Ziccone Paola, Matté Marcello
Giustizia riparativa. Dal percorso un progetto
2021/6, p. 40
Siamo convinti che il progetto della giustizia riparativa abbia a che fare con il senso stesso della “missione evangelizzatrice” della Chiesa. Si tratta sì di “annunciare” il vangelo, ma si tratta altrettanto di trovare il modo (sempre da ricercare) per farlo diventare progetto di vita e di società. Una giustizia che ripara anziché lacerare.

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NUOVI MODELLI DI GIUSTIZIA
Giustizia riparativa
Dal percorso un progetto
Siamo convinti che il progetto della giustizia riparativa abbia a che fare con il senso stesso della “missione evangelizzatrice” della Chiesa. Si tratta sì di “annunciare” il vangelo, ma si tratta altrettanto di trovare il modo (sempre da ricercare) per farlo diventare progetto di vita e di società. Una giustizia che ripara anziché lacerare.
All’indomani della morte in carcere del capo mafia più noto in Italia, condannato a 26 ergastoli, molte erano le frasi festose che si rincorrevano di bacheca in bacheca sui social, come se la notizia fosse relativa non tanto alla morte di un uomo che stava scontando i suoi crimini in galera, ma piuttosto alla sconfitta definitiva della guerra alla mafia.
Come altre volte, ho pensato che se in Italia le leggi fossero fatte sulla base del “comune sentire” delle persone non mancherebbe molto al ritorno della pena di morte nella previsione normativa del nostro ordinamento giuridico.
Questo comune sentire bisogna definirlo, con sempre più forza, per com’è – desiderio di vendetta – e trattarlo come tale, ossia renderlo incapace di produrre un male maggiore di quello già accaduto, perché la vendetta è non solo totalmente inutile, ma dannosa. Questo assunto non è solo una questione morale, bensì razionale, di politica criminale, ossia allineata alla comprensione di tutti quei mezzi necessari a garantire la sicurezza di una società.
Ora, se da un lato si può comprendere la rabbia che provano le vittime dirette e indirette (parenti, amici, conoscenti della vittima) nei confronti dell’autore di un atto o più atti violenti ed efferati, dall’altro lato ritengo sia importante analizzare e porre rimedio al libero sfogo e alla diffusione compiaciuta del sentimento della rabbia anche in chi non è la vittima diretta di nessun delitto o violenza.
Da Erinni a Eumenidi
Nell’antico mondo greco delle Erinni (le Furie), la famiglia, l’amore e l’amicizia erano gravati dall’esigenza ricorrente di vendicare qualcosa.
Il bisogno di ritorsione era continuo, gettava ombra su ogni relazione, comprese quelle fondamentalmente benigne, come il rapporto fra Oreste ed Elettra, rappresentato nelle tragedie di Eschilo.
La vendetta rendeva impossibile per chiunque amare qualcun altro.
Nell’Orestea di Eschilo, la dea Atena, che ha già organizzato senza le Erinni le sue istituzioni giuridiche, le persuade a cambiare se stesse, in modo da unirsi a lei, nell’impresa di fornire alla polis un governo basato sulla giustizia.
Ma ciò ovviamente significa una trasformazione profondissima, in pratica un mutamento di identità, tanto esse sono caratterizzate dalla forma e dalla forza ossessiva della rabbia.
Le Erinni accettano l’offerta e si esprimono benignamente. Proibiscono qualsiasi uccisione indiscriminata. Da bestie diventano donne e «straniere residenti nella città». Cambiano anche il loro nome: adesso sono le Eumenidi (le Gentili) e non più le Erinni.
Eschilo, dunque, suggerisce che la giustizia non si limita a costruire una “gabbia” intorno alla rabbia, bensì la trasforma radicalmente da qualcosa di poco umano, di ossessivo e sanguinario, a qualcosa di umano, ragionevole, calmo, misurato.
Costituzione incompiuta
La nostra Costituzione, all’art. 27, come sappiamo, ha preso le distanze da un modello di pena retributiva, consistente nell’infliggere un raddoppio del male, e ha scelto un modello di pena rieducativo.
Tuttavia l’applicazione nel concreto di questo modello penale, come succede anche su altre grandi questioni, non è stato portato a pienezza; vi sono gravi lacune anche nel sistema normativo, che non agevolano e in taluni casi non consentono il pieno rispetto dell’articolo 27 della Costituzione.
Ma più che nelle lacune normative, la mancata attuazione del principio rieducativo della pena prende le mosse da un mancato progresso culturale e sociale che mette in luce come il sentire più diffuso delle persone riguardo a chi commette un reato si spinge più verso un desiderio di esclusione, separazione, distanziamento, repulsione, allontanamento che recupero, accoglienza, riabilitazione.
Se da una parte il pensiero dominante della maggioranza del Paese va verso la stigmatizzazione definitiva di chi ha commesso un reato e la sovrapposizione del concetto di colpevole con quello di colpa, dall’altra parte il meccanismo processuale, che infligge una sanzione, non consente alcun riconoscimento, non assegna alcuno spazio alla vittima, la quale, nella maggior parte dei casi, anche a fronte della condanna dell’autore del reato, non viene raggiunta da alcun tipo di riconoscimento del danno: il danno subito non viene in alcun modo riparato, lasciando così un’infinita, eterna condanna alla fissità del male nel momento in cui fu commesso. Nessuna evoluzione possibile.
Tutto questo pone un problema enorme alla società, perché di fatto la sanzione penale non produce alcun cambiamento, e dunque rischia di rendersi inutile, anche se molto costosa in termini di gestione complessiva.
Giustizia riparativa: le origini
Dall’anno 1999, grazie a una normativa internazionale, emanata dalle Nazioni Unite, dal Consiglio d’Europa e dall’Unione Europea, sono circolati principi base, raccomandazioni, linee guida, manuali e altri strumenti volti a sollecitare dappertutto l’adozione di programmi di giustizia riparativa per conseguire scopi in parte identici a quelli classici dei sistemi penali democratici (la prevenzione del crimine, il ristabilimento dell’ordine sociale, la promozione della sicurezza sociale, la risocializzazione dei colpevoli) e in parte, invece arricchiti da un’inedita prospettiva sul crimine, visto come un evento che coinvolge reo, vittima e comunità (un po’ come questo virus, che sta insegnando alla sanità come la malattia non riguardi solo medico e paziente, ma la società).
Si fa strada una risoluzione dell’ONU e un’altra del Consiglio d’Europa che, a seguito delle riflessioni più avanzate condotte negli Stati del mondo, invitano a prendere in considerazione un nuovo modello di giustizia, valutato come più efficace per incidere da una parte sulla responsabilizzazione del reo e dall’altra sul soddisfacimento della vittima e, dunque, atto in ultima istanza a fare giustizia nel modo più adeguato.
Questo modello di giustizia viene chiamato Restorative Justice, impropriamente tradotto in italiano con giustizia riparativa, all’interno del quale si trova lo strumento per eccellenza di questo nuovo paradigma di giustizia che è la mediazione penale.
Cos’è dunque la giustizia riparativa? E cos’è la mediazione che della giustizia riparativa è lo strumento privilegiato?
Giustizia riparativa: il profilo
Secondo la Risoluzione ONU n.12/2002 e la Direttiva 2012/19/UE, con giustizia riparativa si intende qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale.
La mediazione lavora sulle esperienze di ingiustizia e accoglie il dolore che ne deriva, creando un tempo per la parola.
È uno spazio dialogico nel quale ricostituire, insieme con l’altro, la dignità e il proprio nome, trasformando la solitudine, il vuoto, l’esperienza di separazione alle quali il conflitto riconduce.
La mediazione, che è uno strumento estremamente raffinato della giustizia riparativa, dà la parola e permette il passaggio dalla parola che umilia alla parola che riconosce.
Da un punto di vista teorico, la mediazione rappresenta lo strumento privilegiato della giustizia riparativa, vale a dire un paradigma di giustizia che pone al centro dell’interesse la cura delle conseguenze generate dalla commissione di un fatto – reato, promuovendo l’uso di strumenti che coinvolgono “attivamente” vittima, autore del reato e comunità nella ricerca di possibili soluzioni per riparare il danno e per ricucire la frattura sociale che si è prodotta con la commissione del fatto.
Dall’esperienza dell’ingiustizia al riconoscimento
Proprio questo paradigma propone di riconoscere che il reato è più di un’offesa contro lo Stato e di una violazione di una norma del codice penale; è innanzitutto un’esperienza di ingiustizia che rompe profondamente la relazione con l’altro e più in generale frattura un patto di cittadinanza, il patto che lega implicitamente coloro che abitano una comunità nella reciproca attesa di rispetto, fiducia, riconoscimento, pacifica convivenza.
Ci sono comportamenti che violano profondamente la dignità di una persona, la sua esigenza di essere onorata, apprezzata, rispettata – in una parola – riconosciuta.
Il tradimento di ciò che “mi aspetto di ricevere dagli altri”, vale a dire l’aspettativa di “essere chiamati da altri con il proprio nome e di essere guardati nel modo atteso”, rappresenta un’esperienza esistenziale molto complessa che merita di non essere vissuta in silenzio.
«Lo spirito delle pratiche di mediazione va, infatti, individuato nel fatto che a ogni gesto afasico, a ogni atto che provoca in altri sofferenza, dolore, può fare da contrappunto un luogo in cui tale dolore può essere detto e ascoltato».
Il modo in cui la mediazione lavora per la ricucitura del patto di cittadinanza, per ristabilire la comunanza infranta, consiste nel creare un luogo per la narrazione, per l’ascolto, per l’incontro di parole. È la dimensione necessaria per riallacciare il nodo.
La giustizia dell’incontro
La giustizia riparativa viene anche chiamata “giustizia dell’incontro”. L’incontro fra vittima e reo permette di ricostruire in modo condiviso ciò che è accaduto, permette di raccontare e di raccontarsi alla ricerca di una comprensione della realtà e soprattutto di un mutuo riconoscimento di ciò che ciascuno ha vissuto. È la realtà soggettivamente vissuta e raccontata ad essere al centro dell’interesse.
La realtà, in mediazione, è tutt’uno con il racconto; nasce dall’incontro delle parole dei confliggenti, e prima ancora dall’opportunità individuale di narrare e raccontare. Prima dell’incontro di mediazione vero e proprio, infatti, le parti sono ascoltate individualmente, in colloqui preliminari ove sia la vittima sia il reo possono avere uno spazio tutto per sé per raccontare la storia.
Narrare un’esperienza di reato a un mediatore significa accedere a uno spazio protetto e libero, nel quale poter seguire il proprio filo del racconto, avere il tempo di evocare gli episodi più lontani nel tempo e quelli più vicini, interrogare i ricordi senza forzature e soprattutto raccontare quanto soggettivamente è stato vissuto e scegliere quali sono soggettivamente gli aspetti importanti toccati e lesi nella vicenda.
A ben vedere, si tratta di un’esperienza molto diversa rispetto alla narrazione che si svolge davanti ad un giudice, ove raccontare significa organizzare un’esatta messa a fuoco degli avvenimenti, rispettare un ordine temporale, una logica consequenziale; significa ricordare ed evocare solo quegli aspetti del fatto che risultano fondamentali per stabilire i termini oggettivi della ragione e del torto. Questa differenza non deve sorprendere, in quanto mediazione e processo rappresentano due modalità distinte di intervento nei conflitti e per questo parlano due linguaggi differenti.
Dare la parola e le parole
Il mediatore in quest’importante esperienza narrativa, che è la mediazione, ricerca, insieme con le parti, forme di riparazione simbolica, prima ancora che materiale, che rendano evidente il fatto che la domanda individuale di giustizia espressa da ciascun confliggente durante l’incontro è stata ascoltata, accolta, compresa, presa in conto.
È stato già osservato che i sistemi di giustizia che caratterizzano le società occidentali hanno privato le vittime della parola, lasciandole paradossalmente ai margini della scena processuale, nonostante – proprio attraverso il processo penale – si attui la tutela e la presa in carico di tutte le ragioni della vittima.
Sappiamo che il processo si è sempre occupato prevalentemente dell’autore del fatto e che durante i processi sono molto ridotte le occasioni nelle quali chi ha subito un’ingiustizia può raccontare fino in fondo l’impatto che il reato ha prodotto nella sua vita. Le pratiche di mediazione riconoscono alla vittima un ruolo più attivo, offrendole in primo luogo uno spazio in cui essere accolta e raccontare “tutto ciò che le è capitato”, soprattutto poter parlare della rabbia, della paura, dell’odio, del desiderio di vendetta, dell’insicurezza, dell’angoscia, dei sentimenti del conflitto e trovare uno spazio di ascolto competente.
Nell’incontro con “chi le ha fatto del male” la vittima può porre delle domande spesso di vitale importanza (perché proprio a me? mi hanno scelta? conoscevano le mie abitudini? c’era qualche ragione di risentimento? oppure ero una vittima casuale?), può cominciare a prendere la parola di fronte all’altro per affermare ciò che ogni vittima chiede che venga riconosciuto, vale a dire: “ciò che è accaduto non doveva accadere” e “ciò che è accaduto non dovrà mai più accadere”.
Ricerca di umanità
Il diritto, attraverso i suoi strumenti, fra cui le sanzioni penali, sancisce in modo assoluto e definitivo queste domande; la mediazione, che opera all’insegna del diritto, chiama due soggetti a diventare responsabili di queste istanze l’uno verso l’altro. L’autore di reato, che nella dimensione narrativa della mediazione trova a sua volta uno spazio di espressione individuale per essere ascoltato e per raccontare le conseguenze che il fatto ha prodotto nella sua vita, attraverso l’incontro con la vittima può proporre di riparare il patto che è stato violato, rendendosi concretamente disponibile a compiere un gesto che possa significare tale volontà e tale disponibilità. La responsabilità che si costruisce in mediazione è una responsabilità verso l’altro.
La mediazione propone una ricerca di umanità. In un articolo apparso un’esponente del movimento “Peace Now”, riflettendo sul conflitto arabo-israeliano, nel quale è a maggior ragione direttamente coinvolta in quanto ebrea, dice «la nostra salvezza reciproca sta nell’abbracciare la nostra reciproca umanità». In mediazione è proprio l’umanità dell’avversario che si cerca di toccare; si è interessati prima di ogni cosa a quest’umanità. L’obiettivo della mediazione fra vittima e autore di reato è far riemergere l’umanità delle persone, quando questa è stata umiliata dal crimine non solo patito ma anche commesso.
Nel nominare la ricerca di umanità potremmo richiamare il concetto “al cuore dell’idea di giustizia”, proposta dalla Commissione Sudafricana per la Verità e la Riconciliazione, il concetto per cui “una persona è tale attraverso altre persone”, ossia l’Ubuntu.
La giustizia riparativa, attraverso la mediazione, esprime lo spirito dell’Ubuntu proprio attraverso la sua stessa struttura, la sua stessa ragione d’essere, vale a dire il fatto che essa rappresenta innanzitutto l’occasione per due confliggenti di narrare l’uno all’altro, di porre il me di fronte al tu.
L’incontro con il volto dell’altro
Se è in una dimensione dialogica che è avvenuto il rifiuto di riconoscimento e la negazione dell’umanità dell’altro (con un gesto, una parola, uno sguardo), è attraverso una dimensione dialogica che questa umanità può essere recuperata.
Come insegna Levinas «il volto ha un senso non per le sue relazioni, ma a partire da se stesso. L’espressione non ci dà la conoscenza d’altri, non parla di qualcuno ma è un invito a parlare a qualcuno, fa sì che l’altro divenga interlocutore».
Per il filosofo, l’esperienza dell’incontro col volto dell’altro è fondamentale per l’essere umano; «incontrare il volto dell’altro significa risvegliarsi all’altro; significa il risveglio dell’umano perché il volto dell’altro è il luogo originale del sensato che fa irruzione nell’ordine fenomenico dell’apparire. Il volto è immediatamente significante al di là delle forme plastiche che continuamente lo nascondono come una maschera, nella percezione».
Il mediatore lavora per rendere sempre più tangibile il riconoscimento del volto dell’altro, affinché le parti possano cominciare davvero a dialogare.
Ancora una volta siamo di fronte a una prospettiva diversa rispetto a quella offerta dal diritto.
È lo stesso Levinas a osservare che nel giudizio è pur vero che il giudice parla all’accusato e l’accusato ha diritto di parola, eppure giudice e accusato «non stanno ancora parlando». Nel processo, infatti, si ascolta parlare l’accusato nel senso che “lo si guarda parlare” in quanto accusato, con un nome e un ruolo ben precisi.
Nella mediazione si prova a parlare davvero con l’altro, facendolo diventare interlocutore: «solo quando potrò vedere il suo volto e credere in lui potrò davvero parlare con lui». Nei termini proposti dal filosofo, si può riprendere il concetto di responsabilità e chiarire che la responsabilità verso il volto dell’altro non è una responsabilità speciale o tecnica né determinata dai ruoli, dai contratti, dalle convenzioni, ma è una responsabilità illimitata, di non indifferenza rispetto al fatto di dover rispondere, in qualche modo, del diritto d’essere dell’altro.
La giustizia riparativa lavora sulla responsabilità morale verso l’altro, si preoccupa per i diritti dell’uomo, è il richiamo ad un’umanità ancora non compiuta nello Stato.
Una giustizia che ripara anziché lacerare
«Non è giustizia rispondere al male con il male». È l’affermazione di carattere ideale, ma anche drammaticamente storico, che sta dietro (e davanti) a ogni ricerca di modelli più efficaci di giustizia.
Una volta che ci si applichi con mente non dico aperta, ma almeno libera da postulati ideologici, si fatica a capire come abbia potuto durare nei secoli, e perdurare ancora oggi, il principio retributivo, secondo il quale al male si risponde con altro male. E se non basta la storia a smentire il postulato, si forza perfino il patrimonio biblico per dar man forte a una tradizione anche, sì, magisteriale, ma non magistrale. Si sono modulate in diversi modi le forme della retribuzione, mascherando l’ossatura portante che è rimasta la giustizia del taglione; con lo Stato di diritto che avoca a sé il monopolio della vendetta.
«Il settore in cui più facilmente s’è teorizzata ... una visione retributiva della giustizia ... è quello penale. Oggi non più nel senso secondo cui il punire costituirebbe un fine in sé. Ma riferendo le attese di prevenzione, pur sempre, al quantum della sofferenza comminata e applicata come espressiva per analogia della gravità dell’illecito: di regola, attraverso la condanna al carcere. Così che la prevenzione è concepita come effetto del timore di tale sofferenza, o come corollario dalla segregazione. Mentre alla pena resta estranea, nel momento in cui viene inflitta, qualsiasi dimensione progettuale che risulti significativa per il suo destinatario e per il suo rapporto con la vittima e con la società (salvo il tentativo di recuperare qualche apertura alla reintegrazione sociale dopo la condanna)» (Luciano Eusebi).
Confinata la giustizia nella riduttiva interpretazione retributiva, la misericordia ne viene separata, così come, nel sentire comune, il “giusto” è distinto dal “buono”.
È un problema sostanziale per l’annuncio del vangelo che pretende di coniugare giustizia, bontà e misericordia. Già nei secoli ancora precedenti l’ossequio alla laicità dello Stato, si è imposta un’interpretazione secondo la quale nelle vicende umane e sociali si doveva agire secondo “giustizia” (retributiva), lasciando bontà, misericordia e perdono al “di più supererogatorio” di qualche “anima bella”.
È un problema sostanziale, tuttavia, non esclusivamente per rapporto al vangelo, ma per rapporto alla stessa vicenda umana: non è giustizia rispondere al male con il male; è giustizia rispondere al male con un progetto di bene.
Una teologia biblica da riscoprire
A sostegno di questa interpretazione della giustizia non è necessaria alcuna forzatura del messaggio biblico, che anzi vi corrisponde. Arduo piuttosto comprendere come la teologia – in particolare della sostituzione vicaria – possa avere retto per tanto tempo senza lasciarsi scalfire dal vangelo.
Nella dinamica della tzedakah (giustizia) biblica più volte rappresentata dal Primo Testamento, l’intervento divino non è mai esclusivamente punitivo e mira alla ricostituzione di un rapporto “giusto” fra Dio, il solo giusto, e l’uomo colpevole.
Che si esprima nel genere letterario del giudizio o in quello della lite (rîb) l’intervento (parole e segni) di Dio mira sì a ripristinare un ordine delle cose disturbato dall’ingiustizia commessa, ma soprattutto intende restaurare (re-instaurare) un rapporto.
La pena non ha e non vuole avere una funzione retributiva. Ha una finalità pedagogica e mira anzitutto a ricostituire il peccatore nella sua dignità di interlocutore di Dio e suo alleato. Nel caso del rîb, che presuppone vincoli affettivi fra i due litiganti, il “processo” «si propone di difenderli, di ripristinarli, e persino di perfezionarli proprio nel momento drammatico in cui uno dei due partner ritiene che l’unione amorosa sia stata infranta da un comportamento gravemente offensivo» (Bovati).
«L’incontro con Dio impone la verità sul male (lo disvela) non per schiacciare il peccatore, bensì per aprirlo a un percorso di salvezza del quale Dio stesso si fa garante, in conformità alla vocazione per cui l’uomo fu creato. … L’inferno stesso non consiste in una pena inflitta da Dio, ma indica la drammatica possibilità di una chiusura radicale, salvi sempre i misteri della misericordia divina, a tale accoglienza o, se si vuole, alla giustizia divina» (Eusebi).
Nel Nuovo Testamento, anche al netto delle esigenze (provocatorie?) del Discorso della Montagna (siamo stati capaci di una montagna di discorsi per svuotarlo), la prassi delle prime comunità, illuminata ed esplicitata da Paolo, è tutta orientata al ricupero del colpevole. Il fine della pena non è la fine del condannato, ma il suo reintegro nella comunione. «Se fra i credenti la pena non è espressione di un amore che perdona (ad imitazione del modello di Dio) ciò significa che chi punisce è caduto “in balia di satana” (2Cor 2,11). … Se la pena non ha come scopo il ricostituirsi della comunione col condannato, se questi non percepisce di restare pur sempre “fratello” anche nella pena, se la sua condizione ne fa un proscritto, un emarginato, un declassato (secondo lo spirito del capro espiatorio) non può più parlarsi per Paolo di “ministero di riconciliazione” in senso cristiano. Poiché “Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza” (1Ts 5,9)».
Un’antropologia da rinnovare
Le prospettive di giustizia riparativa si propongono in continuità con le linee portanti di questa teologia. Intendono mostrare come il modello della giustizia riparativa, lungi dall’essere utopico, meglio risponde alle acquisizioni di carattere filosofico, sociologico e antropologico dell’ultimo secolo. La disponibilità all’impegno riparativo, l’adozione di sanzioni prescrittive a contenuto solidaristico, il ricorso a percorsi non detentivi con finalità riabilitative sono le coordinate di un progetto che vede non solo il fatto, non solo colpevole e vittima come individui separati (e da tenere separati), non solo responsabilità individuali, ma piuttosto responsabilità personali, dove la persona (sia essa vittima o colpevole) è pensata costitutivamente come relazione.
Alla luce di questo approccio, non ha senso la pena semplicemente afflittiva perché raggiunge la dimensione individuale, senza raggiungere la dimensione relazionale. Nessuno cambierà vita perché lo impone la legge, morale o giuridica; forse, nella sua libertà, cambierà vita se sente di doverlo a se stesso o a qualcuno. Non è nell’ordinamento penale, è nella realtà antropologica. Non è una legge positiva, è legge della vita.
La giustizia riparativa mette in relazione colpevole e vittima e chiede di riparare anzitutto il rapporto ferito, anche attraverso riparazioni di tipo materiale che ne siano simbolo.
È quanto meno irrispettoso pensare che la vittima trovi “soddisfazione” anzitutto dall’appagamento della sete di vendetta, come spesso la cronaca giudiziaria ama sottolineare. Le “vittime” sono spesso migliori dei sentimenti che noi attribuiamo loro. Non cercano vendetta, cercano anzitutto riconoscimento. La possibilità di vedere riconosciuto il proprio dolore da parte di chi lo ha causato.
Una rinnovata antropologia suggerisce un altro dato: nessuno si salva da solo. La salvezza, la redenzione, il riscatto non sono autocostruzioni. La libera scelta e l’impegno personali sono condizioni necessarie, ma non sufficienti.
L’esecuzione penale in carcere addossa per intero al condannato l’onere del ravvedimento, aiutandolo con un intervento di sostegno (poco più che simbolico, vista l’esiguità numerica delle figure cosiddette “educatrici”). La giustizia riparativa chiama a raccolta tutte le figure implicate in un rapporto esistenziale e sociale ferito per cercare “insieme” un percorso di ricostruzione.
La “svolta antropologica” diventa copernicana rispetto alla “espiazione”, «svolta che la nostra prassi penalistica non ha quasi percepito, né tanto meno realizzato. Con essa si opera un’affermazione (che è ad un tempo un imperativo) sulla fondamentale struttura antropologica dell’espiazione, che contrasta in senso assoluto con il nostro modo tradizionale di sentire e di agire: l’Antico ed il Nuovo Testamento considerano concordemente l’uomo come un essere che dipende fin nel profondo del suo esistere dal rivolgersi a lui della comunità e da quanto essa gli offre».
Anche la comunità civile ha una responsabilità nei confronti della riparazione da mettere in atto. E la sua responsabilità “antropologica” è quella del primo passo, intrinsecamente (non per cattiva volontà) impossibile al colpevole. Si tratta di passare da una giustizia del contrappasso a una giustizia del primo passo: «l’imperativo della conversione esige l’indicativo di una previa offerta di riconciliazione» (Eusebi).
Un progetto politico da implementare
Finché persiste la separazione fra “giustizia” e “bene” – e anzi si pensa alla giustizia come la misura di un male da infliggere – il ricco e argomentato portato della tradizione biblica e dell’“utopia” del vangelo, si continuerà ad approfondire il solco, anziché cercare la reciproca fecondazione, tra vangelo e vita vissuta, tra comunità civile e comunità cristiana, tra annuncio e progetto politico.
Si continuerà ad applaudire papa Francesco che riconosce la misericordia al cuore di un progetto di umanità e si continuerà nello stesso tempo ad applaudire il giudice che condanna al “fine pena mai” o il politico che invoca “certezza della giustizia” stravolgendo il significato di ogni parola usata.
Per queste ragioni siamo convinti che il progetto della giustizia riparativa abbia a che fare con il senso stesso della “missione evangelizzatrice” della Chiesa. Si tratta sì di “annunciare” il vangelo, ma si tratta altrettanto di trovare il modo (sempre da ricercare) per farlo diventare progetto di vita e di società.
La giustizia riparativa è un possibile campo di forte valenza insieme cristiana e civile nel quale operare per tradurre il vangelo di Dio in storia degli uomini, superando la separazione che fornisce alibi alla nostra disobbedienza. “Obbedienza civile” al vangelo.
Non c’è bisogno per questo di imporlo come sharia, anzi! C’è bisogno di formularlo come progetto credibile. Non c’è bisogno di imperativo, c’è bisogno di indicativo testimoniale. Non c’è bisogno di una politica del potere, ma di una politica ragionevole.
Come comunità cristiana abbiamo tra le mani un patrimonio antropologico e sociale di portata immensa e in gran parte inesplorata. Altrettanto immensa e da espletare la responsabilità che ne deriva. L’impulso del vangelo è forte e anche la sua promessa: “il regno di Dio è già in mezzo a voi”.
PAOLA ZICCONE, MARCELLO MATTÉ