Cozza Rino
Quante stagioni la VC deve ricuperare?
2021/9, p. 34
“La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni !” Questa affermazione del card. Martini ha portato papa Francesco a chiedersi: Come mai questo non ci scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?

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INTERROGATIVI CHE DEVONO SCUOTERE
Quante stagioni la VC deve ricuperare?
“La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni !” Questa affermazione del card. Martini ha portato papa Francesco a chiedersi: Come mai questo non ci scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?
A pochi giorni della sua morte, il cardinale Martini disse parole che ci interrogano: «La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni !»
Questa consapevolezza, ha portato papa Francesco a fare sue le espressioni di Martini, aggiungendovi: Come mai questo non ci scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?
Purtroppo questa consapevolezza appartiene solo parzialmente alla Chiesa e non meno alla vita religiosa, per cui non si sente sfidata ad essere parte viva delle grandi trasformazioni che il nostro continente sta vivendo, ritrovandosi meglio nel pensare il mondo costruito su codici definiti una volta per sempre.
Il perito conciliare L. Sartori scrisse: «ho imparato da De Lubac e Danielou che le religioni sbagliano quando si propongono come rivelazione definitiva, compiuta, da non aver più bisogno di cambiare. La storia di Israele – in questo veramente sovversiva – parla di un Dio che si rivela nella storia e invita a fare scelte conseguenti. La storia biblica è tutta un cammino segnato da avvii e ripartenze, come per Abramo».
Ricuperare una visione sociologica, teologica, giuridica
Mi soffermo molto sinteticamente su ognuno di questi aspetti.
Visione sociologica
Il significato e la portata del cambio d’epoca è oggi evidente innanzitutto nel diverso modo di essere uomo e donna, e nel rapporto di questi con la società, sia essa lo Stato, la Chiesa o altra istituzione.
Scrisse N. Bobbio: non so se ci si rende conto sino a che punto la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» (1948) rappresenti un fatto inedito nella storia. Per la prima volta avviene l’inversione del rapporto fra individuo e Istituzione e in tal modo viene invertito anche il rapporto tradizionale tra diritto e dovere. Con una metafora si può dire che diritto e dovere sono come il dritto e il rovescio di una medaglia. Ma qual è il dritto ed il rovescio? La medaglia dell’etica era stata tradizionalmente guardata dalla parte dei doveri più che da quella dei diritti. Non è difficile capirne il perché. Il problema etico era stato considerato originariamente dal punto di vista della società più che dell’individuo. E non poteva essere altrimenti: ai codici di regole di condotta era stata attribuita la funzione di proteggere il gruppo nel suo insieme piuttosto che proteggere l’individuo. Ed è così che nel corso del pensiero storico ha prevalso per secoli il primo punto di vista che è quello di chi governa, sia in campo civile che religioso. Presupposto era la concezione organica, secondo cui la società è un tutto ed il tutto è al di sopra delle parti.
Già nel 1988 il card W. Kasper allora vescovo di Toltenburg-Stuttgart, scriveva alla sua diocesi: «i diritti dell’uomo costituiscono, al giorno d’oggi, un nuovo ethos mondiale», e questo lo ha espresso prima ancora che la “Dichiarazione” dell’89 dicesse (art. 2) che «lo scopo di ogni aggregazione sociale è la conservazione dei diritti naturali e imprescindibili dell’uomo» che non ledano quelli dell’insieme. E tutto questo non solo in campo civile ma anche religioso. A porsi in questa linea è stato anche il documento della Pontificia commissione “Iustitia et pax”, intitolato “La Chiesa e i diritti dell’uomo”(2011), che comincia così: «il dinamismo della fede che spinge continuamente il popolo di Dio alla lettura attenta ed efficace dei segni dei tempi, non può far passare in secondo piano la crescente attenzione che in ogni parte del mondo è rivolta ai diritti dell’uomo».
Con il definire segno dei tempi questo «rovesciamento», la commissione “Iustitia et pax” intese dire che tutto ciò non viene dallo spirito del tempo, cioè del mondo, ma da colui che guida la storia. Evidentemente questa inversione è un fatto inedito nella Chiesa la quale ha avuto per secoli difficoltà a riconoscere i diritti dell’uomo almeno fino alla metà del sec. XX; si pensi agli atteggiamenti di precauzione e talvolta ostili di Pio VI, Pio VII e di Gregorio XVI.
Oggi questa nuova concezione dell’identità individuale, porta a scoprire l’ideale della fedeltà al proprio modo di essere come non secondario di fronte ad altri tipi di imperativo o costrizione esterna, e viene a dire che oggi sono esigiti nuovi modi di essere all’interno di ogni tipo di società, per cui tutte le istituzioni non sintonizzate su questa lunghezza d’onda difficilmente saranno attrattive.
È proprio dalla consapevolezza che oggi l’identità discepolare non viene dal passato ma dal futuro che in «Ripartire da Cristo» (n.12) si dice che le persone consacrate sono obbligate a porsi non pochi interrogativi sul senso della propria identità e del loro futuro, intendendo dire che nell’identità è insita l’esigenza di dinamicità, evoluzione. Se ne deduce allora che se la VC si scopre oggi impaludata in mezzo al guado è perché non si è sfidata con l’essere parte viva delle grandi trasformazioni che il continente sta vivendo, per cui oggi si trova in un tempo in cui le immagini tradizionali con il loro pensare tanto egocentrico non tengono più.
Dobbiamo allora riscoprire per la nostra vita umana e religiosa la via maestra di essere nomadi e cercatori perché il modo che ci è dato per essere fedeli all’eterno è unicamente quello di essere fedeli al tempo.
Visione teologica
Giovanni XXIII nell’allocuzione di apertura del Concilio disse: «Lo spirito cristiano attende un balzo innanzi verso la penetrazione dottrinale delle conoscenze», non essendo più possibile mantenere in piedi quella situazione che si è creata in altri tempi in base ad altri presupposti. C’era nel suo dire un grido di dignità a cui l’istituzione però non era stata in grado di dare una risposta pari al bisogno. Già nel 1922 Romano Guardini, anticipando le prospettive del Concilio, nel suo libro, “Il senso della Chiesa”, diceva che era iniziato un fenomeno religioso di incalcolabile portata al fine di far uscire la Chiesa da se stessa per recuperare lo stato di salute teologica da secoli compromesso. Successivamente è Y. Congar e con lui vari altri teologi a dire che la Chiesa è chiamata a non chiudersi nelle categorie teologiche che si porta dietro per inerzia, e che «bisognava fare una revisione molto coraggiosa della storia delle istituzioni ritornando alle fonti spirituali».
Oggi alla distanza di quasi cento anni è papa Francesco a ripetere in varie occasioni l’invito a “uscire”, parola che significa: abbandonare i recinti mentali dati da lontane ortodossie, i cui contorni teologici ed etici risultano oggi oltre misura sfuocati. Uscire perché diversamente dal passato non interessiamo più per una vita a parte, diversa, ma per una particolare modalità di vivere e di proporre dei valori che sono necessari a ogni persona umana. Il problema sta dunque nella ricomprensione della funzione della vita discepolare dentro il «popolo di Dio», concetto biblico diventato autocoscienza conduttrice della Chiesa, a partire dalla riaffermata dignità comune del battesimo. Uscire perché la VC non è solo annuncio a distanza dell’aldilà atteso ma è data perché l’aldilà sia presente nell’oggi attraverso storie vissute con modalità di essere cristiani dentro la vita degli uomini.
Di conseguenza, per essere trovata credibile ed appetibile nel suo ruolo profetico, la VC deve saper creare nuovi schemi, in funzione degli appelli della storia, in termini di giustizia, dignità della persona, impegno con gli umiliati, attraverso comunità che diano attualità, presenza, incidenza storica del Vangelo perché l’essenza della consacrazione sta nell’essere sovrabbondanza di trasparenza evangelica.
Da questa coscienza sono provvidenzialmente nate a partire dalla metà del ‘900 le nuove forme discepolari, consapevoli che per essere illustrazione ed esemplificazione del vangelo ai nostri giorni si deve ritornare a vivere, espressivamente per l’oggi la primitiva esperienza cristiana, con quell’impegno ma anche quella leggerezza originaria intravista nelle parole del Maestro: il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato; e ancora l’invito a non creare fardelli religiosi che nessuno può portare (Mt 23,4.23).
Queste nuove forme di vita evangelica, sono attrattive perché esprimono una missione forte senza il peso di strutture ingombranti, a differenza delle precedenti, ora prese dal far «quadrare servizi e risorse fisiche e mentali, piuttosto che dalla qualità della vita evangelica».
Stante questa situazione, la teologia non può permettersi di sottovalutare la sfida della critica etica che l’occidente ha da tempo rivolto al cristianesimo; deve innanzitutto ripensare il che cosa oggi sia precipuo della consacrazione. Il tempo passato non ha trovato di meglio per esprimere una “diversa” sequela di Cristo che i voti. Ora però – disse la commissione teologica dei padri Generali – già nel dicembre del 2002 – «possiamo chiederci se la triade classica dei consigli evangelici esprima adeguatamente la sequela evangelica di Gesù nelle diverse culture e nel nostro tempo». E poi continuava: «Oggi ci sentiamo liberi di tradurre il nostro particolare impegno con l’alleanza, in categorie più vicine all’essere umano del nostro tempo, globalizzato e pluricentrico: compassione, non violenza, pace, rispetto per il creato, impegno per la vita, seduzione dell’assoluto, scelta dei poveri, fraternità universale ecc. possono esprimere con accenti nuovi ciò che oggi la vita consacrata implica».
La VC non deve dunque temere di prendere le distanze da se stessa, da un certo stile, da un determinato linguaggio, da un collaudato universo concettuale, da quella sopravvalutata idea di sé che la vuole fedele a una immagine che non tiene più. Per questo fine deve privilegiare le domande piuttosto che le risposte colte da quel saputo che non richiede riposizionamenti cognitivi ed emotivi.
Visione giuridica
L’inadeguatezza della vita religiosa in questo cambio d’epoca è riscontrabile soprattutto nell’aspetto giuridico. Veniamo dal tempo in cui bastava l’appartenenza ad un «venerato» impianto gerarchico-istituzionale a soddisfare il bisogno identitario della persona, per cui ancora oggi la Chiesa si trova meglio nel pensarsi costruita su codici immutabili, portandosi così a non essere riconosciuta come trasparenza di esistenza cristiana ricca di umanità nuova, ma come esistenza di coloro che vivono perché hanno ormai preso codificate abitudini di pensiero e di vita. D’altronde non ci si poteva esimere da ciò che Pio XII nell’enciclica Mistici Corporis (1943) aveva detto, e cioè che le prescrizioni del diritto manifestano con certezza la volontà di Cristo a cui siamo sottoposti come al più alto Signore. Non stupiscono queste assolutizzazioni se commisurate con il dire del card. Gasparri: «Quod non est in codice non est in re». Di questo ne era convinto il giurista card. Ottaviani, a capo del sant’Uffizio, il quale per il suo stemma cardinalizio aveva scelto il motto “semper idem” (sempre lo stesso), attraverso cui intendeva esprimere l’idea del modo in cui egli vedeva, e con lui molte figure istituzionali, la vita cristiana, la tradizione e il futuro della Chiesa.
C’è in tutto questo la riprova che un’istituzione, qualunque essa sia – scrive C. Quillebaud – è sempre tentata a obbedire a una sindrome di rigidità, e di permanere nel suo essere riformata. Detto diversamente significa che l’istituzione, giuridicamente intesa, si presenta come sistema “chiuso”, con una funzione simile a quella del notaio la cui attenzione è sul normato, custode di un sistema organizzativo-ideologico che nella diversità vede solo il segno di peggioramento. La funzione notarile non sa cogliere l’inedito, firma la concordanza formale senza chiedersi quanto sia vitale. Da qui il deficit di profezia anche della vita religiosa, quantomeno per averla fatta consistere nella “santa osservanza”, piuttosto che nel saper cogliere l’elemento inaugurale di nuove possibilità. Altra cosa è essere custodi del Vangelo che proietta verso il non ancora, aprendo a consapevolezze nuove, all’avvenire. È per questo che le norme per interessare dovrebbero esprimere la sensibilità dei giardinieri piuttosto che quella dei notai.
La consapevolezza di ciò portò alla scelta di campo di papa Roncalli che all’inizio del Concilio rese possibile quello che Häring considerava «un miracolo più strepitoso della risurrezione di un morto» e cioè che nessuno dei settanta testi elaborati dalla commissione preparatoria che faceva capo al card. Ottaviani (salvo il De sacra liturgia) dovesse costituire la base dei testi conciliari. Fu così che nel Concilio Vaticano II si aprì la porta al pensiero di coloro – vescovi e preti – capaci di dare attenzione alle coscienze, con il bandire quel dottrinarismo che considera la legge più importante dell’uomo concreto.
RINO COZZA CSJ