Dalpiaz Giovanni
Gli abbandoni minano il futuro possibile?
2021/6, p. 3
In questa parte il sociologo e monaco camaldolese, offrendo una sintetica documentazione statistica delle defezioni dei religiosi/e nell’arco temporale 1970-2019, ne percorre i disagi e le dinamiche che in una certa misura le provocano o le motivano.

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STATISTICA DELLE DEFEZIONI E MOTIVAZIONI
Gli abbandoni minano il futuro possibile?
In questa parte il sociologo e monaco camaldolese, offrendo una sintetica documentazione statistica delle defezioni dei religiosi/e nell’arco temporale 1970-2019, ne percorre i disagi e le dinamiche che in una certa misura le provocano o le motivano.
Guardare agli abbandoni è anche un modo per cogliere i punti deboli nei processi di formazione ed inserimento in un Istituto individuando di conseguenza azioni che permettano una più convinta fedeltà e perseveranza nella sequela del Signore. I dati a disposizione permettono di analizzare solo una porzione di quanti si allontanano e precisamente coloro che chiedono e ottengono la dispensa dai voti, mentre parziale e disomogenea è l’informazione su quanti escono aggirando o ignorando le procedure giuridiche.
La fonte che offre la base del quadro statistico è l’Annuarium Statisticum Ecclesiae che annualmente a partire dal 1970 fornisce una regolare documentazione anche se molto sintetica. Scorrendo l’arco temporale 1970-2019 si riscontra negli anni Settanta del secolo scorso un numero relativamente elevato di abbandoni (per avere un’idea della dinamica nel decennio si ebbe una media annuale di 1.500 religiosi-preti che chiesero di lasciare l’Istituto, l’1% del totale dei religiosi presbiteri), poi con gli anni Ottanta ci si stabilizza su valori molto più bassi. Nel 2019 (l’ultimo dato disponibile) a livello mondiale hanno abbandonato la vita consacrata 314 sacerdoti (lo 0,31% del totale dei religiosi presbiteri), 1.748 religiosi-laici (il 2,9% dei religiosi non preti sia di voti semplici che perpetui), 205 monache (lo 0,55% sul totale delle professe semplici e solenni), 2.321 suore (lo 0,54% sul totale delle professe temporanee e perpetue).
Come valutare queste informazioni?
Su base annuale il dato non pare particolarmente allarmante, per molti aspetti delinea una dinamica “fisiologica” nel senso che ogni istituzione conosce un certo numero di defezioni. Si nota inoltre che la maggior incidenza degli abbandoni è nel gruppo (eterogeneo) che include fratelli laici di voti anche perpetui e professi di voti semplici e tra questi ultimi proprio perché si trovano ancora in un tempo di discernimento è ragionevole attendersi un maggior numero di defezioni. Tuttavia se teniamo conto anche del calo delle vocazioni particolarmente accentuato in Europa e Nord America possiamo ipotizzare che in tali contesti geografici le uscite siano eventi che incidono sulla vitalità della testimonianza comunitaria.
Certo per avere risposte soddisfacenti sarebbe opportuno poter conoscere l’età di chi abbandona, dopo quanti anni dall’ordinazione, quali motivazioni adduce, ecc. Al riguardo l’informazione è molto lacunosa. Da quel che si sa emerge comunque che in linea di massima il gruppo di coloro che se ne vanno è relativamente giovane, raramente si va oltre i 50 anni e di conseguenza sono persone che hanno una buona esperienza di vita religiosa (indicativamente tra i 10 e 20 anni). Da questo punto di vista chi se ne va è parte del “futuro possibile”. Siamo davanti a persone che hanno fatto tutto il cammino della formazione, hanno avuto possibilità di un inserimento soddisfacente (in non pochi casi hanno svolto ruoli significativi: superiore, economo, parroco, formatore), eppure tutto ciò non ha portato ad un rafforzamento delle motivazioni, ma piuttosto ad un processo di distanziamento, a un disincanto interiore e relazionale.
Il nucleo più consistente di coloro che se ne vanno è pertanto costituito da persone potenzialmente ancora valide. Il loro andar via non passa inosservato, in molti casi è ferita che lascia il segno e può innestare recriminazioni, atteggiamenti di sfiducia, sentimenti di delusione che a loro volta appesantiscono la vita comunitaria. Dal punto di vista relazionale c'è sofferenza nel perdere confratelli/consorelle con i/le quali si è pregato condividendo aspirazioni, impegni pastorali, aspetti più o meno intensi di vita personale. Dispiacere reso più acuto quando se ne va una persona ricca di doti, di capacità con decisioni che sorprendono in quanto, almeno apparentemente, la crisi scoppia repentina, del tutto inattesa.
Vita comunitaria, appartenenza,
identità carismatica
Certo ogni abbandono è una storia a sé stante, è l’esito di una vicenda personale unica e irripetibile, legato anche alla soggettività, al carattere e alla personalità del/della religioso/religiosa. Eppure ci sono tratti che delineano una dinamica di somiglianze e affinità a partire dal fatto che nella quasi totalità dei casi non è una decisione improvvisa, ma la conclusione di un processo che conosce una crescita lenta e silenziosa, una progressiva consapevolezza personale nella quale convergono tante piccole delusioni, incomprensioni, situazioni di disagio che segnano la quotidianità e giorno dopo giorno indeboliscono il legame di appartenenza e accrescono distanza/estraneità rispetto alla comunità e all’Istituto.
Per quanto riguarda la realtà italiana e più in generale europea la documentazione esistente permette di individuare alcune aree nelle quali si colloca e cresce quel disagio che progressivamente allontana dalla vita comunitaria e dall’appartenenza istituzionale.
Anzitutto c’è un prendere le distanze dall’identità carismatica che in molti casi è un tutt’uno con l’emergere di un sentimento di delusione/disincanto per l’esperienza vissuta all’interno dell’Istituto, per cui è quasi ovvio giungere alla conclusione che non è “questa” vita religiosa, questo carisma, questa comunità l’ambiente relazionale dove vivere in pienezza la propria vocazione cristiana. Ne viene un allentamento delle relazioni e nel momento della difficoltà (della crisi in senso specifico) ci si trovi ad essere soli, senza avvertire il sostegno dei confratelli. È una solitudine cercata e nello stesso tempo specchio dell’assenza di soddisfacenti relazioni fraterne, solidali evidenziando la scarsa capacità di comunicare all’interno della dinamica comunitaria. Il tutto si manifesta in comportamenti di insoddisfazione, stanchezza, conflittualità e tensioni nelle relazioni interpersonali.
Vita spirituale
e relazioni deboli
Un secondo ambito di disagio in parte anch’esso legato all’identità carismatica è il venir meno della motivazione spirituale. Gli affanni quotidiani fanno sì che non sempre si ponga attenzione a custodire una buona relazione con Dio nutrita di preghiera, vita sacramentale, in un clima di silenzio e di vigilanza su di sé. Magari la pratica esterna continua ad essere mantenuta, ma perde di forza. Di conseguenza viene meno la tensione spirituale e si entra in un appiattimento che toglie vigore alla qualità dell’esperienza di fede. Talvolta le persone, magari proprio quelle più generose nel darsi all'impegno pastorale, non hanno attenzione ad alimentare quelle risorse, anzitutto spirituali, senza le quali riesce arduo affrontare impegni che si protraggono per un lungo arco temporale.
Se in passato con una soglia di durata della vita che mediamente si collocava intorno ai sessanta anni, i trenta/quaranta anni di vita religiosa costituivano un limite “alto”, oggi anche ipotizzando una entrata intorno ai trenta anni, sono traguardi facilmente raggiungibili creando le condizioni per una esperienza generalizzata di vita religiosa “lunga”. Il più esteso arco temporale della propria esistenza e la molteplicità delle esperienze che in essa si vivono rende evidente che solo in pochi casi le motivazioni iniziali sottese alla decisione di avvicinarsi ad un Istituto possono durare 40-50 anni. È necessario riconfermarle, perché solo attraverso un processo di rielaborazione esse potranno sostenere la persona nella perseveranza di un impegno lungo e duraturo.
La necessità di forti e convinte motivazioni spirituali nasce dalla consapevolezza che oggi la vita religiosa si trova a vivere al proprio interno le ricadute che una società sempre più secolarizzata trasmette intaccando la forza del credere e la solidità delle appartenenze. Il provvisorio, l’assenza di orientamenti definitivi, la convinzione che tutto possa essere rinegoziato perché il consenso è sì liberamente dato ma alla condizione che possa essere sempre revocato, sono tratti di una visione del mondo ampiamente condivisa e quindi presente anche nella vita religiosa. Dinamiche che di fatto rendono inevitabile una crescita dell’instabilità in particolare tra le persone più giovani in quanto sono quelle che più direttamente hanno fatto esperienza di relazioni deboli, “liquide”.
Di nuovo ci troviamo di fronte alla constatazione che fedeltà e perseveranza non sono più valori e stili di vita che possono essere dati per scontati, ovvi nella loro comprensione e attuazione. Essi vanno proposti con una specifica e peculiare azione formativa ponendo un’adeguata e credibile fondazione teologica, spirituale e culturale. Ciò non impedirà che vi siano pur sempre abbandoni, ma sappiamo che la vocazione è anzitutto risposta ad una convocazione, relazione nella quale la fedeltà di Dio fa alleanza con la fragilità della condizione umana per essere accolta e vissuta.
GIOVANNI DALPIAZ