Guardare il volto e toccare le ferite
2021/7, p. 1
La recente assemblea “online” dei superiori e delle superiore
generali sul tema “obbligato” del lockdown; le testimonianze
di fratel Janson Hervé dei “Piccoli fratelli di Gesù” e di sr. Graciela
Francovig delle “Figlie di Gesù”.
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Testimoni
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ASSEMBLEA SUPERIORI GENERALI (26-28 Maggio 2021)
Guardare il volto e toccare le ferite
La recente assemblea “online” dei superiori e delle superiore generali sul tema “obbligato” del lockdown; le testimonianze di fratel Janson Hervé dei “Piccoli fratelli di Gesù” e di sr. Graciela Francovig delle “Figlie di Gesù”.
In tempi di pandemia, anche i superiori e le superiore generali non potevano non confrontarsi su questo tema. Lo hanno fatto nella loro recente assemblea on line, in tre pomeriggi, dal 26 al 28 maggio u.s., con una presenza di circa 230 partecipanti. Hanno provato, come esplicitamente annunciato nel titolo dell’assemblea, a “guardare il volto” e a “toccare le ferite” di tanti fratelli e sorelle. L’input per una tematica del genere, lo aveva lanciato papa Francesco ancora nell’ottobre scorso con l’enciclica “Fratelli tutti”; parlando del valore della solidarietà, infatti, aveva invitato tutti a “guardare sempre il volto del fratello e a toccare la sua carne” (115).
I lavori dell’assemblea sono stati introdotti da due relatori: Janson Hervé, dei Piccoli Fratelli di Gesù e sr. Graciela Francovig, superiora generale delle Figlie di Gesù; hanno provato a rispondere ad una specifica domanda: “Cosa significa per me farmi vicina/o alle mie sorelle/fratelli e alle persone ferite?”. Anche qui, per certi versi, la risposta era già stata anticipata da papa Francesco ancora nel messaggio della quaresima del 2020: «La Pasqua di Gesù non è un avvenimento del passato; per la potenza dello Spirito Santo è sempre attuale e ci permette di guardare e toccare con fede la carne di Cristo in tanti sofferenti».
Vicini agli esclusi
In tempo di lockdown, con l’imposizione del distanziamento sociale e il divieto di ogni contatto fisico, ha affermato Hervé, anche il semplice “toccare la carne di persone ferite”, potrebbe sembrare un vero e proprio “paradosso”; eppure, il secondo capitolo dell’enciclica “Fratelli tutti” - interamente dedicato ad un “estraneo sulla strada”(il buon samaritano) che “scendeva da Gerusalemme a Gerico” – rimane sempre un provocante invito a «prenderci cura di colui o di colei che incontriamo sulla nostra strada».
Per essere veramente fratelli o sorelle di persone “diverse da noi” bisogna spesso superare «blocchi, pregiudizi, se non addirittura ferite». Un esempio impareggiabile, come ricorda papa Francesco, è quello di Charles de Foucauld che “solo identificandosi con gli ultimi è arrivato ad essere fratello di tutti”; imparando da lui, «anche noi, ha ripreso Hervé, dovremmo andare verso coloro che non hanno nome né influenza, vicino agli esclusi, identificandoci e condividendo il loro destino». È una vicinanza che va vissuta ascoltando il grido di coloro che sono disperati, non solo imitando e toccando fisicamente, come Gesù, il lebbroso, il cieco, il sordomuto, ma anche piangendo davanti alla tomba di Lazzaro o accanto alla vedova di Naim in lacrime per la perdita del figlio.
Non a caso in “Fratelli tutti” papa Francesco, rifacendosi al documento di Aparecida (2007), ricorda che «solo la vicinanza ci rende amici e ci permette di apprezzare profondamente i valori dei poveri di oggi, i loro legittimi aneliti e il loro specifico modo di vivere la fede»; l’opzione per i poveri è realmente tale solo se «porta all’amicizia con loro».
Quante volte, invece, si rischia di essere catalogati tra i “benpensanti”, com’è capitato ad un confratello (di Hervé) a Cuba, durante il viaggio di ritorno in autobus, a tarda notte, verso la sua baraccopoli; ad una fermata, vi sale una donna, nota a tutti per i suoi “facili costumi”; anche se un po' brilla, non solo riconosce quel confratello, ma, dopo averlo baciato, inizia con lui una conversazione ad alta voce sotto gli sguardi alquanto sospettosi degli altri viaggiatori; questi, infatti, si sentivano legittimati a condannare pesantemente quel povero confratello solo per il fatto di aver rivolto la parola a quella donna nota per la sua fragilità; in fondo, non aveva fatto altro che imitare Gesù quando si era lasciato baciare i piedi da una donna sotto lo sguardo sdegnato del fariseo Simone!
Hervé ricorda che, in passato – quando abitava in uno dei quartieri malfamati di Marsiglia, frequentato molto spesso da giovani disoccupati, drogati, problematici – una sera, tornando a casa, aprendo l’ascensore, lo trova imbrattato più del solito. Non si allarma, non si agita; anzi, parlando tra sé e sé, si chiede se, qualora fosse nato in un quartiere del genere, non si sarebbe forse comportato allo stesso modo o anche peggio; e così, quello che avrebbe potuto essere un severo giudizio, si trasforma in un atteggiamento di compassione.
In un’altra occasione, la cantina di casa sua – arbitrariamente occupata da un gruppo di ragazzi di strada – alla fine si era trasformata in un piacevole luogo d’incontro e di amicizia. L’estate successiva, il governo aveva promosso il rilancio sociale di certi quartieri difficili finanziando le vacanze estive per gruppi di giovani; quale sorpresa, quando proprio quel gruppetto di ragazzi, ha invitato lo stesso Hervé ad unirsi a loro in una inattesa vacanza di una decina di giorni in Italia.
L’inattesa dichiarazione di un imam
Hervé ha avuto occasione, a Foumban, in Camerun, di lavorare in un centro di formazione per giovani agricoltori provenienti dai villaggi dei dintorni; anche se la stragrande maggioranza era di religione musulmana, non è stato difficile assicurare loro una formazione professionale, migliorando notevolmente anche le condizioni di vita di tutto il villaggio.
Quando, successivamente, è stato possibile inaugurare addirittura un mulino a beneficio di tutta la comunità, l’imam del posto ha avuto parole di sincero e doveroso ringraziamento: «Fratel Hervé, ha detto, è da diversi anni che la vedo venire nei nostri villaggi, vivere con noi, partecipare alle gioie e ai lutti, condividendo il cibo e le notti: il suo modo di essere semplicemente con noi mi ha aiutato a vivere meglio la mia fede da musulmano e la ringrazio per questo». Hervé, che non si sarebbe mai aspettato una simile dichiarazione, si è commosso profondamente e non ha potuto fare altro che ricambiare il complimento, perché «anche per me, ha detto, il suo essere regolarmente presente ai nostri incontri, nonostante fosse un uomo anziano, mi ha aiutato e incoraggiato nella mia vita personale».
Da più di 12 anni, ormai, Hervé si è posto a servizio dei suoi confratelli a Bruxelles; è pienamente consapevole della fragilità della sua sempre più piccola congregazione; nonostante tutto, proprio in queste condizioni, non manca l’impegno continuo a testimoniare l’amore di Dio per i più piccoli; anzi, ha potuto rendersi più facilmente conto di quanto sia importante per i fratelli «sentirsi ascoltati, rispettati nelle loro differenze, a volte nelle loro ferite o fragilità, accolti calorosamente in quanto ognuno è unico, amato dal Signore».
Come sempre, in ogni comunità ci sono “fratelli maggiori” che pretendono di essere ascoltati da tutti; ma proprio in questi casi, chi ha la responsabilità di una comunità, dovrebbe rivolgersi, invece, preferibilmente verso quelli che preferiscono “rimanere nell’ombra”; infatti, proprio quando si è consapevoli di essere, in un modo o nell’altro, delle persone “ferite”, si dovrebbe favorire un reciproco atteggiamento di tenerezza e di accoglienza.
Indubbiamente la crisi del coronavirus «ha obbligato tutti ad essere creativi, a dialogare più facilmente grazie ai mezzi di comunicazione sociale, a riflettere insieme e a prendere le decisioni necessarie ascoltando tutti e condividendo gioie e preoccupazioni»; mai come in un periodo come quello attuale andrebbe riscoperta e vissuta una reale “corresponsabilità nella trasparenza”.
Papa Francesco non si stanca di ripetere che ciò che conta non è il successo, ma la “fecondità” soprattutto nel prendersi cura l’uno dell’altro; è quanto, esemplarmente, ha saputo fare il fondatore dei “Piccoli fratelli di Gesù”, consapevole del fatto che «amare il più insignificante degli esseri umani come un fratello, come se al mondo ci fosse solo lui, non è perdere tempo».
Nella sequela di Gesù, non sempre si può disporre, come si legge nel vangelo, di una cavalcatura per trasportare un ferito o di una borsa con cui pagare un locandiere; ma proprio in casi del genere, «la nostra unica risposta è quella di ritrovarsi vicino al ferito, disarmati, senza grandi mezzi e senza potere». Solo identificandosi con gli “ultimi”, Charles de Foucauld, come ha affermato papa Francesco, è arrivato ad essere “fratello di tutti”, fino ad amare, senza paura di perdere tempo, «coloro di cui si condivide il destino, come Gesù spogliato sulla croce, di fianco ai due ladroni».
Hervé ha concluso il suo intervento con la lettura di una testimonianza trasmessagli da un confratello che vive, tra non poche difficoltà, a Beirut, con un esplicito invito a passare “dall’eucaristia della celebrazione all’eucaristia della compassione”. Vale, forse, la pena rileggere integralmente questo messaggio: “Molti cristiani praticanti, privati della comunione eucaristica, provavano durante quel periodo dolore e sgomento, e io mi sentivo solidale con loro. Ma ho pensato che quel “digiuno”, era anche un momento di grazia in cui avveniva una specie di decentramento del mistero eucaristico. Non passava giorno in cui non ci giungesse notizia della morte di qualcuno che conoscevamo. La celebrazione non si svolgeva più nelle chiese né nelle cappelle, ma laddove Cristo soffriva e moriva, negli ospedali e nelle case delle persone anziane. Questa pandemia ci invitava a vivere l’eucaristia in un altro modo. Molte volte durante questo periodo ho letto le preghiere eucaristiche, trasportandomi, con il pensiero e con il cuore, in quei luoghi in cui è esposto il corpo sofferente di Cristo: ospedali, prigioni, campi di rifugiati, barche di migranti, quartieri distrutti dalle guerre… Papa Francesco parla della “chiesa in uscita”. Ho cercato, guidato da lui, di passare dall’eucarestia della celebrazione all’eucarestia della compassione... Ogni celebrazione mi chiama ormai ad essere “in uscita” verso le periferie, e innanzitutto verso la periferia più vicina, il nostro quartiere di Nabaa, in cui si nasconde tanta miseria.”
Una testimonianza di vita e di fede
«In che modo, si è chiesta la superiora generale delle Figlie di Gesù, sr. Graciela Francovig, la vita consacrata può favorire la fraternità in un “mondo ferito” come quello causato dal Covid-19?». Quando si è provata a "guardare il volto del fratello e toccare la sua carne", nella sua mente è affiorato subito il ricordo di quand’era superiora provinciale della provincia andina (estesa nientemeno che in cinque stati: Argentina, Bolivia, Colombia, Venezuela e Uruguay).
In quegli anni, soprattutto in Bolivia, quotidianamente, ha potuto «annusare, toccare, vedere, sentire il dolore delle sue sorelle e dei suoi fratelli». Davanti a sé, ogni giorno, non poteva non vedere i tanti volti di bambini, adolescenti, giovani, donne e uomini "maltrattati" dalla sofferenza della vita, volti “incapaci di sorridere per il dolore troppo forte, per la vita troppo dura”. Purtroppo, «fino a quando si é immersi nella propria cultura, é difficile riconoscere nell'altro il prossimo abbandonato sulla strada».
Per “farsi prossimo” è necessario «coinvolgersi personalmente dando agli altri uno dei doni più preziosi che abbiamo, il tempo». Grazie all’ascolto dei “grandi silenzi” che la circondavano, ha potuto imparare «a toccare ogni giorno, e tutti i giorni, situazioni di grande dolore, riflesse nei volti delle persone». Andando incontro agli altri, era possibile “lasciarsi insegnare” anche dalla loro sofferenza.
Sr. Graciela ha avuto l'opportunità di accompagnare da vicino, quasi come un'amica, una donna boliviana convinta che il fatto di “essere nata donna” fosse la cosa peggiore che le fosse capitata nella sua vita; standole vicino, con molta pazienza, l’ha potuta aiutare a scoprire, invece, la “bellezza di essere donna”; proprio in quanto tale, infatti, «ha potuto dare la vita ai propri figli, sostenendo l’intera famiglia, lottando e lavorando sempre con la bontà scolpita sul volto».
Entrando nella sua congregazione, sr. Graciela ha riconosciuto apertamente di aver ricevuto tanto dalle sue consorelle, dal loro modo di “essere consacrate in una cultura così diversa dalla sua”. Con molta semplicità può affermare che Dio l’ha aspettata in “quella città e in quella cultura”, perché quell'esperienza «segnasse un prima e un dopo nella sua vocazione di Figlia di Gesù anche e soprattutto nel servizio di governo del proprio istituto».
La sua testimonianza di vita e di fede si è consolidata proprio a partire dal servizio ai fratelli, «toccando la loro carne, sentendo la loro prossimità e, in alcuni casi, anche soffrendo con loro»; essere fratelli e sorelle «non è un fatto automatico, lo si diventa, è frutto di un processo, comporta un viaggio ed esige una conversione». Anche il semplice gesto di "guardare il volto e toccare la carne" delle proprie sorelle e dei propri fratelli non è privo di importanti insegnamenti. È un modo concreto per imparare a vedere «la povertà e il dolore come grandi maestri di umanità». Purtroppo, non mancano forme di sofferenza e di povertà, come quelle che “disumanizzano e calpestano la dignità delle creature umane”, situazioni che Dio «non può assolutamente tollerare».
Senza donne, un popolo senza volto
Quanto è diversa, invece, la povertà che «ci evangelizza, che ci fa uscire dai nostri piccoli mondi per incontrare gli altri, che ci avvicina agli altri, che ci invita a condividere non solo quello che abbiamo ma, soprattutto, quello che siamo»; questa è la vera povertà che «avvicinandoci a Gesù, non solo ci fa entrare in amicizia con i poveri, ma anche ci umanizza».
Quando il dolore di una sorella o un fratello «diventa carne della nostra carne», allora «nessun dolore, vicino o lontano, ci è indifferente»; ma anche quando «la povertà, invece, mostra il suo volto più duro e il dolore, nelle sue diverse forme, tocca la nostra vita, tutto può essere ammorbidito dalla tenerezza». Soprattutto nella provincia andina sr. Graciela è stata testimone diretta della fortezza d’animo di tante donne che, come madri e come mogli forti, «lavorano per nutrire i loro figli, hanno la capacità di festeggiare, di gioire e di continuare a lottare con una grazia che le trasforma in un vangelo vissuto».
Esemplare il caso della donna sirofenicia che si getta ai piedi di Gesù chiedendogli la guarigione della figlioletta posseduta da uno spirito impuro. Di fronte ad una simile richiesta Gesù non si tira indietro, «passa da una ristretta mentalità a un'apertura universale della sua missione». In Gesù la tenerezza è sempre stata «un forte antidoto a qualsiasi tipo di potere, di imposizione delle proprie idee, del proprio stile di vita».
Ma proprio guardando al vangelo si potrebbe imparare a gestire in maniera più vera anche la leadership nella vita consacrata. Esistono tante forme di leadership; tutte possono essere in grado di «accompagnare i processi di uscita da noi stessi per incontrare l'altro, camminare insieme imparando gli uni dagli altri anche se piccoli e vulnerabili, ascoltare la realtà della vita come si presenta, riconciliarsi con la propria fragilità e con i propri limiti, riconoscersi come poveri, deboli e peccatori, bisognosi di Dio e bisognosi dei nostri fratelli e sorelle».
Soprattutto in Bolivia sr. Graciela ha intravisto tutte le gradazioni del dolore e ha sofferto le pesanti ricadute della povertà, della fragilità e della vulnerabilità; nello stesso tempo, però, ha riscoperto «la libertà e la felicità della povertà evangelica e la gioia della condivisione»; anzi, ha potuto rendersi conto non solo del fatto che le donne sono le grandi “resilienti e forgiatrici” di vita, ma soprattutto constatare che «senza le donne questo popolo non avrebbe un volto». Gran parte di queste sue esperienze, ha concluso sr. Graciela, non solo faranno parte del suo personale vissuto per tutta la vita, ma continuerà a valorizzarle soprattutto sia nel suo servizio di superiora generale, e, più ancora, «nella sua realtà di donna e di consacrata».
ANGELO ARRIGHINI