vescovo di Porto è stato esiliato, ma Paolo VI non ha mai nominato un successore). C’era un sentimento antiecclesiale molto diffuso e ricuperarlo è stato possibile solo con un atteggiamento di genuino distacco dal potere e di servizio.
Oggi la Chiesa ha una sua credibilità diffusa, anche da parte di chi non si riconosce appartenente. L’accezione del termine “praticante” va dal pellegrinaggio a Fatima una volta l’anno alla partecipazione domenicale alla Messa, alle forme umanitarie della carità.
C’è un cammino da fare, che deve accettare modi diversificati per manifestare la propria fede. Come dice il Papa, dobbiamo evitare di voler far entrare tutti nello stesso modello di credente. Tu sei credente non perché adotti certi comportamenti, ma perché ti mantieni aperto a un cammino di liberazione, di essenzialità, di responsabilità, di partecipazione alla costruzione di un mondo migliore alla luce del vangelo. A queste persone siamo chiamati ad aprire le porte della Chiesa e della misericordia di Dio. È, allo stesso tempo, tanto semplice e tanto impegnativo.
MARCELLO MATTÉ