Fiore Serafino
Il dono e la gioia di un sì
2021/5, p. 1
«Il dono della fedeltà e la gioia della perseveranza»: è il titolo dell’ultimo documento della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica pubblicato ormai più di un anno fa dalla Libreria editrice vaticana e presentato online il 10 dicembre scorso.

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«RIMANETE NEL MIO AMORE»
Il dono e la gioia di un sì
«Il dono della fedeltà e la gioia della perseveranza»: è il titolo dell’ultimo documento della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica pubblicato ormai più di un anno fa dalla Libreria editrice vaticana e presentato online il 10 dicembre scorso. Il testo è frutto della plenaria del Dicastero per la vita consacrata celebrata a Roma nel 2017. Il sottotitolo è preso dal vangelo di Giovanni (15,9): «Manete in dilectione mea», «Rimanete nel mio amore». Il documento, che intende «elaborare e proporre alcune indicazioni o linee di intervento preventivo e di accompagnamento» (n. 3) davanti all’inquietante problema dell’abbandono di molti religiosi e religiose, ha tre capitoli: il primo porta come titolo “Lo sguardo e l’ascolto”, il secondo “Ravvivare la conoscenza di se stessi”, e il terzo capitolo “La separazione dall’istituto”. La parte conclusiva del documento invita a «rimanere nell’amore di Dio». In queste pagine ce ne offre una lettura intrigante padre Serafino Fiore, superiore provinciale dei Redentoristi dell’Italia Meridionale.
Anche quest’anno la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni è stata per le consacrate e i consacrati occasione di riflessione, oltre che di supplica al Padrone della messe. Anche nel 2021 la riflessione e la supplica risentono del particolare clima e delle restrizioni imposte dal Covid-19. Molte cose ed eventi sono stati letteralmente ingurgitati da questa crisi. Tra i tanti, e a titolo di esempio, un documento, edito dalla Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica il 2 febbraio 2020, qualche settimana prima che deflagrasse la pandemia: mi riferisco a Il dono della fedeltà e la gioia della perseveranza (da adesso in poi citato come Il dono), forse passato sotto silenzio per molti.
Chi l’ha letto, sa che questo testo ha più “generi letterari”. Nella prima parte il dono e la gioia si prestano a una riflessione sapienziale, mentre la seconda riporta normativa canonica e prassi del Dicastero Vaticano, nei casi in cui fedeltà e perseveranza vengono meno (ad es. separazione dall’Istituto ecc.).
Il mio intento muove su onde a più bassa frequenza. Pur dando spazio a risonanze del citato documento, miro a captare i valori della fedeltà e della perseveranza nel vissuto più feriale delle nostre comunità.
Controcorrente
Più il tempo passa, più noi consacrati ci accorgiamo di essere visti come una specie rara, speriamo non in via di estinzione. Motivo di perplessità nella gente non è tanto il fatto che non abbiamo una famiglia nostra, non la rinuncia a una presunta libertà, né la sempre più incomprensibile castità, o la privazione dei beni materiali. Sorprende il fatto che queste scelte siano fatte per sempre. Per una vita.
Il contatto pastorale, la cronaca, le statistiche, ci dicono che il mondo va in altre direzioni. Non vuole precludersi una scappatoia se l’impegno di una vita fallisce. La strada rimane quella del “va bene finché regge”, “ci impegniamo sì, ma fino a un certo punto, non si sa mai”.
Una conferma in positivo l’abbiamo in occasione dei Giubilei di professione e di ordinazione. Se nel passato questi eventi riguardavano comunità e parenti, oggi li si vive con risalto anche ecclesiale, attribuendo ad essi un valore simbolico, dovuto alla perseveranza del festeggiato, oltre che alla sua fedeltà.
Sbagliamo a pensare che fedeltà e perseveranza facciano problema solo ai giorni nostri. Leggendo le biografie dei nostri fondatori vi ritroviamo un assillo, che aveva marchiato a fuoco la loro stessa carne. Se guardo al mio fondatore, a sant'Alfonso Maria de Liguori, ci trovo qualcosa di straordinario, ma che penso trovi un equivalente in altri. Sulle montagne della Costiera Amalfitana, a 36 anni, Alfonso fa la sua scelta di vita, «dovessi pure restare solo», scrive. E tale effettivamente rimane. Il primo gruppo si dissolve nel giro di settimane, e devono passare dieci anni perché se ne abbia uno realmente fondativo. Non è un caso che negli scritti alfonsiani la parola “perseveranza” è quasi onnipresente, e va di pari passo con “grazia”, essendo quella un dono da implorare, non un calcolo su come realizzarsi al meglio.
Fedeltà a fasi alterne
Chiariamo. Fedeltà e perseveranza non sono sinonimi, né vanno necessariamente insieme. Si può perseverare in uno stato di vita e peccare d’infedeltà, o al limite vivere «una fedeltà a fasi alterne, un’obbedienza selettiva, sintomo di una vita annacquata e mediocre, vuota di senso» (Il dono, 5). Oppure si può essere fedeli ai propri principi e valori, e non perseverare più in uno stato di vita, proprio perché non lo si ritiene coerente con ciò in cui si crede. Se fedeltà e perseveranza hanno qualcosa in comune, è di essere esposte al fluire del tempo, che in tal senso può rivelarsi una sfida, o viceversa un dono.
Devo confidare che da giovane prima, e da adulto poi, vedo lo scorrere degli anni come sfida lanciata alle mie presunte, e talvolta presuntuose, certezze. Una provocazione lanciata dal buon Dio (o dalla vita nei momenti in cui il volto di Dio si oscurava) ai principi appresi sui banchi di scuola, o persino alla mia stessa buona volontà. Come a dire: “hai capito la lezione? Vediamo adesso come te la cavi”.
Chi è o è stato adulto mi darà ragione. La vita è sempre più complicata di quel che le teorie ci insegnano. Spesso essa ci obbliga a rivedere le frasi fatte. Il “si dovrebbe fare così” a volte si espone alla tentazione del compromesso. Talvolta per salvare i principi ci si accontenta di uno sconto.
Pensiamo alla bella letteratura che noi consacrati siamo bravi a creare intorno al “lasciare tutto”, con annessa simbologia biblica o artistica. Cosa dire, quando la vita ci mette davanti persone che non si possono permettere neanche il lusso di lasciare tutto, perché niente hanno mai posseduto? E cosa pensare di quelle volte in cui il tutto che ho lasciato mi trovo a surrogarlo con cose, consumi, gratificazioni, la ricerca del consenso, la pretesa di imporre le mie ragioni, le mie ambizioni, o un titolo in più da esibire?
All’altezza dei miei non più pochi anni, sono indotto a leggere lo scorrere del tempo come un dono, più che come una sfida. «Pur rimanendo in se stessa, la Sapienza tutto rinnova, e attraverso le età entrando nelle anime sante, forma amici di Dio e profeti» (Sap 7,27). Quante volte ho toccato con mano la verità di questa frase! Quante volte ho sentito il tempo come uno scalpello che con una pazienza tutta sua smussava angolosità, relativizzava affermazioni, apriva orizzonti.
SERAFINO FIORE