Ferrari Matteo
Scribi e farisei nella liturgia
2021/5, p. 23
C’è una conversione necessaria che dobbiamo compiere per uscire da schemi del passato che ancora, a quasi sessant’anni dal Vaticano II, continuano a condizionare la nostra lettura delle Scritture e il nostro atteggiamento nei confronti di Israele.

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Testimoni
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USCIRE DAGLI SCHEMI DEL PASSATO
Scribi e farisei nella liturgia
C’è una conversione necessaria che dobbiamo compiere per uscire da schemi del passato che ancora, a quasi sessant’anni dal Vaticano II, continuano a condizionare la nostra lettura delle Scritture e il nostro atteggiamento nei confronti di Israele.
Nel Messale Romano non troviamo mai un riferimento agli scribi e ai farisei nelle preghiere e nei testi liturgici in genere. Potremmo quindi affermare che il tema di cui ci stiamo occupando non riguardi per nulla la liturgia cattolica romana. Tuttavia, c’è un ambito nel quale queste due categorie di persone dell’ebraismo del tempo di Gesù, così spesso citate nei Vangeli, vengono abbondantemente menzionate. Si tratta del lezionario, cioè del libro che contiene le letture bibliche per la celebrazione dell’Eucaristia. Nella liturgia della Parola scribi e farisei compaiono spesso nelle pericopi bibliche scelte per la celebrazione. Di fronte alla presenza di questi interlocutori di Gesù nei Vangeli, che cosa possiamo dire dal punto di vista della liturgia? Certo dal punto di vista strettamente biblico ci sono anche altre possibili risposte, ma dal punto di vista liturgico – cioè da come questi passi evangelici compaiono nella liturgia – possiamo fare alcune considerazioni.
Un pericolo
Quando noi incontriamo queste figure nella liturgia corriamo il pericolo di leggerle in modo distorto. Nei Vangeli scribi e farisei generalmente non sono rappresentanti di categorie «negative» in sé, ma, paradossalmente «positive». Infatti, farisei e scribi sono i rappresentanti delle correnti più religiose, osservanti e stimate dell’epoca di Gesù. I Vangeli li scelgono proprio per questo. Inoltre, probabilmente i farisei erano la corrente più vicina all’insegnamento stesso di Gesù e alle prime comunità cristiane, che si consideravano ancora pienamente appartenenti al giudaismo. Gesù condivide tanti aspetti del suo messaggio con la corrente farisaica. Gesù e gli evangelisti prendono in considerazioni «i migliori», per mettere in guardia tutti dalla possibilità di non essere coerenti. Ma questo non deve portare a pensare che tutti i farisei fossero incoerenti con la loro fede e ipocriti. Se i Vangeli fossero scritti ai nostri giorni, verrebbero presi di mira «i religiosi» di oggi, non per dire che tutti gli uomini e le donne religiosi sono «ipocriti», ma per affermare che l’ipocrisia è una «malattia» che può colpire tutti, perfino quelli che si considerano dei modelli.
Nelle letture del lezionario liturgico il rischio della contrapposizione è presente, ma nella stessa liturgia ci sono anche gli «anticorpi» per vincere il virus di una lettura sterile da una parte e dannosa dall’altra. Prendiamo in considerazione un esempio, la liturgia della Parola della XXVII Domenica del Tempo ordinario dell’anno A. Qui non si parla espressamente di farisei, ma di capi del popolo. In questa domenica la liturgia propone la parabola detta «dei vignaioli omicidi» secondo il Vangelo di Matteo (Mt 21,33-43). Ad una prima e superficiale lettura la parabola potrebbe essere letta in chiave di «teologia della sostituzione». Soprattutto a partire dall’ultima frase del brano evangelico, si potrebbe pensare che Gesù volesse parlare di una sostituzione di Israele come «popolo dell’alleanza» in favore della Chiesa: «a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato ad un popolo che ne produca i frutti». Purtroppo, nella catechesi e nella predicazione, ancora troppo spesso si sente leggere in questo senso la parabola di Gesù nel Vangelo di Matteo, così come tanti altri testi evangelici nei quali ci si trova nella medesima situazione di confronto con altri esponenti del giudaismo del tempo di Gesù, in particolare scribi e farisei.
Tuttavia, non è probabilmente questo il senso del testo evangelico. Infatti, innanzitutto il brano evangelico dichiara apertamente di non essere rivolto a tutto il popolo, ma in particolare «ai capi e agli anziani del popolo». Quindi non tutto il popolo e non tutti i capi sono coinvolti nelle parole di Gesù: «la vigna, che è il popolo eletto, non è incendiata o devastata come la città di cui si parla nella parabola seguente (cfr. 22,7), ma anzi è pronta per dare ancora frutti buoni». Si potrebbe approfondire ancora, a partire dal testo evangelico, il messaggio di questo brano, contro ogni possibile interpretazione in chiave di «teologia della sostituzione». Tuttavia ci concentreremo qui sugli strumenti che ci offre la liturgia per interpretarlo.
L’interpretazione nel contesto liturgico
Al di là dell’interpretazione del testo che possiamo ricavare dal contesto biblico del brano evangelico, è la liturgia stessa ad offrirci delle chiavi di lettura, che, se le sappiamo cogliere, ci guidano ad una comprensione differente da quella che spesso viene data per scontata. Per fare questo passo occorre prendere in considerazione il testo della prima lettura che viene affiancato al brano evangelico.
Nella XXVII Domenica del Tempo ordinario dell’anno A, che abbiamo preso in considerazione, la prima lettura è costituita dal canto della vigna che troviamo nel libro del profeta Isaia (Is 5,1-7). Il testo del Primo Testamento sembra essere ben più duro di quello di Matteo. Se in Matteo, infatti, non si parla di devastazione della vigna, ma solo si condanna il comportamento dei contadini e quindi dei capi, in Isaia invece l’oracolo profetico di condanna si rivolge direttamente alla vigna: «ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare della mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo…». Tuttavia, dobbiamo tener presente che siamo in un oracolo profetico. Non si tratta quindi di una condanna senza appello di Dio nei confronti della sua vigna amata, né tanto meno di un suo ripudio, bensì di un accorato appello alla conversione. Il testo di Isaia è «un canto d’amore»: «voglio cantare per il mio diletto il mio canto d’amore per la sua vigna» (Is 5,1). Non è quindi una condanna ma l’invito rivolto al popolo perché rimanga fedele all’alleanza con quel Dio che lo ha amato e si è preso premurosamente cura di lui.
In questa prospettiva la liturgia ci invita a leggere anche il brano evangelico. Infatti, nella liturgia la prima lettura ha proprio questa funzione in rapporto al Vangelo: quella di guidare alla sua lettura e interpretazione. Nel contesto liturgico le pericopi del Primo e del Nuovo testamento sono come «in dialogo» tra di loro e si illuminano vicendevolmente. In questa prospettiva anche il testo evangelico è un invito alla conversione: un appello e non una condanna, che, letto nella liturgia, si rivolge oggi a coloro che stanno celebrando, quindi ai cristiani.
Questa lettura è espressamente indicata anche dai documenti che parlano del rapporto tra le letture nella liturgia (Ordinamento Generale del Messale Romano, Ordo Lectionum Missae). I criteri che sottostanno all’accostamento delle letture bibliche e alla loro scelta sono principalmente tre: la lettura continua, la concordanza tematica e l’unitarietà della storia della salvezza. La lettura continua riguarda, nel Tempo ordinario, la scelta del Vangelo: nella scansione triennale si leggono in lettura semicontinua i tre Vangeli sinottici. Invece la scelta della prima lettura segue il criterio della concordanza tematica e dell’unitarietà della storia della salvezza. Non è quindi possibile una lettura in una logica di contrapposizione o di conflittualità tra il brano del Primo e quello del Nuovo Testamento. Il rapporto tra prima lettura e Vangelo è nella linea di una illuminazione vicendevole e di mostrare la fedeltà di Dio che non viene mai meno. Nell’Ordinamento Generale del Messale romano si afferma che nell’ordine delle letture bibliche viene messa in luce «l’unità dei due Testamenti» (OGMR 57). Le letture bibliche nella liturgia, quindi, non possono mai essere lette nella prospettiva di un Dio che rinnega, ma sempre come rivelazione di un Dio fedele che non viene mai meno ai suoi doni e alle sue promesse (cf. Rm 11,29). Se i cristiani annunciano un Dio che rinnega il suo popolo, contraddicono radicalmente il messaggio di Gesù.
Una conversione necessaria
Il criterio di lettura, visto in modo esemplare nella XXVII Domenica del Tempo ordinario dell’anno A, può essere applicato a tutti i testi evangelici che troviamo nella liturgia della Parola. Il contesto liturgico ci guida nella lettura dei testi, perché essi possano risuonare in modo più ricco e profondo. Infatti, una lettura contrappositiva, oltre che sbagliata, è anche sterile e poco feconda. Mentre il dialogo positivo tra i testi biblici fa risuonare la Parola del Signore in tutta la sua forza.
C’è una conversione necessaria che dobbiamo compiere per uscire da schemi del passato che ancora, a quasi sessant’anni dal Vaticano II, continuano a condizionare la nostra lettura delle Scritture e il nostro atteggiamento nei confronti di Israele. Una piccola conversione è avvenuta nella Terza edizione italiana del Messale Romano uscita nel 2020. Nella edizione precedente trovavamo tra i testi proposti dall’edizione italiana questa preghiera: «O Dio, tu non privasti mai il tuo popolo della voce dei profeti; effondi il tuo Spirito sul nuovo Israele, perché ogni uomo sia ricco del tuo dono, e a tutti i popoli della terra siano annunziate le meraviglie del tuo amore» (XXVI Domenica del Tempo ordinario – B). Nella terza edizione del Messale l’espressione «nuovo Israele», che rimanda ad una teologia della sostituzione, è stata eliminata e ora la preghiera suona così: «O Dio, che in ogni tempo hai parlato al tuo popolo per bocca dei profeti, effondi il tuo Spirito, perché ogni uomo sia ricco del tuo dono, e a tutti i popoli della terra siano annunciate le meraviglie del tuo amore». Un piccolo, ma significativo passo verso quella «conversione del linguaggio» necessaria, non solo per il dialogo con l’ebraismo, ma per una più profonda comprensione della nostra fede cristiana.
MATTEO FERRARI
monaco di Camaldoli