Fiore Serafino
Il tempo: sfida o dono?
2021/5, p. 3
In un mondo dove la confusione delle lingue e il moltiplicarsi delle antenne replicano lo scenario già visto a Babele, è la misericordia a farci allargare il braccio, per spargere con esso semi di speranza.

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Testimoni
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NEL FLUIRE DELL’AMORE DI DIO
Il tempo: sfida o dono?
In un mondo dove la confusione delle lingue e il moltiplicarsi delle antenne replicano lo scenario già visto a Babele, è la misericordia a farci allargare il braccio, per spargere con esso semi di speranza.
Il tempo è dono, perché se vissuto in onestà davanti a Dio, ci permette una graduale e mai compiuta conoscenza di noi stessi, ci fa riconoscere quanto spesso imponiamo agli altri dei fardelli che noi non muoviamo neppure con un dito (cfr Mt 23,4). Ci fa scoprire quanto le nostre azioni e scelte siano condizionate da una storia, da ferite che facciamo persino fatica a ricordare. E che spesso anche l’obiettivo a cui miravamo – quello di essere migliori dei nostri padri – non è poi abbordabile come ci sembrava.
Il tempo è dono perché ci riconcilia col nostro passato, prossimo o remoto che sia. Ci permette di accogliere e non rimuovere quel peccato che, triturato in piccoli o grandi frammenti, ha finito col creare incrostazioni, tali e tante da impedire all’amore di Dio di fluire come dovrebbe. Oggi il peccato è ancora là, accovacciato alla mia porta (Gen 4,7), pronto ad alzare la testa e a mordermi. Ma più di ieri ho fiducia nella misericordia di Dio.
Il tempo è dono, perché – oggi più di ieri – so che Dio e il suo amore sono stati più forti di qualsiasi mia infedeltà. E nel dirlo non faccio il poeta. Riconosco semplicemente che il peccato rivelava con sistematica puntualità l’inconsistenza e l’ingannevolezza di quanto prometteva, mentre cresceva la mia fame di Parola, di preghiera, di sacramento, di comunione con Lui. E il passare degli anni mi rende edotto che una vita non basta, se voglio che la mia fame diventi quella degli altri.
Il tempo è dono, perché è questo sguardo più disincantato sul suo scorrere, che ci fa tutti capaci di misericordia: nelle relazioni fraterne, nelle omelie, nelle catechesi, nel sacramento della penitenza, nell’accompagnamento spirituale, nel lavoro. Ogni giorno che passa capisco sempre di più la centralità che la misericordia occupa nel magistero di papa Francesco. In un mondo dove la confusione delle lingue e il moltiplicarsi delle antenne replicano lo scenario già visto a Babele, è la misericordia a farci allargare il braccio, per spargere con esso semi di speranza.
Di tutto questo, ovviamente, è la persona, è ciascuno di noi ad essere testimone eloquente. Siamo noi a dire alla gente che mettersi dalla parte di Cristo non significa perdere, ma guadagnare. E che misericordia non significa libertinaggio o pressapochismo spirituale. La misericordia comincia proprio quando si prende sul serio la devastazione procurata dal peccato.
«La perdita della grazia di Dio è un dramma le cui proporzioni si comprendono solo col passare degli anni, semmai si arriva a farlo. Un sacerdote, come qualsiasi altro cristiano, può vivere senza la grazia di Dio per decenni; la differenza è che nel caso del sacerdote il risultato è devastante non solo per la sua anima ma anche per quelle a lui affidate. (….) Con la grazia divina non si può giocare: è molto delicata. Per questo tutta l’attenzione posta nella sopravvivenza e nello sviluppo della vita della grazia è sempre poca, perché non c’è nulla al mondo di altrettanto importante, nulla in assoluto. Perché, così come Dio irrompe nella vita di chi gli apre la porta, svanisce da quella di chi gliela chiude. E così, fino a quando all’improvviso ci si domanda: «dove è Dio? E poco dopo: ma, è stato con me qualche volta?» (Pablo d’Ors).
Tra passato e futuro
Mi è capitato di rileggere finora fedeltà e perseveranza con uno sguardo prevalentemente al passato. È il pedaggio che pago alla mia età. Ma niente di drammatico. Il passato mi serve per vivere in pienezza il mio presente, l’unico tempo affidato alla mia responsabilità, e in cui posso ribadire la mia fede di sempre, dicendo con san Paolo: «so a chi ho creduto» (2Tim 1,12). Lo so, proprio perché il passato mi offre mille motivi per dirlo. «Il fedele è colui che tiene insieme il passato e il presente» (Il dono, 23).
Ma poi devo guardare avanti. Qualcuno ha detto che è il futuro l’unico tempo che definisce una vocazione. È così. Il prodotto che conta è quello finale, se è sopravvissuto alla corrosione del tempo.
Di punti di riferimento ce ne sarebbero tanti da segnalare, mi limito a condividerne alcuni.
Il Mistero Pasquale. Guai a me se dimentico questa legge del mio credere, che puntualmente quanto sistematicamente s’impone. Non c’è amore che non si apra alla sofferenza. Non c’è zelo missionario senza sacrificio. Non c’è paura che la luce del cero pasquale non giunga a rischiarare. Non c’è nulla che vada perduto (Gv 6,12), anche il dolore inutile e l’incomprensione, il fallimento e la sconfitta: a condizione che sia Cristo a raccogliere le briciole delle nostre inconsistenze. «La dimensione pasquale dona al cristiano, al consacrato e alla consacrata un significato di compimento, che gli consente di vivere la propria esistenza senza essere condizionato dalla necessità di continue conferme della scelta abbracciata e senza rimanere succube delle inevitabili paure che si presentano nel corso della vita. La persona consacrata è consapevole che nei segni del limite, della fragilità e della miseria, porta in sé un più intenso e autentico compimento della propria esistenza» (Il dono, 52).
Uniformità alla volontà di Dio. Qualunque cosa il futuro mi riservi, so che posso farne legna da bruciare al fuoco dell’amore di Dio. Non devo sprecare le occasioni concrete, anche banali, che la vita mi dà per allenarmi a fare del mio volere una sola cosa con quello di Dio. Devo sgranare gli occhi su quel che accade, mettere a fuoco i vari fatti, e vedervi come un appello interiore ad un amore sempre nuovo e libero.
Il dono della comunità e la nostra corresponsabilità. «In una comunità veramente fraterna, ciascuno si sente corresponsabile della fedeltà dell’altro; ciascuno dà il suo contributo per un clima di condivisione di vita, di comprensione, di aiuto reciproco; ciascuno è attento ai momenti di stanchezza, di sofferenza, di isolamento, di demotivazione del fratello, ciascuno offre il suo sostegno a chi è rattristato dalle difficoltà e dalle prove» (La vita fraterna in comunità, citata da Il dono, 37).
Umiltà. Se un certo immaginario formativo ha affermato nel passato – e qui e là continua a ribadire oggi – lo stereotipo della vetta, dell’ascensione, della scalata alle pareti più ardue della vita e dello spirito, oggi mi rendo conto che nella vita spirituale si sale scendendo. Scendere, e scendere ancora. È l’esercizio del famoso “distacco”, così caro al mio fondatore sant’Alfonso e a tanti altri maestri di vita spirituale. Ma è vero che l’umiltà rivela incredibilmente sempre più numerosi agganci con la vita quotidiana, con i suoi anfratti più o meno misteriosi: l’ansia d’essere consultati, gli attestati di stima, le permalosità, le graduatorie, i posti d’onore. Sì, fedeltà fa rima con umiltà: il che significa lasciare che Dio faccia il suo mestiere e noi il nostro. È Lui che decide quando rivelarsi e quando nascondersi. Noi gli siamo fedeli nel cercarlo, umilmente appunto. Spetta a Lui farsi trovare.
Preghiera. So bene che fedeltà e perseveranza hanno il loro crogiolo nell’ordinarietà della vita, non negli eventi, festosi o luttuosi che siano. È nello scorrere apparentemente monotono dei giorni che esse vengono messe alla prova e purificate dalle scorie. E ciò accade se la preghiera aiuta a fare memoria di un momento straordinario: più che il giorno della professione o dell’ordinazione, quello che non trova riscontro negli annali bensì nel diario del cuore. Il giorno in cui abbiamo incontrato il tesoro della nostra vita e abbiamo deciso di vendere tutto pur di acquistare il campo che lo custodiva (Mt 13,44). È la preghiera che ravviva in noi la grandezza del dono ricevuto, e ce ne trasmette la gioiosa carica vitale.
Uno sguardo di gratitudine. Alla fin fine, al di là delle sfide e delle incertezze che fedeltà e perseveranza comportano, penso che questi valori alimentino soprattutto un motivo di gratitudine, se guardiamo «ai tanti consacrati e ministri di Dio che nella silenziosa dedizione di sé, perseverano incuranti del fatto che il bene spesso non fa rumore… Essi continuano a credere e a predicare con coraggio il Vangelo della grazia e della misericordia a uomini assetati di ragioni per vivere, per sperare e per amare. Non si spaventano davanti alle ferite della carne di Cristo, sempre inferte dal peccato e non di rado dai figli della Chiesa» (Francesco, citato da Il dono, 5). I nostri confratelli e consorelle ammalate, come anche quelli che nonostante tutto – anche alla terza e quarta età – continuano a prestare il loro lavoro o un servizio semplice e nascosto, sono uno dei doni più belli che Dio continua a fare a questo nostro mondo.
SERAFINO FIORE cssr