La malattia cronica e la questione del credere
2021/9, p. 28
La pandemia, che ci ha colpito perché spesso letale, e perché in molti aspetti incontrollabile, ci ha reso presenti coloro che sono con noi, anche se materialmente assenti. Penso a quanti per giorni o mesi vivono, ma per loro la morte è rimasta per molti giorni una costante minaccia. Si trovano in condizione di solitudine, non li si può incontrare personalmente per mesi, e non è dato di sapere fino a quando la situazione resterà incerta.
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La malattia cronica e la questione del credere
La pandemia, che ci ha colpito perché spesso letale, e perché in molti aspetti incontrollabile, ci ha reso presenti coloro che sono con noi, anche se materialmente assenti. Penso a quanti per giorni o mesi vivono, ma per loro la morte è rimasta per molti giorni una costante minaccia. Si trovano in condizione di solitudine, non li si può incontrare personalmente per mesi, e non è dato di sapere fino a quando la situazione resterà incerta.
È del resto la condizione vissuta, anche al di fuori del tempo di pandemia, da quanti hanno una situazione di salute segnata dalla malattia cronica. A questi malati cronici non è dato di dimenticare, la minaccia è troppo incombente, ininterrottamente rammentata dalle cure necessarie.
È chiaro che la morte imminente autorizza nel malato ogni tipo di reazione possibile: dall’angoscia allo scoraggiamento, a una triste rassegnazione. Eppure, talvolta, contemporaneamente, vivendo la condizione del saper di dover morire per quel tipo di malanno, si sente crescere in sé un’intensità vitale inattesa, in cui ogni cosa, anche gli avvenimenti più insignificanti, si mettono a vibrare con una forza che le persone comuni non conoscono. Dal momento che tutto può scomparire, tutto appare di una fragilità sconvolgente e di una attrattiva mai sperimentata prima: il volto della persona amata, le parole quotidiane e banali, il verde intenso di cui si rivestono gli alberi alla luce di mezzogiorno.
Al tempo stesso, molte cose che sembrano importanti, indispensabili, divengono secondarie o insignificanti. Che cosa vale la pena di essere vissuto, nel tempo, forse molto breve, che ci viene concesso? Che cosa deve rimanere, che cosa bisogna salvare? Che cosa bisogna lasciare in eredità, in eredità di vita a coloro che verranno dopo di noi? Che cosa è essenziale? Che cosa giustifica il fatto di essere venuti al mondo?
L’atteggiamento, inatteso, di scoperta non elimina l’altro aspetto della malattia che è la sofferenza: lo scandalo del dolore e della morte. Perché, perché, perché? Una sorta di reazione immediata quando ci si trova in queste condizioni, consiste nel cercare di attribuire situazioni di malattia inguaribile, a errori morali commessi.
Questa mentalità colpevolizzante non è del tutto scomparsa, pur se viviamo in una cultura secolarizzata. In ogni modo l’ingiustificato senso di colpa si aggiunge a una sensazione di parzialità: perché sono separato dalla vita, dalla vita così come la vivono gli altri, generosamente profusa giorno dopo giorno, senza il continuo timore di vedersela all’improvviso strappata?
Sappiamo, per fede, che un senso esiste in ogni condizione della vita di una persona: ce lo assicura Colui che ci ha redento, liberandoci dalla morte con la sua resurrezione. Parlerò a questi fratelli e sorelle abitando l’unico luogo che renderà legittima la mia parola: quel luogo in cui sono accanto a lui o accanto a lei, sotto la luce delle vicende del Signore, in particolare la sua morte e risurrezione. Ciò richiede umiltà, e la prima umiltà si manifesta nell’ascolto.
Esserci, essere presente, essere soggetto di una parola umana in questo fra noi che ci costituisce come esseri umani gli uni per gli altri.
Si tratta di dire: vivo! e poi trovare un senso alla vita. Si tratta di qualcosa di urgente, poter vivere, vivere da esseri umani, senza essere divorati dall’angoscia e dalla tristezza. La realtà di questi malati di cui parliamo, non è solo l’agente patogeno che li devasta, ma l’umanità sofferente in loro. Urgenza nel senso più lato del termine. Mi ricordo di quanto ha detto un medico che ho conosciuto, che alla fine della sua vita diceva “Il mio corpo sta disfacendosi, ma io sto bene”. Star bene, umanamente, poter umanamente vivere la vita umana, qualunque siano le circostanze e le condizioni del corpo, questa è -dopo tutto- la più urgente delle urgenze.
In Francia nella città di Beaune, in Borgogna, c’è un ospizio del XIII secolo, rimasto quasi intatto. La gran sala è molto vasta, il soffitto alto, lo spazio è libero, sui lati si trovano i letti dei malati, ognuno con la possibilità di isolarsi dietro una tenda. In fondo a questa gran sala c’è un altare sul quale il sacerdote celebrava ogni giorno la Messa.
Quel luogo favorisce la riflessione. I malati hanno ognuno il loro spazio, sia pur ridotto, dove possono stare soli; si trovano tuttavia all’interno della gran sala comune e quindi non sono soli. E in fondo c’è anche il posto di Dio che li mette in relazione con tutta la Chiesa, il mondo, l’eternità. Ma i malati nell’ospizio di Beaune, avevano la possibilità di sentire di appartenere a un mondo in cui la loro sofferenza veniva accolta. Si può pensare che, dopotutto, si trattava della maniera occidentale e cristiana per invitare i malati alla rassegnazione più alta. La rassegnazione cristiana. A quel tempo, in quell’ospizio di Beaune, l’implacabile solitudine della malattia era inserita in una comunità e la comunità da parte sua era collegata al Dio di Gesù Cristo; avvertiva di essere in comunione con un Creatore di Tutto. In Lui la propria esistenza, così limitata, così precaria, assume un significato.
Ci sono degli uomini e delle donne, attanagliati dalla malattia cronica, per i quali la parola del Vangelo è balsamo e speranza. Dobbiamo rovesciare la prospettiva che noi istintivamente proponiamo: invece di presentarsi come un enorme sistema, annunciarsi come via, come strada che si propone e si offre agli esseri umani. La porta di ingresso è estremamente umile e grande al tempo stesso. Si trova in questa parola dell’apostolo Giovanni: “Colui che ama, conosce Dio”. Si trova in una certa qualità di presenza umana, nella relazione fra noi, in un approccio di estremo rispetto verso l’essere umano, che ha superato le falsificazioni e le derive di quello che talvolta con superficialità viene chiamato ‘amore’. Che cosa resta in prossimità della fine? Una presenza, una semplice presenza senza volontà alcuna, senza progetto, senza neppure la pretesa di guarire, dal momento che non c’è più nessun tentativo da fare.
L’essere umano non sia lasciato solo, abbandonato unicamente alla dissoluzione della sua vita e del suo universo. La presenza, la semplice presenza, quella parola che da essere umano a essere umano dice: Tu esisti, esisti per me e io esisto per te. Il senso della vita, è la vita stessa. E la vita è che noi ci rendiamo capaci di vivere gli uni per gli altri.
Giovanni Giudici