Angelini Maria Ignazia
La preghiera del corpo
2021/7, p. 14
Mc 5,28: “se solo toccherò la frangia del suo mantello”: una dalla folla dei qualunque, segnata da una malattia inconfessabile che la rende impura, inavvicinabile. Cerca di restare nascosta, si affida perdutamente a un contatto reale, corporeo che non la esponga alla vergogna e arresti lo svenamento del male che esaurisce in lei la vita. Un misto di fede e di superstizione, un diamante che attende di uscire dal carbone che lentamente lo genera. Simbolo stupendo della preghiera cristiana, nel corpo.

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La preghiera del corpo
Mc 5,28: “se solo toccherò la frangia del suo mantello”: una dalla folla dei qualunque, segnata da una malattia inconfessabile che la rende impura, inavvicinabile. Cerca di restare nascosta, si affida perdutamente a un contatto reale, corporeo che non la esponga alla vergogna e arresti lo svenamento del male che esaurisce in lei la vita. Un misto di fede e di superstizione, un diamante che attende di uscire dal carbone che lentamente lo genera.
Simbolo stupendo della preghiera cristiana, nel corpo. Cercare di toccare, anche solo la frangia, del corpo di Gesù - estrema speranza. Àncora di salvezza nell’oceano della vergogna. La fede, che Gesù riconosce e chiama fuori con una domanda (“Chi?” Mc 5,30): può nascere anche così la fede. Spesso nasce così.
Pregare, nelle sue radici magmatiche: apertura alla relazione corporea nella sua profondità ultima, che spinge ad affrontare l’Oltre di ogni legame posseduto, o peggio, strumentalizzante. Relazione a un Tu da cui ci si ritrova trasformati. Come esseri umani, dal principio (Gn 2,7) siamo corpo vivente, animato da un soffio vitale singolare, tra tutti i viventi. Il racconto di creazione dell’Adam dice, infatti la sua unicità: è un unicum, per il soffio che gli viene direttamente dal Creatore. Quel soffio ricevuto, nell’umana creatura si fa, radicalmente, “preghiera”: la libertà, la coscienza personale, la creatività, tutte le dimensioni che individuano la persona, si radicano nel proprio essere terra, nell’originario ricevere soffio nel corpo. Lo vediamo nel processo di nascita, ma anche in tutti i processi di maturazione, di salvezza della persona umana – incomparabilmente più lunghi, drammatici e complessi delle dinamiche di crescita di un corpo animale.
Ebbene, la donna anonima nel suo lasciarsi attrarre dalla “frangia del mantello” di Gesù, nell’ uscire dalla folla attraverso un gesto, non si sa se disperato o credente, è potente paradigma del pregare nel corpo - per un’epoca com’è la nostra, malata di emorragia delle forze vitali su vani sentieri spiritualistici. La preghiera nel corpo, non è una tecnica, e neppure un processo mentale: è il processo della fede in Gesù. In mezzo alla paura, alle irrisioni della folla, cercare di “toccare” il tu di Gesù guidati unicamente dal sentimento della fede – “soltanto continuare ad aver fede” (Mc 5,36).
La cultura post moderna, abitata da una paura radicale, dopo il crollo dell’io cartesiano, riceve buona notizia in questa donna: la preghiera nel corpo. Dall’io cartesiano alla coscienza di sé come meraviglia di sentirsi corpo salvato: che Mani altre hanno preparato, e custodiscono e plasmano e rigenerano a nuova purezza: “se solo toccherò la frangia del mantello, sarò guarita” (Mc 5,28).
E, stupendamente, Gesù percepisce nel corpo proprio l’attesa totale, unica, dell’anonimo tocco. Questa donna sfinita ha un ruolo molto attivo nella vicenda, più di qualsiasi altro miracolato dei Vangeli: di fatto è lei a determinare lo svolgersi dell'accaduto. Con un atto di incondizionata fiducia elaborato nel cuore anela a realizzare, dal basso, un umilissimo legame con Gesù, perché intuisce che nel legame corporeo della fede sta la salvezza: "Toccando, sarò guarita".
La nostra concezione di fede, spesso più cerebrale, più asettica, incorporea, è da questo Vangelo radicalmente sovvertita. Qui il "toccare" esprime la pienezza dell'incontro personale e dell'adesione di fede. Io toccherò il lembo del suo mantello, io starò umilmente ai suoi piedi, io sarò “con lui” e questa è la mia salvezza. È questa la fede che stupisce Gesù, anzi lo “converte” (epistrapheis).
Il gesto proibito della donna manifesta, certo, una disperata ansietà di guarire, ma anche una fede incondizionata in Gesù, ben più forte d'ogni vergogna e solitudine maledetta. Essa è tutta protesa verso Gesù: mentre si riconosce totalmente distante.
Gesù percepisce questa fede che lo “tocca”, nel buio, nel più totale anonimato, alle spalle. Tra la folla che gli si schiaccia intorno, il tocco della donna è un tocco diverso; è un legame sacro che interagisce e una energia esce da Lui, come chiamata fuori. Due “subito” in rapida successione (vv. 29.30), segnalano la sorprendente intesa corporea – per vie di potenza di Spirito – tra l’anonima e il Messia. E Gesù, voltandosi, cerca di fronte a sé un volto (finora rimasto dietro) che lo riguarda: “egli intanto guardava intorno, per vedere lei che lo aveva toccato” (Mc 5,32).
Attraverso quel contatto che ha ricercato, sfidando l’interdetto, la donna senza nome è risanata; è riconosciuta per la sua fede. È chiamata – il che supera ogni aspettativa e comprensione - "figlia". Perché non “madre” – lei la sterile -; perché non “donna” – lei l’inavvicinabile? È figlia perché nel suo tocco Gesù ha vissuto e operato un mistero di rigenerazione. L’ha generata, ignaro con Adam nel suo sonno, alla vita. Una generazione dall’Alto. “Va, in pace, e sii guarita dal tuo male”.
Gesù con arte unica mostra di saper cogliere e risignificare secondo pienezza il linguaggio del corpo. Non separa, né contrappone mai corpo/anima/spirito. Gesù agisce come medico che cura tutto l’umano, nella sua unicità e interezza. Attraverso l’attenzione alla singola persona e alla sua corporeità, e manifesta un modo nuovo di guardare persona e legami. Sospende il giudizio collettivo - l’ha fatto per ciascuno, l’emorroissa e l’adultera, il pubblicano e l’eretico - e si concentra sulla situazione concreta, personale, singolare, originale di quella donna. E lo fa con il corpo che precede e prepara lo svelamento del volto. La guarigione avviene per contatto, non per pensiero. Il pensiero poi elabora il vissuto, e scopre la logica della fede.
“Va’ in pace, guarita dal tuo tormento” (5,35). Nella dinamica dell’azione di Gesù si coglie bene la volontà di Gesù di rigenerare tutto l’umano aggredito dal male oscuro.
Il gesto della donna è stata una preghiera tacita, inscritta nel gesto osato, un grido tenace e fiducioso d’aiuto. Ha creduto di poter essere dal Maestro restituita alla vita. Colei che non sa riconoscere la risposta della sua anima alla malattia dello spirito e si fa opprimere e ottundere dal senso di colpa, comprende che la salvezza è in quel corpo Altrui. Quel corpo le può infondere vita. Lo comprende perché, pur nella sua dimensione di non vita, conserva nel suo corpo “come morto” la forma umana che le viene dall’esser rimasta aperta ad Altri. Questo le consente di toccare e di ricevere.
La donna senza nome scompare subito dalla scena, cede significativamente il posto all’arrivo dei familiari della fanciulla morta (Mc 5,35). Ma rimane piantata, per sempre, al cuore del Vangelo di Gesù. Eco del grido, della preghiera nel corpo di tanti oranti che intessono – di generazione in generazione – il Libro dei Salmi. Eco della preghiera del Figlio. Staffetta di una schiera di anonimi, prediletti dal Signore, maestri di preghiera.
Gesù stesso prega nel corpo. Il suo corpo è dalla nascita (Eb 10,5) e fino all’Ora ultima (Mc 14,33) dato per la salvezza totale di tutti, proprio ed efficacemente in atto di preghiera. Corpo dato nell’atto di benedire e rendere grazie all’Abbà. Egli, “nei giorni della sua carne” (Eb 5,7) ha pregato nel corpo, fino al sudore di sangue, “con forte grido e lacrime”.
Anche noi sperimentiamo la precarietà nell’essere un corpo mortale esposto a mille solitudini e abiezioni: vivificato dallo spirito, chiamato a diventare – proprio così - luogo della preghiera. Nella esperienza generale recente di fragilità corporea, come riscoprire la forza della preghiera nel corpo, per evitare il lamento, il piangersi addosso, lo scivolare nella inerzia della paura? Non solo per ritrovare equilibrio, ma anche per sostenersi nei legami “a distanza”?
MARIA IGNAZIA ANGELINI
monaca benedettina dell’Abbazia di Viboldone