De Vito Stefania
“Prendersi cura” Il Vangelo dell’Altro per una cultura dell’altro
2021/4, p. 32
I recenti fatti di cronaca che hanno interessato l’Irlanda e la Spagna e, prima ancora, Boston e le comunità cattoliche statunitensi, ci lasciano sbigottiti. La prima reazione è quella del rifiuto e dello stordimento. Constatiamo, infatti, una precaria umanità che neanche una fede “salda” ha saputo plasmare. Al contrario, sembra che l’esperienza religiosa si sia lasciata “addomesticare” e “narcotizzare” da un sistema chiuso in se stesso e sordo alla chiamata del Vangelo, che pur predicava.

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Prendersi cura
Il Vangelo dell’Altro per una cultura dell’altro
Viviamo in un mondo interconnesso. Lo slogan, nato in seno a scelte economiche ed ecologiche globali, si è trasformato in una quotidianità sperimentata, con l’evento del Covid-19: un bug nel sistema della “lontana” Cina ha modificato lo stile di vita della popolazione mondiale. Ora mi chiedo: siamo veramente “interconnessi” con gli altri che vivono fuori dalla soglia delle nostre case? Siamo connessi con la nostra interiorità? O questo è un affare di “foro interno” così personale e individuale, da non rendersi visibile nella nostra storia, costituita da eventi e idee, ma anche da orientamenti, opzioni (per noi stessi e per gli altri) e scelte concrete?
I recenti fatti di cronaca che hanno interessato l’Irlanda e la Spagna e, prima ancora, Boston e le comunità cattoliche statunitensi, ci lasciano sbigottiti. La prima reazione è quella del rifiuto e dello stordimento. Constatiamo, infatti, una precaria umanità che neanche una fede “salda” ha saputo plasmare. Al contrario, sembra che l’esperienza religiosa si sia lasciata “addomesticare” e “narcotizzare” da un sistema chiuso in se stesso e sordo alla chiamata del Vangelo, che pur predicava.
È impossibile ritornare al passato e modificarlo, ma abbiamo la responsabilità e la libertà di costruire il futuro, senza lacerare ogni legame con il passato. In alcuni momenti, la sola strada percorribile sembra essere la scelta di fuggire o di volgere lo sguardo altrove verso esperienze più edificanti. Questo atteggiamento rivela una scelta difensiva, un tentativo, comprensibile, di non lasciarsi ferire ulteriormente. Questa scelta non è costruttiva.
Anticamente, l’orafo purificava l’oro su una fornace ardente, per separarlo da impurità e da metalli meno nobili. Per portare a termine questo processo, era necessario lasciarsi bruciare il viso dal fuoco ardente, tenere lo sguardo fisso su quel pezzetto d’oro per accorgersi di quel momento esatto in cui l’oro avrebbe riflesso il volto dell’orafo. Terminare quel processo un attimo prima, avrebbe significato ottenere un pezzo d’oro non puro. Ma prolungare troppo il processo di purificazione, avrebbe portato alla carbonizzazione di quel materiale, che avrebbe perso per sempre la sua preziosità.
Anche noi siamo chiamati a tenere lo sguardo attento alla fornace ardente della nostra contemporaneità, a farci “scottare” dalla fiamma per individuare i motivi di “decadenza” dell’umano, contribuire ad un processo di “purificazione” e costruire una umanità veramente umana, con il metallo prezioso che abbiamo ottenuto.
Mi vengono in mente le parole di un teologo canadese del secolo scorso: il suo nome è B. Lonergan. Sul finire degli anni Sessanta, scrive un piccolo saggio: Today Issue. Le questioni roventi che lui individuava, sembrano sussistere ancora oggi. Denunciava, infatti, l’incapacità della Chiesa e della riflessione teologica di riconoscere le sfide del mondo contemporaneo. Da qui, nasce l’incapacità di dare risposte credibili. Così conclude la sua riflessione:
«Afferrare la questione contemporanea e incontrare la sua sfida richiede allora uno sforzo collettivo. Non è l’individuo, ma il gruppo che trasforma la cultura».
La risposta è nel “noi”! Il monito finale, “il gruppo trasforma la cultura”, è un messaggio di speranza e un appello alla nostra responsabilità, di uomini e di donne, credenti e non credenti. La parabola del “sale” (cfr. Mt 5,13) ci offre un buon insegnamento: il sale esalta il gusto di una pietanza già buona. Se la materia prima dei nostri “piatti” non è di qualità, se non abbiamo seguito con cura tutti i passaggi nella preparazione della nostra pietanza, il sale certamente non potrà magicamente salvare la nostra cena.
La Buona Notizia del Cristo morto e risorto per noi, perciò, esalta il gusto della nostra umanità, che è già buona a partire dalla creazione, indipendentemente dalla consapevolezza che noi abbiamo dell’origine divina della nostra “buona qualità” umana. Basterebbe, forse, prestare un po' di attenzione a questo assioma antropologico, trasversale alle civiltà e al passare dei tempi, per poter costruire una società più umana. In questo DNA, inscritto nel cuore di ogni essere umano, c’è la base che ci apre all’altro senza averne paura, senza il bisogno spasmodico di livellare le differenze in nome di una presunta equità.
Quella soglia, sulla quale abbiamo eretto muri, è il posto che ci rende distinti e distanti. Essa è anche il punto di contatto con la realtà, che vive fuori di noi e chiede un coraggioso e perseverante atto di “cura dell’altro”. La “cura dell’altro”, nell’accogliere l’Altro, passa attraverso un “Noi” che, perseverante nell’attesa, possa discernere insieme i passi da compiere, step-by-step. Il “noi”, mentre si prende cura dell’altro, già promuove una trasformazione culturale.
STEFANIA DE VITO