Semeraro Michael Davide
Provare con semplicità
2021/5, p. 15
Ciò che è urgente e salutare è uscire dall’identificazione della forma conosciuta e tramandata per secoli non prima di tutto in termini di osservanza, ma di atteggiamento psico-spirituale.

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LA PREGHIERA NOTTURNA COMUNITARIA (2)
Provare con semplicità
Ciò che è urgente e salutare è uscire dall’identificazione della forma conosciuta e tramandata per secoli non prima di tutto in termini di osservanza, ma di atteggiamento psico-spirituale.
In questi decenni, che ormai ci separano dal Concilio Vaticano II, abbiamo molto lavorato sui ritmi e le forme della nostra vita monastica, soprattutto circa il nostro modo di pregare. Di certo abbiamo guadagnato in libertà e semplicità, ma forse ci sono ancora dei passi da compiere per passare da un modo di pensare alla Liturgia come “dovere” e come “sacrificio”, a ripensarla come base e orizzonte per sostenere e far progredire il cammino personale di ciascun monaco, in profonda comunione con i suoi fratelli impegnati nel medesimo combattimento, perché animati da un analogo desiderio mai identico. Nella vita di San Benedetto, scritta da Gregorio Magno, proprio verso la fine e al sommo grado della sua ascensione spirituale, troviamo questa nota: “Mentre i discepoli stavano ancora riposando, l’uomo di Dio, Benedetto, si era alzato e vegliava anticipando il tempo della preghiera notturna”. Troviamo certo in questa nota l’eco di ciò che alcune regole monastiche prescrivono per l’abate chiamato a precedere e quasi a preparare la preghiera dei fratelli. Nondimeno, superando l’impianto eroico-mitologico della vita monastica, possiamo trovare un riferimento alla necessità di tenere presenti le diverse sensibilità e possibilità non più nella linea del “precetto” e della “dispensa”, ma in quello del necessario e augurabile cammino personale.
In particolare, questo riguarda gli anziani dei nostri monasteri i quali si sentono o gratificati dal fatto di “non mancare mai a nessun Ufficio” o, più sovente, mortificati per il fatto di non avere più le forze per essere sempre presenti in coro. Vi è una nota “inconfessabile” che forse andrebbe sdoganata: si potrebbe legittimamente e comprensibilmente non solo non avere più le forze per essere presenti a tutti gli Uffici, e in particolare a quello delle Vigilie, si potrebbe anche semplicemente non averne voglia! Naturalmente il fatto che un monaco non partecipi alle Vigilie, perché non ne ha voglia, può scandalizzare. In realtà, a ben pensare, è molto strano che nella parabola di una vita monastica, che talora supera abbondantemente il mezzo secolo, si debba vivere lo stesso ritmo e la stessa forma di preghiera. Forse per alcuni e, in particolare, per gli anziani, la presenza in coro può essere un aiuto per la preghiera, ma talora si può anche sentire il bisogno di passare più tempo in cella o nella natura senza per questo avere bisogno di essere più o meno malati.
In conclusione, si potrebbe ben dire che il tema delle Vigilie può diventare un simbolo di una necessaria rivisitazione del nostro modo di sentire e di vivere la preghiera nei nostri monasteri. Ciò che è urgente e salutare è uscire dall’identificazione della forma conosciuta e tramandata per secoli non prima di tutto in termini di osservanza, ma di atteggiamento psico-spirituale. Siamo usciti ormai da una mentalità corporativista di impianto antico-medievale in cui ciò che è buono e doveroso lo è perché si impone a tutti ed è praticato da tutti. Nel nostro modo squisitamente personalista di porci davanti a tutte le espressioni di “gruppo”, l’elemento di ciò che è realmente percepito e vissuto dal singolo monaco dovrebbe diventare argomento dal confronto fraterno e di adattamento istituzionale. Ciò che Benedetto dice circa il mangiare e il bere, sempre uniti all’impegno irrinunciabile dell’astinenza e del digiuno, vale anche per il sonno e la veglia. Un testo monastico trasversale lo dice in modo chiaro e semplice:
Non è facile sapere quanto tempo ad un uomo sia necessario dormire per mantenersi in salute, in forze e per essere sempre in grado di lavorare; non lo si può decidere senza prendere in considerazione le varie circostanze e la sua costituzione ereditaria. Ma il sonno può lasciare spazio ad ampie variazioni e la disciplina e l’abitudine possono fare molto per ridurlo nei suoi limiti essenziali. Forse è questo uno dei motivi per cui il Buddha e molti altri grandi maestri spirituali denunciano severamente chi è indulgente al sonno. Tuttavia, da un altro punto di vista, il sonno è segno di pace e di serenità d’animo; quelli che sono sempre svegli e si voltano in giro con sguardo irrequieto o coloro che sussultano ad ogni piccolo incidente o disavventura della vita, e sono incapaci di addormentarsi perché hanno i nervi scossi, costoro sono persone il cui spirito è in qualche modo inadeguato al ritmo generale dell’universo.
Una vita notturna da ritrovare
Una riflessione sul posto delle Vigilie nella vita monastica odierna non può significare la negazione di un elemento costitutivo della vita monastica: la sua valenza notturna e il suo mistero di vigilanza, prima ancora del suo ministero di intercessione. Il rischio è che nei monasteri, non certo dappertutto, il bisogno di salvaguardare la celebrazione corale quotidiana delle Vigilie faccia perdere a questo momento il suo carattere notturno. In questo modo si rischia di salvare l’osservanza di una parte liturgica a scapito di un impianto spirituale proprio alla tradizione e alla trasmissione monastica. I monaci della nostra generazione dovrebbero poter ripetere la professione di Rainer Maria Rilke: “Credo alle notti!”.
Il giorno e la notte
La giornata del monaco si divide in due parti chiaramente distinte: il giorno e la notte! Una distinzione che urta con la negazione della modernità nei confronti della specificità della notte. Bisogna mantenere una certa vigilanza critica nei confronti di semplici spiegazioni socio-culturali in base alle quali la soluzione prospettata dalle tradizioni monastiche sia semplicemente lo specchio di una situazione contingente dei tempi in cui non c’era energia elettrica, con tutto ciò che vi può essere collegato, senza peraltro negare questa differenza. Siamo di fronte a qualcosa di molto profondo e importante in questo modo di organizzare la vita tra giorno e notte. Per i monaci c’è una distinzione netta tra ciò che avviene di giorno e ciò che avviene di notte. La notte viene consegnata ad un silenzio assoluto, amato e custodito; il giorno invece alla cura di una taciturnità aperta e tesa comunque al continuo possibile incontro con l’altro. La giornata del monaco si trova così ad essere divisa: il giorno come tempo della relazione ai fratelli e al mondo e la notte come tempo di relazione privilegiata con Dio. Basti pensare all’attitudine di Gesù attestata nei Vangeli (Lc 6, 12) e di Benedetto che viene descritto sulla torre nella notte della sua grande visione.
Pare dunque che la notte sia il momento privilegiato per aprirsi e condividere la vita nel suo livello più alto e più profondo, quello più interiore e basilare. Fondamentalmente la giornata monastica segue il corso del sole per cui scema lentamente ritornando a quella quiete assoluta. Da questa quiete operosa i monaci emergono nelle lunghe ore del mattino che sono dedicate alla preghiera e alla lettura dei testi sacri. Gradualmente e non pigramente essi si aprono al lavoro e alle varie attività. In senso inverso mentre il sole declina il monaco viene richiamato a dedicarsi a occupazioni sempre più concentranti: non nel senso della concentrazione mentale del mattino, bensì di una concentrazione sull’abbandono quindi di de-centrazione e suc-centrazione. Il monaco, al mattino, è invitato ad aprirsi lentamente alle occupazioni del giorno e, alla sera, a ritirarsi gradualmente e serenamente in se stesso come un fiore.
Se vi sono due pasti, i fratelli, appena si alzano dalla cena, si radunino ancora e siedano tutti insieme per ascoltare la lettura delle Conferenze o delle Vite dei Padri o qualche altro testo che edifichi gli uditori. Non si leggano però i primi sette libri della Bibbia o i libri dei Re, perché ascoltare queste parti della Scrittura nelle ore serali non gioverebbe a chi fosse un po’ debole di mente e facile al turbamento… Quando tutti saranno riuniti, si celebri Compieta e, usciti da Compieta, nessuno più si permetta di parlare a un altro.
Il messaggio spirituale non è solo quello di non parlare chiudendo così le porte agli altri, ma è ben più profondo, in quanto significa – nei limiti del possibile – evitare ogni cosa che venga dall’esterno per concentrarsi su quello che viene dall’interno. La notte è il momento della rigenerazione delle nostre forze – fisiche e spirituali – per cui essa, in un orizzonte genuinamente spirituale, non è semplicemente e primariamente il riposo dal giorno che sta finendo, ma è la preparazione al giorno che verrà. In questo senso la notte – sia che vegliamo sia che dormiamo (cfr. 1Ts 5, 10) – è in funzione del tempo che verrà e non di quello trascorso. Essa è capace di ricreare le condizioni di una vera risurrezione e ricreazione per il giorno che viene. La “vita notturna” del monaco è fondamentale quanto lo è, in modo assai diverso, per gli altri uomini e donne. Ciò che il monaco vive nella notte è una sorta di “chiusa” a tutto ciò che di negativo è passato nella nostra giornata che va rimesso in modo completo e assoluto nelle mani di Dio. Non bisogna conservarne nulla per il giorno dopo, così come è prescritto per l’agnello pasquale (Es 12, 10) e per la manna (Es 16, 19).
Un ritmo per vivere
Una struttura naturale come l’alternanza del giorno e della notte può divenire l’alveo ordinario e continuativo in cui ciascun monaco può con tutta pace inserirsi ed essere giorno dopo giorno forgiato nella propria vocazione sempre più “schiusa” al compimento del mistero della persona e del discepolo. La sfida è di trovare e ritrovare continuamente un ritmo per vivere, insieme e personalmente, per non cadere nel rischio di vivere per il ritmo da perpetuare. Così il sonno del corpo non è solo un riposo materiale, ma è pure un’occasione di riposo spirituale. La capacità del monaco di entrare nel mistero della notte, con il particolare silenzio che la caratterizza, è una prova di maturità spirituale di cui è prova uno spiccato amore della solitudine amata e coltivata. Dopo il giorno, in cui siamo chiamati ad una grande mobilità e disponibilità, ecco che la notte porta con sé la quiete, l’invito a placare tutto il turbinio della vita quotidiana per essere rimandati alla propria solitudine, alla propria cella, alla propria intimità solitaria.
Il momento, che per gli sposi rappresenta il tempo della comunione e dell’intimità, è per il monaco il momento solenne della solitudine per l’incontro con lo Sposo dell’anima: momento quindi che può essere alternativamente di tentazione o di fruizione. Ma è qui ed ora che siamo noi stessi o non più o non ancora noi stessi. Il silenzio-solitudine della notte è così il tempo privilegiato, indicativo, dimostrativo del nostro reale stato spirituale. In questa capacità di distacco si spera che il silenzio della notte sia in grado di rigenerarci fino a trasformare le battaglie e i turbamenti di oggi in occasioni rinnovate di carità e di gioia per domani: distaccarsi, svuotarsi per far rinascere, attraverso la notte e grazie alla notte, la speranza di accogliere la vita come una promessa in cui si invera il futuro di Dio cui ci prepariamo attraversando le nostre notti e vivendo i nostri giorni.
Per concludere, possiamo dire che la vita del monaco è una vita che tende alla notte riconosciuta e quasi venerata come il seno da cui fiorisce il giorno. Per vocazione o forse già per natura, i monaci sono vigilanti come sentinelle: tutta la vita monastica tende alla notte, propende al silenzio. Benedetto nella sua maturità non abita coi fratelli, ma sulla torre e nel piano più alto di essa. La nota operosità del monaco è regolata sulla finalità e direttamente ordinata a farlo entrare nella notte mistica dell’incontro sponsale con Dio.
Il parametro della vita monastica non è prima di tutto quello che si fa di giorno, ma ciò che si vive nella notte. Così tutta la vita “diurna” assume una qualità divina che si irradia nelle attività consuete della giornata. Il monaco, specialmente i monaci di oggi, apprende a vivere la notte imparando a vivere l’abbandono e il silenzio per cui ciò che viene compiuto non avrà più nessuna parvenza di strapotere. I monaci di Benedetto vivono il giorno per avere una notte tranquilla… le notti del tempo presente e la vita eterna, cercando di entrare sin d’ora in “quel riposo” (Eb 4, 11), aurora del Grande Sabato che dovrebbe essere tutta la vita monastica. Dopo una lunga giornata di lavoro e di attenzione è necessario vivere il riposo e gustare la pace propria di chi ha saputo lottare per trasformare i propri sogni in segni del Regno che viene non solo in mezzo a noi, ma dentro di noi.
Un ripensamento della pratica liturgica della celebrazione delle Vigilie nei nostri monasteri, non può assolutamente essere confusa con una decadenza dell’osservanza o un comodo cedere alla pigrizia spirituale. Al contrario potrebbe essere l’occasione per riqualificare il nostro monastico aspetto di “animali notturni” in modo più adeguato alle nostre comunità e ai singoli fratelli e sorelle. In tal modo la riqualificazione delle notti monastiche potrebbe essere un piccolo spunto per ridare vigore e profondità alla nostra esperienza monastica, proprio come la preghiera notturna è stata per i nostri padri e madri nella vita monastica. Possiamo accogliere e trasmettere la nostra tradizione senza necessariamente accontentarci di continuare a fare come abbiamo sempre fatto. Passare da un ritmo vitale principalmente quotidiano, in cui tutto deve essere fatto ogni giorno e tutti i giorni, ad uno più ebdomadario può rendere la vita monastica meno frenetica. Il fatto di correre tra una preghiera e l’altra non è meno frenetico di quanto talora critichiamo nella vita degli altri. Riposizionare le Vigilie a un ritmo non più quotidiano potrebbe essere il primo passo per un ripensamento anche della celebrazione quotidiana dell’Eucaristia nei monasteri così come si è reso necessario durante la pandemia.
Come monaci e monache del terzo millennio abbiamo voglia forse di ripensarci per prendere le misure della nostra fedeltà, nella libertà e con responsabilità.
fratel MichaelDavide, osb
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