Albanesi Vinicio
Spero che il Sinodo non sia ...
2021/9, p. 6
L’Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana del 21-27 maggio di quest’anno ha deciso di avviare ciò che è stato chiamato il “Cammino sinodale della Chiesa italiana”.

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Testimoni
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CAMMINO SINODALE DELLA CHIESA ITALIANA
Spero che il Sinodo non sia…
L’Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana del 21-27 maggio di quest’anno ha deciso di avviare ciò che è stato chiamato il “Cammino sinodale della Chiesa italiana”.
Era da anni che il Papa aveva invocato un Sinodo. Già ne aveva parlato intervenendo al Convegno ecclesiale di Firenze (In Gesù Cristo il nuovo umanesimo) il 10 novembre 2015. «Mi piace una Chiesa italiana inquieta – aveva detto papa Bergoglio – sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza».
Sono stati necessari sei anni prima che i vescovi italiani accettassero l’idea. Il titolo scelto non coglie nessuna novità, è anonimo: Annunciare il Vangelo in un tempo che cambia.
Sintetizzando molto, il percorso prevede l’ascolto, la ricerca e la proposta. Sono stati chiariti anche i tempi della celebrazione del Sinodo. Il Papa aveva raccomandato «dal basso, dal basso, dal basso», attenti alla fede del popolo. Una partecipazione dunque autentica.
I partecipanti e il loro linguaggio
La consultazione del popolo è in realtà mediata da una serie di responsabili nominati, di volta in volta, da vescovi, dalle Conferenze episcopali, dalla Segreteria del Sinodo con un doppio Istrumentum laboris, con tanto di questionario e vademecum.
Con questi meccanismi difficilmente si riuscirà a far emergere la fede del popolo. Saranno, ancora una volta, i chierici e qualche pio-pia battezzato-a a raccontare le vicende del mondo e della Chiesa. Rimarranno esclusi tutti quei battezzati (la grande maggioranza dei credenti) che oramai vivono la religione come opzionale: un ricordo/presenza che si utilizza e si dimentica con criteri personali e senza mediazioni.
Si userà un linguaggio clericalese, incomprensibile e inadatto al dialogare dei popoli, oramai orientato non solo alle parole, ma a concezioni nuove con le quali la realtà si interpreta. Un grave problema che i teologi, i moralisti, i liturgisti, i giuristi non si sono posti, fermi ancora agli schemi dottrinali di qualche decennio oramai tramontato.
I continui riferimenti letterali alla Scrittura, ai riti, alla tradizione non sono compresi, prima che rifiutati. La parola di Dio è efficace sempre se è reinterpretata, resa fruibile, ripresa nella sua essenzialità. È stata scritta in luoghi e tempi precisi: è indispensabile rileggerla con le categorie adeguate al mondo cambiato.
Il pastore e il gregge, immagine del popolo con la sua guida, così come l’uomo nuovo e il corpo mistico di Cristo, hanno necessità di essere ricollocati. L’accanirsi nei riferimenti all’interno del mondo di origine del cristianesimo è sbagliato: i Padri della Chiesa erano molto più fantasiosi e creativi commentando le Scritture. Avevano coraggio, intuizioni e fede, meno preoccupati dell’omologazione di concetti e relative sistematizzazioni.
La liturgia è stata in continua evoluzione, con nuove preghiere, riti, simboli. Sedici anni per cambiare l’espressione del Padre nostro «non abbandonarci alla tentazione». Sono troppi.
L’introduzione dell’incomprensibile santificazione dei doni «con la rugiada del tuo spirito» (2ª Preghiera eucaristica) è più vicina ai ricordi della Scrittura e dei Padri della Chiesa, ma non ai nostri fedeli che hanno già difficoltà a pensare allo Spirito, figurarsi alla sua rugiada. Leccornia di estetisti, aristocratica e inutile.
I contenuti
Anche in rapporto ai contenuti non è più possibile utilizzare gli schemi dei manuali di teologia e di catechesi. Gli stessi sforzi della pastorale risentono inesorabilmente delle trascorse impostazioni. Nemmeno i più attenti hanno oggi interiorizzato quegli schemi. Non si tratta di negare nulla, ma di adeguarsi a ciò che si vive per dare senso all’esistenza del nostro popolo.
Volendo riassumere lo status odierno, la categoria più adeguata è la fragilità. Una fragilità antropologica e sociale. L’identità della propria storia è incerta: poche idee fluttuanti e contraddittorie, in ricerca di beni e consumi nemmeno appaganti: un fumetto che varia da pagina a pagina. Il risultato è il soggetto adulto incerto, supponente, infantile, alla fin fine vuoto. Sono saltati i riferimenti civici, relazionali, politici e religiosi. Il vuoto si riverbera nelle istituzioni e nella vita sociale. L’economia produce sempre più disuguaglianze e intolleranze, dettate da paure, senza proposte.
Lo specchio di tale condizione è dato dai minorenni: li chiamano millennials, potrebbero essere chiamati, in italiano, cuccioli: giocano e giocano su tutto con tutti. Senza logica e senza continuità; teneri e aggressivi, solitari e compagnoni, con una scarsa tenuta all’attenzione. In compenso frequentano la rete. Nessuno sa, eccetto il piccolo gruppo a cui appartengono, che cosa cercano e con chi trascorrono il tempo.
La fragilità è evidente in economia: ognuno è alla ricerca della propria stabilità. Superata la fase ideologica del collettivismo, è ritornato il ristoro: dovuto ed esigito, nonostante gli scambi irregolari in nero e l’evasione fiscale insopportabili. Invocano il debito pubblico, non volendo capire che la semplice immissione di carta moneta non è saggia gestione del bene pubblico. In compenso, i grandi trust raddoppiano i propri utili.
La politica è molto attenta agli umori che vengono e vanno. Poca razionalità, molta emozione, nessun progetto: slogan, frasi mozzicate, giorno dopo giorno, costretta a stare insieme perché non esiste un orientamento forte e sicuro.
Le relazioni sono sbrindellate: famiglie compromesse, relazioni affrettate, scarsa stabilità. La religione è opzionale; rimangono saldi solo l’inizio e la fine della vita; il miracolo della nascita e il dolore della morte.
Le paure del diverso, dello straniero sono esaltate, eccetto le diversità dei potenti fatte passare per rispetto dei diritti.
Il numero delle nascite è diminuito pericolosamente; la strage degli anziani è stata digerita senza battere ciglio.
Di fronte a una civiltà in evidente degrado, le guide religiose sono come inebetite: non parlano o, al massimo, farfugliano. Invocano riti e messaggi come se nulla fosse cambiato, con linguaggi desueti e incomprensibili.
Chi aiuterà a superare la fragilità? Penserà la natura. Essa ha memoria e non ha misericordia. Come per l’inquinamento, costringerà le coscienze a correggere gli approcci e i comportamenti. In attesa, il coraggio e la fantasia invocheranno una nuova fase.
La fede cristiana ha i suoi capisaldi chiari e pertinenti. Può avere forza se affronta il mondo così come si presenta.
Le attenzioni vanno rivolte a precisi nodi epocali: le disuguaglianze e le solitudini.
I soggetti più fragili sono le famiglie giovani con i loro figli adolescenti. Hanno capacità di riflessione e di “conversione”. Possono fermare il declino della civiltà opulenta dell’occidente, affrontando i temi caldi della vita collettiva: l’inquinamento dell’ambiente, i meccanismi dell’arricchimento, i valori della vita nelle sue fasi, la cultura dei diversi, l’invecchiamento e la morte.
La catechesi diventa vicinanza amicale e operosa. Vengono in mente le parole e le azioni narrate dal Vangelo. Con il linguaggio parabolico, il Maestro ha raccolto il vivere quotidiano dei suoi ascoltatori. In quel linguaggio quotidiano ha inserito la realtà spirituale del regno di Dio, senza paura che i mondi umani e divini venissero confusi. Non era rabbino, non era fariseo; era un figlio del popolo, lavoratore, devoto, in dialogo con Dio. Ha vissuto interamente la vita umana, che san Paolo sintetizzerà nella lettera agli Efesini, parlando di “uomo nuovo” per ricevere pace dai vicini e dai lontani. A chi era malato offriva salute, liberando da mali fisici e morali. Non ha respinto nessuno, avendo ricomposto, in un unico comandamento, l’amore di Dio e l’amore del prossimo.
La catechesi diventa così l’accompagnamento nella vita, senza distinzioni tra problemi umani e spirituali. Più semplice applicarla in piccole comunità nelle quali la conoscenza è profonda e affettiva, più difficoltosa nei grandi agglomerati.
La comunità cristiana, con le sue guide, ridiventerà riferimento per la vita, dolorosa e gioiosa del popolo. Gli addetti al culto, i sacerdoti del tempio non sono attrattivi. Il Sinodo – è la speranza – sia immersione totale e autentica della vita del mondo, dimenticando, per ora, i piccoli e grandi problemi della dottrina e dell’organizzazione ecclesiastica.
È la risposta della presenza cristiana, nonostante gli scandali e i cattivi esempi di questi ultimi tempi.
La sinodalità non può essere riservata al gruppo gerarchico della Chiesa.
VINICIO ALBANESI