Dalpiaz Giovanni
Perseverare nella fedeltà
2021/6, p. 1
Immersi in una società dove tutto muta e in un mondo dove costantemente si modificano in profondità le sensibilità culturali, gli stili di vita, le condizioni professionali, a porsi al centro del vissuto è la mobilità, il cambiamento, e non la stabilità, la permanenza.

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VALORI FONDANTI DELLA VITA CONSACRATA
Perseverare nella fedeltà
Immersi in una società dove tutto muta e in un mondo dove costantemente si modificano in profondità le sensibilità culturali, gli stili di vita, le condizioni professionali, a porsi al centro del vissuto è la mobilità, il cambiamento, e non la stabilità, la permanenza. Sono processi che negli ultimi decenni hanno trasformato in profondità la sensibilità delle persone, il modo di comprendere e vivere le relazioni, la scala e le priorità dei valori. Da questo punto di vista i valori fondanti la stessa vita consacrata non hanno più un immediato riscontro con gli orientamenti e le scelte prevalenti nella società. Oggi più ancora che nel passato è evidente che una scelta di vita fondata sull’impegno a dare testimonianza all’Evangelo rappresenta una visione del mondo alternativa rispetto a quella dominante. Lo afferma il sociologo e monaco camaldolese, dom Giovanni Dalpiaz, priore dell’eremo di San Giorgio a Bardolino sul Garda, che in queste pagine, a partire dal documento della Congregazione vaticana per gli istituti religiosi “Il dono della fedeltà, la gioia della perseveranza”, ci dà conto delle tensioni che attraversa la vita consacrata.
Vita consacrata
e contesto culturale attuale
Nel documento su “Il dono della fedeltà, la gioia della perseveranza” (2020) la Congregazione per la vita consacrata ha proposto all’attenzione ecclesiale un’ampia riflessione teologica, spirituale e giuridica sulle ragioni che motivano la perseveranza nella vocazione anche in un contesto culturale caratterizzato dalla fatica ad assumere impegni di vita che siano “per sempre”.
Rispetto ad un passato nel quale il definitivo, la decisione di lunga durata, era orientamento condiviso, valore apprezzato e fondava in modo trasversale scelte familiari, professionali, abitative e si traduceva in un modo di intendere e vivere le relazioni, oggi la definitività delle scelte (occupazionali, matrimoniali, religiose, eccetera) è più un auspicio che un presupposto, un fondamento delle decisioni successive.
Per la sensibilità contemporanea non all’inizio, ma al compiersi di un percorso di vita, di un rapporto, di un orientamento esistenziale si potrà dire che esso è durato “per sempre”. Questo per un duplice ordine di ragioni. Immersi in un mondo dove tutto muta e costantemente si modificano in profondità le sensibilità culturali, gli stili di vita, le condizioni professionali, è la mobilità, il cambiamento, non la stabilità, la permanenza, a porsi al centro del vissuto. Il vortice delle trasformazioni rende la vita quotidiana cangiante, instabile, attimo fuggente da afferrare e consumare, alimentando la cultura dell’effimero, del provvisorio, all’interno della quale è difficile accettare che vi siano scelte effettuate una volta e “per sempre”.
È rara nella società contemporanea l’esperienza di relazioni che durano con la stessa, o accresciuta intensità, per tutto l’arco di una esistenza. Non che le persone siano incapaci di scelte di lungo respiro o che non vi siano decisioni che nel loro orientamento rimangono stabili per tutta la vita, ma nell’insieme delle scelte esistenziali è il cambiamento, la flessibilità, il re-inizio il tratto caratterizzante. Certo quando si avvia un lavoro o ci si inserisce in un nuovo ambiente o si intrecciano nuove relazioni l’aspettativa è la durata, che possano essere “per sempre”. All’inizio è bello pensare che sia così, ma sarà il corso degli eventi a dire se poi le cose andranno davvero nel modo auspicato.
Orientamenti e scelte
prevalenti nella società
Un secondo fattore che concorre a indebolire perseveranza e fedeltà è l’affermarsi del primato della soggettività e della libertà individuale che da un lato si fa istanza di autonomia, autorealizzazione, indipendenza e dall’altro indebolisce la forza delle appartenenze sia familiari che comunitarie e istituzionali.
Sono processi che negli ultimi decenni hanno trasformato in profondità la sensibilità delle persone, il modo di comprendere e vivere le relazioni, la scala e le priorità dei valori. Da questo punto di vista i valori fondanti la vita consacrata non hanno più un ovvio e immediato riscontro con gli orientamenti e le scelte prevalenti nella società. Oggi più ancora che nel passato è evidente che una scelta di vita fondata sull’impegno a dare testimonianza all’Evangelo rappresenta una cultura, ossia una visione del mondo, alternativa rispetto a quella dominante. Operativamente ciò significa avere la consapevolezza di operare in una società religiosamente indifferente, di fatto post-cristiana, nella quale fedeltà e perseveranza nella sequela sono valori che vanno “costruiti”, nel senso di motivati e incoraggiati delineandone l’eccellenza della vita spirituale e la realizzazione personale.
Siamo di fronte a una sfida che tocca in profondità l’incisività e l’efficacia della testimonianza della vita comunitaria e, probabilmente, anche il suo prevedibile futuro. I rischi sono quelli di un allentarsi della tensione spirituale, magari compensata con un maggior impegno sociale, e di un rafforzarsi delle tendenze all’individualismo, erodendo dall’interno la tenuta degli istituti religiosi.
Un indicatore di tali tensioni lo si coglie analizzando la dinamica degli abbandoni che ha una duplice fisionomia. Accanto alla parte emergente, visibile nel numero di quanti lasciano un Istituto religioso (con o senza dispensa/autorizzazione) c’è anche una realtà sommersa, difficile da quantificare dove la separazione si manifesta con minor visibilità, pur arrecando ugualmente danno alla tenuta delle relazioni comunitarie. Persone stanche, demotivate, deluse, tentate dal tirare i remi in barca chiudendosi nel recinto delle proprie attività. Un affaticamento che non è tanto (o solo) fisico e mentale, ma piuttosto l’esito di un logoramento che ha tolto vigore alla tensione spirituale.
È in questo contesto che più facilmente emerge il distacco spirituale e psicologico rispetto alle scelte vocazionali fatte in precedenza, anche se poi per circostanze varie (difficoltà per il reinserimento, età, cristallizzarsi delle abitudini, ecc.) si preferisce restare nell’ambito istituzionale. Siamo di fronte a “separati in casa” e inevitabilmente il loro disagio, e spesso le incoerenze e le contraddizioni comportamentali che ne derivano, deprime la vitalità dell’agire istituzionale, è un freno (quando non diviene un ostacolo) alla forza della testimonianza, indebolendo la convinzione e la motivazione di confratelli/consorelle.
GIOVANNI DALPIAZ