Cozza Rino
La vita religiosa sa sorridere delle sue ipocrisie?
2021/5, p. 26
È il momento di saper guardare e guardarci con occhi nuovi, trovandoci nella situazione di non accorgerci della distanza tra ciò che diciamo da ciò che facciamo, e dunque non più capaci di saper sorridere delle proprie ipocrisie. Ma la vita religiosa, in questo momento, ne ha la capacità?

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PER VINO NUOVO IN OTRI NUOVI
La vita religiosa
sa sorridere delle sue ipocrisie?
È il momento di saper guardare e guardarci con occhi nuovi, trovandoci nella situazione di non accorgerci della distanza tra ciò che diciamo da ciò che facciamo, e dunque non più capaci di saper sorridere delle proprie ipocrisie. Ma la vita religiosa, in questo momento, ne ha la capacità?
Le considerazioni qui espresse si pongono nell’orizzonte del documento «Per vino nuovo in otri nuovi» le cui linee sono di aiuto nel portarci a comprendere la soglia nuova in cui ora ci troviamo. Linee provvidenziali perché la vita religiosa è «attardata dal non avere ammesso per oltre mezzo secolo la propria crescente precarietà, preferendo piuttosto l’ostentazione della sua invariabilità», che l’ha portata, più o meno consapevolmente, a varie forme di ipocrisia (“facciamo finta che”) dovute alla mancata coscienza di «stare vivendo una fase di una necessaria e paziente rielaborazione di tutto ciò che costituisce il patrimonio e l’identità della vita consacrata».
Nel Nuovo Testamento il termine «ipocriti», Gesù lo riserva principalmente per coloro che con la religione avevano uno stretto legame: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti…» (Mt 23,13). E a queste persone religiose, diffidenti delle nuove affermazioni liberatrici di Gesù, sono rivolti sette anatemi (Mt 23,13-39) che fanno eco in negativo alle beatitudini, indicando il vicolo cieco in cui si trovano coloro la cui vita è simulazione di ideali, di virtù, di sentimenti; coloro che confondono la legge con lo spirito di essa.
«Che cosa debbo fare per avere la vita?»
Questa è la domanda che un “osservante” ha posto a Gesù, perché ciò che sapeva e praticava non gli aveva dato la vita che cercava. Oggi la stessa domanda deve porsela la vita religiosa per il fatto che «ogni sistema stabilizzato tende a resistere al cambiamento», mentre le risposte del Signore, sono sempre all’interno di un dato contesto culturale e storico.
Il punto da cui ripartire sta innanzitutto nel «chiederci se quello che oggi gustiamo e offriamo da bere è veramente vino nuovo corposo e sano».
Evidentemente tale domanda sottende «l’apertura mentale a immaginare modalità di sequela, profetica e carismatica, vissuta in schemi adeguati e forse inediti». In siffatto invito della Congregazione della vita consacrata (CIVCSVA) c’è inoltre l’indicazione di qualcosa di completamente inedito che non era finora mai stato espresso dall’alto con tali inequivocabili termini: «in questa prospettiva –- è detto – appare evidente la necessità di una riconsiderazione della teologia della vita consacrata nei suoi elementi costitutivi».
La speranza è in nuovi orizzonti
Nella vita religiosa sono molte le idee che sopravvivono a se stesse, senza che ci si renda conto di quanto siano soltanto logore consuetudini, ritenute fondate sul deposito della rivelazione, per una lettura ingenua ed acritica del dato biblico. Veniamo dal tempo in cui – scrisse K. Rahner – «ci si identificava con ciò che da sempre si era insegnato», a cui si aggiungeva il fatto che tra coloro che insegnavano, non mancava chi anziché guardare al divenire della storia, guardasse da che parte fosse imburrato il pane.
Oggi finalmente siamo testimoni di qualcosa di nuovo. Da tempo il Papa, nell’indicare nuovi orizzonti, va toccando certe inquietudini, con il linguaggio che il cuore attendeva. Da qui l’invito a «intraprendere nuovi passaggi affinché gli ideali e la dottrina prendano carne nella vita: vale a dire nei sistemi, strutture, diaconie, stili, relazioni e linguaggi». Con l’attenzione però – dice ancora il Papa - che «riformare non è imbiancare le cose, ma dar loro altra forma».
È il momento allora di saper guardare e guardarci con occhi nuovi, trovandoci, purtroppo, nella situazione di non essere più in grado di accorgerci della distanza tra ciò che diciamo da ciò che facciamo, e dunque non più capaci di saper sorridere delle proprie ipocrisie.
Ma la vita religiosa, in questo momento, ne ha la capacità? Da una recente relazione di alcuni osservatori della vita religiosa che hanno preso in esame sei “relazioni morali” di fine mandato di altrettante congregazioni, appare quanto sotto espresso.
«Hanno occhi ma non vedono …» (Sal 134)
Non vedono o fingono di non vedere :
– che si sta «facendo esercizio di semplice sopravvivenza […] assorbiti dall’arginare i problemi piuttosto che immaginare dei percorsi»;
– che «la ricca molteplicità delle diaconie esercitate negli ultimi decenni ha subito un ridimensionamento radicale a causa della evoluzione sociale, economica, politica scientifica e tecnologica»;
– che «le dinamiche imprenditoriali sempre più succubi di rituali, gerarchie e organigrammi, fanno perdere di vista la centralità della persona, con la conseguenza di ritrovarsi a essere un’agenzia sociale sempre più in affanno chiusa ideologicamente in se stessa»;
– che la dimensione istituzionale per la sua anacronistica fissità interessa molto poco i giovani, e che – com’è stato per i Fondatori – non si consacrano per tenere vivo il passato;
– che non è tempo di cercare «scorciatoie per sfuggire alle sfide che oggi bussano alle nostre porte», con «il rischio di sbagliare la direzione del cambiamento e ritrovarsi dopo enorme fatica con nuove strutture non adatte alla nuova stagione del carisma»;
– che «abituati al gusto del vino vecchio e rassicurati da modalità già sperimentate non si è realmente disponibili ad alcun cambiamento se non sostanzialmente irrilevante»;
– che «la stessa terminologia «superiori e sudditi non è più adeguata. Ciò che funzionava in un contesto istituzionale di tipo piramidale e autoritario non è più né desiderabile né vivibile nella sensibilità di comunione del nostro modo di sentirci e volerci Chiesa»;
– infine che «nessun cambiamento è possibile senza la rinuncia a schemi obsoleti».
Se non è un pezzo trasparente di realtà evangelica, non è vita consacrata
Per ovviare al pericolo di vanificare il progetto di Gesù, la vita religiosa deve incrementare l’impegno di dare al Vangelo nella sua essenzialità la pienezza di credibilità con l’impegnarsi maggiormente nell’edificare la casa dell’uomo delle beatitudini», nella consapevolezza che «lasciarsi inquietare e destabilizzare dagli incitamenti vivificanti dello Spirito non è mai indolore».
Quando questo non avviene, gli Istituti di vita consacrata perdono drammaticamente profezia e generatività, e «da custodi di un carisma si portano a diventare tombe di ciò che resta del primo evento profetico».
Tutto ciò è conseguente al fatto che quando viene a mancare il coraggio di rivedere consuetudini «non direttamente legate al nucleo del Vangelo», si fa forte e prevalente l’idea di «sistema» da salvare, che per sua natura è portato a dare maggiore attenzione all’istituzione che alle persone»; cioè alle dimensioni superficiali, con l’investire in queste «tutte le forze per mantenere in piedi la struttura, lasciando gli ideali sempre più sullo sfondo, dandoli troppo per scontati, […] lasciandosi così sfuggire la visione delle cose più belle». Ma l’ “adorare i visibilismi», fa sviluppare burocrazie che assorbono una grande quantità di energie. Invece «il vino nuovo esige la capacità di andare oltre i modelli ereditati, per apprezzare le novità suscitate dallo Spirito, accoglierle con gratitudine e custodirle fino alla piena fermentazione oltre la provvisorietà».
Ritornare alla fisionomia di Chiesa delineata da Cristo
Per molti secoli la Chiesa «istituzione» ha privilegiato l’elemento gerarchico-piramidale e clerocentrico, divisa in quelli che insegnavano (ecclesia docens), e in quelli che dovevano solo imparare (discens); vale a dire una Chiesa fatta di «rectores» e «moltitudo».
Ma non era questa la prospettiva in cui si era posto Cristo, non solo quando ha premesso alla «Cena» il servizio dello schiavo che lava i piedi indicando il suo gesto come paradigmatico, ma anche quando ha detto loro: «voi non fatevi chiamare rabbi, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli». Da qui la coraggiosa scelta evangelica del Concilio nel riportare il concetto di «governo» all’interno dei dati neotestamentari, i quali parlano, senza equivoci, di autorità come servizio, di diaconia, «passando così dalla centralità del ruolo dell’autorità alla centralità della dinamica della fraternità», al cui interno il compito dell’ autorità – come ebbe a dire p. Nicolas, generale emerito dei Gesuiti - si iscrive nell’insieme del processo di discernimento e non come agente esteriore. È questo ciò che serve a creare le condizioni per «fare casa», luogo naturale della crescita di ciascuno, «luogo di ogni inizio, di ogni nuova partenza, di ogni risveglio». Dove si genera futuro insieme, in accordo con il sogno di Dio.
Da qualche tempo sulle orme e impulsi di papa Francesco, la Congregazione della vita consacrata (CIVCSVA) con evidente parrésia, da tanto attesa, evidenzia – è questa una novità – che «oggi il servizio di autorità non è estraneo alla crisi in atto nella vita consacrata». Lo dice in questi termini: «Non può non preoccupare a oltre cinquant’anni dalla chiusura del Concilio la permanenza di prassi di governo che si allontanano e contraddicono lo spirito di servizio, fino a degenerare in forme di autoritarismo», il quale «va detto con chiarezza, lede la vitalità e la fedeltà dei consacrati». In queste espressioni c’è la presa d’atto della «tendenza a un accentramento verticistico nell’esercizio di autorità sia a livello locale che più in alto, scavalcando così la necessaria sussidiarietà», succubi – ebbe a dire il Papa – della «tentazione di gestire le persone per esercitare un dominio sulla situazione, che però non è in grado di rispettarla nella sua umanità». L’idea che nella vita religiosa debba esserci chi gestisce e chi è gestito è indicata nei termini di “superiore” e “suddito”, senza avvedersi che in tale rapporto evidentemente manca la base evangelica della fraternità». Questo tipo di relazione asimmetrica (superiore-suddito) ha negativamente contagiato il concetto di obbedienza ritenuta, specie se cieca, la forma alta di santità. Fino ai nostri giorni, l’ossequio a questo tipo di obbedienza ha portato a rispettare meno altri parametri quali, ad esempio, la coscienza, la ragione, la libertà: tutti termini considerati non virtuosi, mentre lo erano i termini sottomissione o «sudditanza, cosa che si riscontra purtroppo con frequenza», pensando di poter essere cristiani rinunciando in qualche misura a essere uomini e donne nell’integrezza di umanità. Oggi finalmente si è invitati a «superare l’esigere la mera esecuzione di obbedienze che non servono il Vangelo ma solo la necessità di mantenere la situazione in atto». Se vocazione dice scelta di avventurarsi nella propria «responsabilità di essere», allora non è cosa buona rinunciarvi.
Sono queste le basi su cui la vita religiosa del futuro avrà la possibilità per ogni uomo e donna di buona volontà di appropriarsi di quel felice esercizio della responsabilità e dunque della libertà realizzato da Gesù quale principio di uno stile di vita redento».
RINO COZZA csj