Sarò dove tu non sei
2021/4, p. 42
Il problema è che ci ostiniamo a proporre di trovare il Signore, esattamente là dove egli non è. E siamo talmente impegnati in questa impresa che non ci accorgiamo
che i primi a mancarlo siamo proprio noi.
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Testimoni
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La Chiesa nello spazio pubblico
Sarò dove tu non sei
Il problema è che ci ostiniamo a proporre di trovare il Signore, esattamente là dove egli non è. E siamo talmente impegnati in questa impresa che non ci accorgiamo che i primi a mancarlo siamo proprio noi.
È fuori di sé (cf. Mc 3,21) – con l’ironia tipica del Vangelo anche i sospetti più perversi nei confronti di Gesù dicono una verità su di lui. Fare spazio alla presenza di Dio, far coincidere i propri gesti con il desiderio che egli ha verso ogni uomo e ogni donna, significa non avere più uno spazio per sé. Rispetto a se stesso, Gesù è davvero senza luogo proprio. Pensare di costruirgliene uno per ricondurlo debitamente dentro un perimetro accomodante, governabile, identificabile, è la tentazione di sempre della Chiesa. La comunità dei suoi discepoli e delle sue discepole, nell’arco bimillenario della sua storia, vive di un costante imbarazzo davanti a questa verità portata a galla da una voce malevola verso il suo Signore.
È la tentazione di sempre dei suoi – siano essi la famiglia di sangue o quella convocata alla sequela di lui. Appropriarsi di Gesù per farlo tornare, finalmente, in se stesso. Ed essere noi i detentori delle chiavi che dischiudono al mondo la possibilità di accedere all’incontro con lui. Davanti a questo tentativo di appropriazione, Gesù rimane sempre fuori di sé; e, quindi, fuori dalle reti che gettiamo per catturare la destinazione del suo vissuto come libera circolazione della Parola che Dio rivolge all’umanità – tutta intera, senza esclusioni o pregiudiziali. Forse è per questo che nel nostro tempo, in cui il cristianesimo è passato da essere una convenzione sociale a una possibilità fra le molte rispetto alla quale ognuno si deve decidere, le reti pastorali della Chiesa e dell’annuncio rimangono miseramente vuote.
Cercatemi dove non sono
Il problema è che ci ostiniamo a proporre di trovare il Signore, qui bello compresso tra di noi, esattamente là dove egli non è. E siamo talmente impegnati in questa impresa che non ci accorgiamo che i primi a mancarlo siamo proprio noi – i suoi di oggi, del cattolicesimo ecclesiale del XXI secolo. Ma la sapienza di Dio, con tutta la sua ironia, sta proteggendo benignamente l’umanità occidentale dal farsi avvincere da questo abbaglio – lasciando sempre più deserte le nostre assemblee di ogni tipo. D’altronde, andrebbe contro i suoi interessi convocare uomini e donne, vecchi e bambini, ragazze e ragazzi là dove egli non è. Così li lascia muovere, vivere, respirare, in un mondo e un tempo dove i segni sicuri del suo congedo sono già quelli che annunciano la sua instancabile presenza nel nostro mondo e nella nostra storia.
Di un ritorno nostalgico del sacro religioso, come di un rilancio secolare del cristianesimo a condimento di progetti politici per i quali il Vangelo è dichiaratamente irrilevante, il Dio di Gesù non sa proprio cosa farsene. Anzi, gli danno anche un po’ di fastidio. Basta non farsi trovare lì e per lui le cose sono a posto. Già per lui, ma non per noi – che continuiamo a scambiare il reticolo gettato intorno all’ombra della sua presenza con la luce calorosa della sua effettiva dimora. Ed ecco che diamo scandalo al mondo, e mortifichiamo il respiro della notizia evangelica, combattendo fra noi una guerra tribale senza pudore e senza decenza per accaparrarci un’esclusiva assoluta su una Parola che non sarà mai nostra.
Non da oggi, a dire il vero – già Paolo si era accorto della perversità che abita il tentativo di scambiare la nostra appartenenza con l’unica verità possibile del Vangelo di Dio: “Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: ‘Io sono di Paolo’, ‘Io invece sono di Apollo’, ‘Io invece di Cefa’, ‘E io di Cristo’. È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?” (1Cor 1,11-13). Proprio come allora, anche oggi tutto quello che sta intorno a questa faida comunitaria non ha nulla a che fare con il cristianesimo (allora nascente e oggi quantomeno in declino). Nel mezzo stanno duemila anni di storia che ci hanno illuso: abbiamo scambiato un modo di essere del cristianesimo occidentale e della Chiesa romana con l’essere del cristianesimo e della Chiesa universale.
Ci siamo raccontati una storia e abbiamo disimparato a vivere nella storia degli uomini e delle donne. E così non riusciamo più neanche a leggere la storia della Chiesa nell’Occidente europeo, che di quest’ultimo è stata una delle forze propulsive maggiori durante tutta la modernità. Dell’Occidente europeo così come esso è oggi: secolare, pluralista, democratico, e molto distante dalle Chiese (perché anche quelle nate dalla Riforma, per natura, che è poi una ragione storica anch’essa, più osmotiche a tutto ciò che Chiesa non è, non è che se la passino poi tanto meglio della vetusta Chiesa cattolica). Più che stare sulle spalle di giganti, la Chiesa cattolica occidentale sembra oggi stare sulle spalle di Freud: spostando costantemente le ragioni della sua irrilevanza da quel noi sempre più esiguo e striminzito a tutto quello che non è noi della nostra società secolare, che si è scrollata di dosso ogni tutela ecclesiastica come legittimazione necessaria del proprio essere.
L’opposizione salvifica del secolare
Senza accorgersi che il non-luogo della secolarizzazione occidentale rappresenta l’approssimazione propria del nostro tempo all’essere fuori di sé del Dio di Gesù. Non ce ne accorgiamo perché sul Vangelo la Chiesa ha lasciato “depositare secoli di polvere” (Pasolini), che dovremmo scuotere dai nostri calzari anziché scambiarla come ciò che ci tiene in contatto con la storia di Gesù. Stiamo raccogliendo polvere e accatastandola negli immensi archivi ecclesiali quasi come se fosse la perla preziosa di cui parla il Vangelo. Senza neanche essere disponibili a vendere un orticello però, lasciamo perdere poi tutto il campo. E ci ostiniamo a pensare che sia tutta colpa del mondo là fuori – il che fa nascere spontanea la domanda “ma dove pensiamo poi di vivere noi?”. Il dramma è che a questa non domanda c’è una risposta assolutamente plausibile: in un universo parallelo, in una fantasia delirante, in una rappresentazione totalmente artificiale della realtà. Senza averne la benché minima consapevolezza, la Chiesa cattolica è oggi uno dei reality shows meglio riusciti sul mercato mediatico (altro che Il grande fratello o L’isola dei famosi).
Non manca giorno in cui non ostentiamo davanti al grande pubblico i panni sporchi di casa – accondiscendendo alla bramosia scandalistica della comunicazione di massa e al voyeurismo sfrenato della trasparenza totale. Siamo così impegnati sulla scena dello spettacolo che non riusciamo più a raccapezzarci della nostra storia secolare – per cercare qui, e non altrove, le ragioni della condizione odierna del cattolicesimo. Tra l’altro, se così facessimo, scopriremmo che tra il qui ecclesiale e l’altrove mondano-secolare non è poi così facile distinguere, anzi. Scopriremmo che l’altrove non solo abita fin dalle origini il cristianesimo e la comunità istituita della sequela del Signore, ma che esso ha un che di salutare, potremmo dire addirittura di salvifico, per il qui ecclesiale. Inoltre, questo è l’unico modo per poter pronunciare davanti a Dio, con decenza e non a nostra condanna, quell’extra ecclesia nulla salus che abbiamo maneggiato per secoli come un’arma di dominio totale sulla vita globale dell’umanità.
Non perché tutto quello che non è Chiesa ricade comunque sotto la sua sfera, o è ad essa ordinato come dice il linguaggio colto della teologia per togliersi oggi dall’imbarazzo di una frase che vorremmo non fosse mai stata scolpita in lettere di pietra. Versione aggiornata e politicamente corretta di un desiderio di potenza che colonizza ogni angolo del vissuto umano. Ma perché la Chiesa di Gesù è per sua natura come il suo Signore: fuori di sé. Solo qui essa trova la sua salvezza e, quindi, la ragione del suo esistere come un modo di essere al mondo insieme a molti altri. La comunità dei discepoli e delle discepole del Signore è originariamente non elettiva – e quindi non selettiva; ma ce lo siamo scordati ben presto che in essa c’è posto per tutti, ma non è necessario che ci siano tutti.
Il Vangelo custodisce a nostra perenne memoria che tanti che non sono dei nostri fanno circolare la Parola in modi di cui noi non saremo mai capaci, in modi che non competono a noi perché per altro siamo stati convocati nella comunità stabile di coloro che seguono Gesù e sono introdotti quotidianamente all’intimità famigliare con il suo Dio. Il Vangelo è disseminato di figure che emergono dal saeculum, che abitano nella polis, e dopo un attimo fugace lì fanno ritorno perdendovisi per sempre. Eppure, la loro memoria è impressa a lettere indelebili nell’affetto più caro della comunità dei discepoli e delle discepole di Gesù: quello che il Signore chiede di custodire a ogni costo – anche quello di sentirci relativizzati perché non siamo i soli.
La tunica senza cuciture
Il Vangelo è la tunica senza cuciture intessuta dalla stabilità della sequela e dalla fugacità dell’incontro – mai l’una senza l’altra. Né l’una né l’altra possono realizzare da sé il legame che Gesù desidera disseminare tra gli uomini e le donne di ogni tempo come l’essere fra noi del suo Dio. Fin dal principio, fin dai primi giorni del ministero pubblico di Gesù, si afferma l’irrinunciabilità di questo principio: che è una tensione che non può e non deve essere risolta da nessuno dei due lati – pena mancare non solo la destinazione della comunità discepolare, ma anche quella della prossimità di Dio che non si lascia rinchiudere da nessuna parte. In questa sua origine bipolare, proprio come il suo Signore che è fuori di sé, la Chiesa si edifica intorno alla tensione fra forza istituente (stabilità) e forza costituente (fugacità), fra durata (istituzione) e momento evenemenziale (fede).
La Chiesa è la permanente non risoluzione di questa tensione fra forze che collidono e divergono tra loro, senza mai potersi riposare l’una nell’altra – perché quando questo succede, o immaginiamo che possa succedere, la Chiesa si trasforma nella più bieca istituzione totale possibile oppure nella follia più assurda che è ben altro dalla stoltezza di Dio di cui parla Paolo. La Chiesa danza nei secoli sul crinale abissale tra carcere e manicomio, tra l’ossessione del controllo assoluto e quella della disinibizione senza freni. Basta guardare alla sua storia. La Chiesa sta o cade con l’equilibrismo di stare con un piede in due scarpe al tempo stesso, di tenere come ragione originante la stabilità istituzionale e la fugacità credente. Necessariamente schizofrenica, perché chiamata a vivere in due tempi irriconciliabili tra loro: quello del deposito cronologico e quello dell’urgenza messianica; quello che attraversa i secoli come ordinamento e quello che coglie l’irruzione di Dio nel secolo presente che revoca la validità di ogni ordinamento presente (anche quello della Chiesa stessa).
Solo se cerca se stessa nel saeculum e nelle urgenze che in esso si annunciano, che non le appartiene ma che abita fin dalle sue origini, la Chiesa come istituzione può attingere alla forza messianica che la costituisce; e quindi sussistere legittimamente anche come istituzione della fede pur senza essere mai la fede. La Chiesa, in quest’ottica, non è né un paradosso né l’armonia unitaria delle differenze, ma è il mantenimento di un’opposizione tensionale che non può essere risolta in alcun modo – è, appunto, disarmonia perché si costituisce altrove rispetto al suo istituirsi come comunità stabile della sequela del Signore.
La vita religiosa
Nella storia del cattolicesimo europeo vi è un modo di vita cristiana che ha cercato, e cerca ancora oggi, di essere la declinazione non separata di queste due forze opposte che edificano l’ecclesialità della fede – si tratta della vita religiosa (dai primi ordini mendicanti alle congregazioni nate tra inizio e fine della modernità). La vita religiosa si accende sicuramente come risposta all’urgenza messianica che si iscrive in un ben determinato momento storico della vita della Chiesa in un preciso contesto culturale e sociale. Il carisma è, al tempo stesso, accoglienza di un’urgenza che si annuncia altrove rispetto alla Chiesa in quanto istituzione, e processo di istituzionalizzazione di questo momento come condivisione della sua urgenza oltre la pura esperienza personale della fede. In quanto tale, è proprio il carisma, in tutta la sua singolarità evenemenziale, che istruisce l’incorporazione di una declinazione particolare della vita religiosa alla Chiesa come istituzione.
Il carisma condiviso è, quindi, il momento di massima approssimazione della vita religiosa come risposta della fede a un’urgenza contingente del tempo alla istituzione della Chiesa. Ed è proprio per questo che esso entra in tensione con la dimensione istituzionale della comunità ecclesiale: perché inocula in essa, istituendosi come una particolare esperienza stabile della fede, l’urgenza messianica del tempo necessariamente contingente e fugace. Il carisma da sé è tutt’altro da un’opposizione sistemica alla istituzione Chiesa; se esso appare funzionare in tal modo è solo perché, istituendosi, esso fa transitare nella durata cronologica della fede istituzionalizzata la frattura messianica del tempo storico – di ogni tempo storico.
Mostrando così che l’altrove del secolo presente costituisce sempre di nuovo il tratto istituzionale della Chiesa; ed è proprio per questa ragione che l’istituzione cerca di ricondurre alla sua logica interna il carisma che reagisce all’urgenza del tempo come questione in cui ne va della possibilità stessa di una durata effettiva e reale – e non solo fittizia e immaginata (ossia che la Chiesa sia effettivamente istituzione della fede che essa non è). A questa pretesa istituzionale, nel suo desiderio di totalità e potenza, la vita religiosa si è sempre opposta – e non potrebbe fare altro, perché perderebbe la sua stessa ragion d’essere (che è squisitamente storica e, proprio per questo e solo per questo, teologica).
Il diritto canonico: tra giurisprudenza e codice
Se questo modo di funzionare della vita religiosa, come tentativo di istruire il nesso (sempre provvisorio, non per niente i carismi si estinguono quando hanno finito di fare il loro lavoro) fra stabilità istituzionale e fugacità messianica del tempo, traspare chiaramente in un qualche modo dalla sua vicenda storica, può invece sorprendere che l’altro grande luogo che ha cercato di approssimare storicamente questa opposizione tensionale, da cui si origina sempre di nuovo la Chiesa, sia il diritto canonico. Liberiamo subito il campo da un possibile fraintendimento, frutto del fatto di leggere tutta la storia con le lenti della nostra mentalità contemporanea: il diritto canonico non è il Codice di diritto canonico; o meglio, il Codice rappresenta il punto finale della traiettoria moderna del diritto canonico – ne è l’esito storico, contingente e non ultimativo, che segna l’approdo di una relazione istituita e dialettica fra il sacro e il politico che ha contrassegnato la storia costituzionale europea.
Una storia di cui la Chiesa cattolica è stata una protagonista imprescindibile, anche per quanto riguarda la secolarizzazione del potere e della sua legittimazione, dei costumi e dell’ethos collettivo. Una storia che si chiude definitivamente a cavallo tra il XIX e il XX secolo, tra la fine dello Stato pontificio e la disgregazione del nostro continente che sfocerà nella prima Grande guerra (quando la nazione come concetto etnico, linguistico e culturale, finirà per colonizzare completamente quello politico e giuridico di stato). Pur essendo in preparazione almeno a partire dal Concilio di Trento, la risoluzione del diritto canonico nel Codice arriverà molto tardi – in ritardo notevole sulle codificazioni statuali europee, pur essendone stata una forza propulsiva lungo tutto l’arco della modernità, e quando alla Chiesa era venuto oramai definitivamente meno quell’orizzonte politico condiviso, pur nella frammentazione nazionalistica dell’Europa, che è appunto lo stato.
Questa doppia afasia vale almeno un indizio: il Codice di diritto canonico è l’esito storicamente inevitabile, ma non intrinsecamente necessario, della sfera più ampia del diritto canonico. Quel diritto che diede forma all’ordinamento giuridico medioevale come “fatto sociale” (Paolo Grossi), con il suo primato della dimensione effettuale, la pluralità delle fonti e la sostanziale libertà davanti al potere politico; e che, nel transito all’epoca moderna, sempre in ragione di un’aderenza effettiva alla storia, di un’obbedienza del diritto alla realtà dei fatti, si trasformò in forza portante dei processi costituzionali della modernità europea con l’invenzione dello Stato come monopolio del potere – a cui soggiogare non solo i sudditi ma anche il diritto stesso, finendo col produrre quel totalitarismo giuridico che prosciuga la legittima pluralità delle fonti finendo per far coincidere il diritto esclusivamente con la legge promulgata dall’autorità statale.
In due modi diversi, entrambi fedeli al principio organizzatore del diritto canonico, che è quello di un’aderenza all’effettività delle cose e al divenire della realtà storica umana e sociale, esso è il modo in cui a partire dal Medioevo la Chiesa (cattolica) si inscrive da protagonista in tutto ciò che nella società europea Chiesa non è – permettendogli di essere esattamente questo (saeculum e non religio – certo distinti ma non separati, dialettici ma non in concorrenza, come sarà poi negli sviluppi moderni). Quando inizia a emergere come disciplina propria, affrancata dal teologico ma ancora in contatto vitale con esso, il diritto canonico trova proprio nella teologia un alleato strategico per venire incontro a due esigenze tipiche della mentalità medioevale lentamente forgiata dalla realtà delle cose: ossia, organizzare coerentemente un ordinamento che fosse al tempo stesso stabile ed effettuale – con quella flessibilità in grado di organizzare una vita che si riappropriava passo dopo passo del mondo, dapprima abitandolo e poi configurandolo attivamente.
A garanzia dell’esigenza di stabilità si prepose la lex divina, ben delimitata, essenziale, contenuta in pochi e chiari parametri. L’aderenza alla vita che inizia a muoversi e a cambiare, diventando essa stessa ordinamento, poteva trovare invece nella lex umana il suo polo di riferimento – la cui flessibile contingenza si articolava sul concetto di aequitas, così ampliamente applicato da poter sospendere la norma per cedere spazio al fatto così come esso si presentava: particolare, localizzato, puntuale. Riconosciamo qui immediatamente quell’opposizione tensionale da cui si origina la Chiesa stessa, e la riconosciamo in esercizio al di fuori di essa come suo luogo proprio – ed è qui che il diritto (canonico e non) si fa giurisprudenza, ossia un dire il diritto davanti alle cose così come sono, per ordinarle come se le cose stesse fossero esse fonte del diritto.
La complessità che questo ordinamento finì col generare, unita al lento emergere di un potere politico sempre più egemonico, segnò la fine dell’ordinamento giuridico medioevale come fatto sociale – e il diritto (dentro e fuori la Chiesa) divenne sempre più funzione della nascente sovranità totale del potere (sacro e politico). Anche davanti al totalitarismo giuridico moderno, che la Chiesa contribuì a formare e orientare in senso costituzionale, il diritto canonico non depose mai completamente l’opposizione tensionale fra lex divina e lex umana, ma finì per scomporle tra di loro: la prima fu completamente assorbita all’interno della Chiesa come istituzione religiosa, con una contrazione pressoché completa della validità della lex umana in questo ambito; la seconda divenne l’asse portante della Chiesa come Stato pontificio che rappresentava il polo di interlocuzione interna con quell’altro del potere che era il nascente stato moderno europeo. All’incrocio di questa spartizione di territori giuridici, la medesima Chiesa contribuì alla secolarizzazione del politico e alla sacralizzazione del religioso nella loro separatezza osmotica.
Come fu per il Medioevo, anche la modernità è giunta alla sua fine e il suo modello (giuridico, politico e sociale) semplicemente non funziona più, anche se continuiamo a riprodurlo – come secolarità dello stato e confessionalismo della Chiesa, che si ritrovano congiunti dopo secoli in punto di morte. Francesco, il primo papa che viene dal di fuori dell’egemonia europeista, lo ha compreso fin dal primo giorno del suo ministero. Senza però arrendersi alla estenuazione istituzionale del politico e del religioso, nel momento stesso in cui prende congedo dall’assetto moderno della loro articolazione. Due le mosse principali che ha messo in campo: da un lato, imperniando la riforma della Chiesa sulla riconfigurazione costituzionale dello Stato della Città del Vaticano; dall’altro, intessendo un’alleanza globale tra le religioni come interlocuzione con una soggettualità politica multilaterale sottratta all’egemonia statuale e al riduzionismo nazionalista.
Che sia fuori di sé è opinione diffusa tra coloro che sono stati detronizzati dalla rimessa in validità della forza costituente dell’urgenza messianica del tempo per la stessa istituzione ecclesiale. Ma è in buona compagnia, quella del Signore.
MARCELLO NERI