Poli Gian Franco
“Qualcosa” si è perso per strada e “molto si è riscoperto”
2021/7, p. 11
Oggi la vita religiosa non solo è chiamata a «uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane» ma, contestualmente deve sapere che questa scelta «non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza essere consapevoli del senso.

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DAL CONCILIO VATICANO II AD OGGI
“Qualcosa” si è perso per strada
e “molto si è riscoperto”
Oggi la vita religiosa non solo è chiamata a «uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane» ma, contestualmente deve sapere che questa scelta «non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza essere consapevoli del senso.
Le parole di papa Francesco del 21 dicembre 2019 alla Curia Romana contestualizzano le principali virtù o buone disposizioni richieste alle persone consacrate, in particolare dal post Concilio ad oggi poiché «quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca».
Alla luce dell’esperienza pandemica in cui l’umanità si vede interamente coinvolta ormai da circa due anni, questa affermazione, così stringata e lapidaria, impone necessariamente una domanda che non possiamo permetterci di evadere: c’è la stoffa per ritessere i colori dell’esistenza consacrata, per accettare sul serio la sfida dell’uscire, per ripartire dai carismi di fondazione, per lavorare terreni spesso isteriliti, trasformando capitoli generali/provinciali, assemblee e comunità in laboratori di ricerca e di reali processi di cambiamento? Le riflessioni che seguono non sottovalutano il fatto che in questi anni qualche cosa della vita consacrata si è perso per strada e qualcosa si è riscoperto.
L’eredità unica del Concilio Vaticano II
Il Concilio Vaticano II ha offerto alle persone consacrate alcune chiavi interpretative, a partire dai pilastri della Costituzione Lumen Gentium (1964) e del Decreto Perfectae Caritatis (1965). Si è perso per strada il compito di un adeguato «rinnovamento - cambiamento» (cfr. PC, 2; 4; LG, 8; 12; VC, 13, 25; 37; 39; 45; 51) e la coraggiosa traduzione della prassi con una metodica di riforma.
Si è continuato a privilegiare la logica del fare piuttosto che quella dell’essere, illudendosi che fosse sufficiente riscrivere Costituzioni e Direttori per adeguarsi alle linee conciliari; si sono modificati i termini (dalla vita religiosa alla vita consacrata) molto meno la prassi; si sono preferiti i ritocchi ai cambiamenti. Il regista è stato il proselitismo e non l’attrazione, concentrandosi maggiormente sull’efficienza delle strutture e la funzionalità dei ruoli piuttosto che sulla cura della persona.
La cronica emorragia vocazionale dei Paesi occidentali ha fatto decollare negli Istituti religiosi i viaggi della speranza verso i paesi dell’est Europa, dell’Africa e soprattutto dell’Asia, troppo spesso non per garantire il radicamento missionario dei carismi di fondazione, quanto per assicurarsi vocazioni allo scopo di proseguire la gestione delle opere tradizionali. Non c’è stato il coraggio sufficiente di rimettere mano, testa e cuore nella vita religiosa e, come afferma il Papa, si è privilegiato «indossare un nuovo vestito e [di fatto] rimanere in realtà come si era prima» (Francesco, Curia, 21 dicembre 2019).
Invece, la grazia del Concilio Vaticano II ha posto al centro la formazione iniziale e continua. Si sono iniziati i cammini di redazione della Ratio Institutionis per porre al centro l’accompagnamento delle persone e la qualificazione delle risorse umane. A questo riguardo bisogna riconoscere che la vita consacrata, tra le Istituzioni ecclesiali, si è rivelata la più pronta a rivedere e progettare la propria storia; dal Capitolo straordinario (1965) ai Capitoli Generali, si registra tutta una serie di eventi ed esperienze innovative e gradualmente sempre più partecipative.
L’affermazione del card. Bergoglio rivela che l’esistenza consacrata non è «un patrimonio chiuso, ma una sfaccettatura integrata nel corpo della Chiesa, attratta verso il centro, che è Cristo» (J. M. Bergoglio, Intervento al Sinodo sulla vita consacrata, in G. Ferraro, Il Sinodo dei Vescovi. Nona Assemblea Generale Ordinaria, 2-30 ottobre 1994, in “La Civiltà Cattolica” (1998), 278).
Logica dei servizi e non dei carismi
Ai giorni nostri l’evento pandemico da Sars Covid19 ha costituito la cartina di tornasole per numerosi Istituti con opere proprie nell’area dei servizi educativi e assistenziali. Dalla sera alla mattina gli utenti hanno dimostrato nei fatti che l’opzione scuola, casa di riposo, o altra attività gestita dall’Istituto/Congregazione, non è radicata su solide radici carismatiche, ma su quelle più fragili dei servizi offerti, dimostrando che a prevalere è la logica del ti pago su quella del ti aiuto/ci aiutiamo.
Questo fenomeno non è recente. Dagli anni duemila le Famiglie religiose, via via sempre più affaticate dalla costante diminuzione delle vocazioni e dalle non poche difficoltà di integrazione delle sorelle provenienti da diverse nazionalità, hanno iniziato a ricercare personale laico per assicurare le attività educative e assistenziali, iscrivendo le nuove leve alle Università Statali per il conseguimento di titoli accademici. Oltre alle fatiche per acquisire con competenza la lingua italiana e gli sforzi di integrazione delle sorelle, l’utenza ha spesso richiesto la presenza di insegnanti di lingua italiana, in particolare per i gradi di scuola elementare e media, confermando la tradizione che a scuola dalle suore e dai preti è meglio, come un tempo in ospedale la presenza di una religiosa era una garanzia.
In tale direzione la vita consacrata ha gradualmente visto evaporare la sua natura specifica all’interno dei molteplici servizi, immergendosi sempre più in un orizzonte troppo utilitaristico. Se si fosse iniziata a tempo debito la ricerca di risposte a due domande precise di papa Francesco, sicuramente molti problemi interni ed esterni si sarebbero risparmiati: «siete adeguati a perseguire le finalità [carismatiche] nella società e nella Chiesa di oggi?»; «C’è qualcosa che dobbiamo cambiare?» (Lettera Apostolica in occasione dell’Anno VC, 28 novembre 2018, I).
Nel corso degli anni ciascun Istituto/Congregazione nel preparare i propri eventi capitolari, ha dichiarato l’intenzione di ridimensionare le Opere, di rinnovare l’esistente e inventare il nuovo, quindi, di ricollocare, e poi di risignificare. Personalmente sono testimone di operazioni simili, di progetti scritti e di scelte stabilite; ma allo stesso tempo, anche di molte paure da parte di Moderatrici e dei Moderatori di passare con gradualità alla concretizzazione, sulla base di un discernimento comune e di un coinvolgimento di tutte le persone. È capitato che davanti al rifiuto di alcuni membri e per assecondare visioni personali, non si è mai attuato tale processo che ha comunque il vantaggio di riportare le Famiglie religiose alla loro iniziale natura carismatica e libertà apostolica.
La sfida dell’uscire e delle porte aperte
La vita consacrata da sempre ha creduto nell’uscire e non c’è Fondatrice o Fondatore che nel rispondere all’intuizione dello Spirito, non abbia seguito la logica delle porte aperte. Religiose e religiosi hanno iscritto nelle loro Costituzioni e Regolamenti la sfida che papa Francesco ha rilanciato con l’Evangelii gaudium: «uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (n.20).
Oggi la vita religiosa non solo è chiamata a «uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane» (Evangelii gaudium, n. 26) ma, contestualmente deve sapere che questa scelta «non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza essere consapevoli del senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansia per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada» (Ibidem).
Quando in un luogo arriva la decisione dei Superiori Maggiori di chiudere l’attività educativa, assistenziale o pastorale dopo lunghi anni, la gente si mobilita, bussa alla porta del Vescovo diocesano, dei Responsabili, per supplicare di rinunciare alla dolorosa decisione e di affermare che comunque la presenza è importante anche se non continuano la loro attività.
È in questo snodo che le comunità religiose potranno assicurare «porte aperte» passando dall’essere «controllori della grazia al servizio di facilitatori» nei diversi contesti nei quali le vie provvidenziali dei carismi dei fondatori sono approdati (Evangelii gaudium, n. 47). Sarà, quindi, determinante in futuro passare dalla logica del risolvere i problemi del luogo alla logica della diversità di sguardo. Una logica che papa Francesco ha suggerito quale vera terapia per tutta la Chiesa: «il mondo ci vede di destra e di sinistra, con questa ideologia, con quell’altra; lo Spirito ci vede del Padre e di Gesù. Il mondo vede conservatori e progressisti; lo Spirito vede figli di Dio. Lo sguardo mondano vede strutture da rendere più efficienti; lo sguardo spirituale vede fratelli e sorelle mendicanti di misericordia» (Omelia, Corpus Domini, 6 giugno 2021).
Formare e progettare
Rileggendo gli Atti Capitolari di circa 35 Famiglie religiose femminili e maschili ho rilevato che solo 14 hanno messo al centro dei propri programmi i verbi: formare e progettare. In questi anni non sono mancate analisi dettagliate, elenchi di luci e ombre, proposte e indirizzi progettuali, comprese diagnosi e terapie; a mio modesto parere, però, non si è tenuto sufficientemente presente che «Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che comporta la vita in una comunità umana» (Evangelii gaudium, n.113).
Il Santo Padre ci offre un criterio determinante: «è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo» (Fratelli tutti, n. 157). Il futuro della vita consacrata deve recuperare una nota distintiva di ogni carisma di fondazione: far fruttificare il sogno collettivo; mentre troppo spesso emerge quello individuale, fatto di religiose e religiosi che non sono puri spiriti, ma persone in carne e ossa, con le loro storie di grazia e di morte.
Per formare e progettare è bene evitare di «vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma» (Evangelii gaudium, n. 58) mentre si fa sempre più urgente privilegiare «il dialogo come forma d’incontro, la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni» (Fratelli tutti, n. 239).
PROF. DON GIAN FRANCO POLI
VICARIO EPISCOPALE VC E OV
DIOCESI DI ALBANO (RM)