Considerazioni per un discernimento
2021/4, p. 22
Nella maggioranza dei monasteri, soprattutto di tradizione benedettina
e clariana, la preghiera notturna celebrata in comune è un elemento
importante del ritmo liturgico quotidiano.
Per i monaci e le monache “coristi” in Certosa è un elemento caratteristico.
Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.
Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
LA PREGHIERA NOTTURNA COMUNITARIA
Considerazioni per un discernimento
Nella maggioranza dei monasteri, soprattutto di tradizione benedettina e clariana, la preghiera notturna celebrata in comune è un elemento importante del ritmo liturgico quotidiano. Per i monaci e le monache “coristi” in Certosa è un elemento caratteristico.
Un valore e una sfida
L’Ufficio delle Letture, che nei monasteri è chiamato, secondo la tradizione, Mattutino o Ufficio notturno o Vigilie, continua ad essere la celebrazione liturgica più propria dei monasteri. La riforma della Liturgia delle Ore, emanata dopo il Concilio Vaticano II, ha conservato un’Ora liturgica che viene chiamata “Ufficio delle Letture”. Secondo le indicazioni si può celebrare questo momento di preghiera – personale o corale - in qualunque momento del giorno:
ha lo scopo di proporre al popolo di Dio, e specialmente a quelli che sono consacrati al Signore in modo particolare, una meditazione più sostanziosa della Sacra Scrittura e le migliori pagine degli autori spirituali. Sebbene, infatti, la Messa quotidiana offra un ciclo di letture della Sacra Scrittura più abbondante, quel tesoro della rivelazione e della tradizione contenuto nell’Ufficio delle letture sarà di grande profitto per lo spirito. Soprattutto i sacerdoti devono cercare questa ricchezza per poter dispensare a tutti la parola di Dio, che essi stessi hanno ricevuto, e per fare della dottrina, che insegnano, il nutrimento per il popolo di Dio.
Nei monasteri che seguono la Regola benedettina e in Certosa abitualmente si conserva la recita del Salterio nella sua integralità in una o, al massimo, in due settimane. Per questo l’Ufficio delle Vigilie, oltre ad essere l’Ora liturgica più lunga e articolata, soprattutto nelle Domeniche e Feste, rappresenta un momento tanto amato dai monaci e dalle monache quanto un’occasione abituale di “difficoltà” e di “fatica”. In non poche comunità i fratelli o le sorelle che partecipano a questo momento sono molto meno di quelli che partecipano alle altre Ore canoniche. Praticamente l’Ora canonica “più monastica” diventa, nel concreto della vita, il momento celebrativo più “fragile”. Dalla partecipazione alle Vigilie si viene dispensati per motivi di salute, di stanchezza, di eccesso di lavoro e tante altre ragioni. Tenere insieme questi aspetti di necessità e il “carattere di preghiera notturna per il coro” diventa talora assai complicato.
Non raramente, salvo l’eccezione di monasteri che hanno conservato le Vigilie a metà della notte con l’interruzione del sonno, questa celebrazione si è ben presto e ormai durevolmente trasformata in una sorta di pre-Lodi mattutine, oppure di sostituto della Compieta che si trasforma in Vigilia del giorno dopo, come è pure previsto nei Principi e Norme. In ambedue i casi, soprattutto nella scelta mattutina, si dà alla recita corale un posto che rischia di prendere molto tempo – nelle feste l’Ufficio può durare ben più di un’ora – fino a consumare le forze vive non solo per la preghiera vocale, ma soprattutto per la lectio divina che diventa una sorta di parentesi tra due celebrazioni: Mattutino e Lodi. Nell’intervallo normalmente indicato come consacrato alla lectio divina si rende necessario fare tutta una serie di cose: la colazione, alcuni piccoli o grandi servizi comunitari come pure un minimo di distensione dalla tensione che una lunga ufficiatura porta con sé come effetto collaterale.
Ai tempi di san Benedetto l’Ufficio vigiliare è un dato acquisito ed è chiaramente e minuziosamente regolato con l’indicazione dei salmi da pregare e la distinzione tra i giorni feriali e quelli festivi, come pure dei tempi liturgici che, all’epoca, si riducevano ancora alla Quaresima e alla Pasqua. Nell’evoluzione della prassi liturgica delle cattedrali e dei monasteri la Vigilia è quella che si usava celebrare tra il sabato e la domenica, come già radunava i padri del deserto per la sinassi domenicale. Nel passaggio sempre più regolarizzato dalla vita eremitica al cenobitismo, ciò che è settimanale diventa quotidiano e se vi è una differenza tra le vigilie feriali e quelle festive questa riguarda la lunghezza e l’articolazione, come il canto del Te Deum e la solenne lettura del Vangelo.
Già ai tempi di Benedetto se le Vigilie sono una celebrazione scontata, nondimeno è già problematica, come si può dedurre dalle considerazioni di altre Regole come quella di Ferreolo. Nella regola di Ferreolo si parla di due vigilie settimanali – al sabato e alla domenica – lasciando per il resto della settimana una certa libertà personale. Una nota di san Benedetto evoca già la problematicità di quest’Ora canonica che evidenzia le fragilità per cui non vi si può partecipare, oppure le debolezze per cui non si è sufficientemente generosi nel parteciparvi:
Nulla si deve anteporre all’Opera di Dio. Chi alle Vigilie notturne arriverà dopo il Gloria del salmo novantaquattro – è per questo che prescriviamo di recitarlo a ritmo rallentato e con pause – non prenda il suo posto in coro, ma si metta ultimo di tutti in un posto a parte che l’abate avrà stabilito per questi ritardatari, affinché sia visto da lui e da tutti, fino a che, terminata l’Opera di Dio, faccia penitenza con pubblica riparazione. Abbiamo poi creduto opportuno che costoro si mettano all’ultimo posto o in un luogo separato, perché, essendo così alla vista di tutti, si correggano almeno per la vergogna. Infatti, se i ritardatari si fermassero fuori dall’oratorio potrebbe succedere che qualcuno si rimetta a dormire oppure se ne stia fuori a chiacchierare, dando così occasione al maligno.
Come per il digiuno e l’astinenza dal vino così per la veglia notturna, Benedetto è obbligato ad evocare il principio e a legiferare tenendo conto di una serie di elementi legati ai bisogni e all’equilibrio delle diverse persone. Nella mentalità dell’epoca di Benedetto, come appare in molti passi della Regola, la costrizione e la “vergogna” sono elementi terapeutici prima ancora che disciplinari. Sarebbe ingenuo pensare che questo non possa valere talora anche per i monaci della nostra generazione, ma sicuramente non è l’orizzonte in cui desideriamo muoverci per interpretare il nostro comportamento monastico. Se accogliamo la diversità del nostro modo di sentirci monaci nel tempo presente, alcune domande e considerazioni vanno poste con semplicità.
Domande e considerazioni
Il valore ascetico di mortificazione o di eroismo, che ha caratterizzato la pratica delle Vigilie quotidiane, è ancora valido per la sensibilità spirituale e monastica dei nostri giorni? Fino al Concilio il criterio era l’austerità che distingueva in una sorta di gerarchia monastica gli Ordini, le Congregazioni e i Monasteri. Basti pensare all’Ufficio di notte nella Congregazione della Primitiva Osservanza, diventata Sublacense e ora Sublacense-Cassinese.
Questo criterio di austerità valutava in passato, o forse non solo in passato, l’affidabilità monastica delle comunità. Nella situazione attuale di comunità normalmente numericamente ridotte e con forze assai fragilizzate, può diventare un criterio di valutazione dei singoli fratelli che rischiano di classificarsi reciprocamente tra quelli che vanno a Vigilie e quelli che non ci possono andare o che talora si ritiene, in realtà, che non ci vogliano andare. Ma per quale motivo i fratelli non possono andare a Vigilie? La stanchezza, la malattia, l’età…? Può anche essere talora per una sensazione di eccesso di pratica liturgica comunitaria che, all’inizio assoluto della giornata o alla sua conclusione, rischia di essere avvertita più come un appesantimento che come un’opportunità di preghiera condivisa.
Talora nella pratica quotidiana delle Vigilie si può riscontrare da una parte una certa dose di eroismo e, dall’altra, una certa dose di violenza. Si pensi ad esempio al fatto che, dopo una giornata impegnativa, si debba ancora celebrare le Vigilie al posto di una Compieta che, per sua natura, è volutamente breve, semplice, ripetitiva proprio per conciliare il sonno e non certo per creare una tensione e una stanchezza snervante. Così pure quando si celebrano le Vigilie al mattino presto, non è raro che dopo avere raggiunto la meta della conclusione della Veglia bisogna ancora cantare le Lodi cui, in certi casi, segue la Messa e Terza.
Per gli antichi la pratica quotidiana delle Vigilie rispondeva e corrispondeva pure ad un modo, adeguato all’epoca, per riempire le lunghe notti e, soprattutto, l’impossibilità per la maggior parte dei monaci di potersi dedicare fruttuosamente ad una preghiera più personale e ad una lectio divina degna di questo nome. Non va dimenticato che molti monaci non erano in grado di leggere e, per tutti, la mancanza di energia elettrica rendeva penosa la lettura personale nelle ore notturne.
Attualmente, il rischio è di destinare quotidianamente dei tempi preziosi, come quelli del mattino o della sera – a seconda dei temperamenti più notturni o mattinali –, a una preghiera liturgica vocale e corale. Si tratta di tempi in cui forse si hanno le disposizioni migliori per dedicarsi alla lectio divina e alla preghiera personale. Queste due occupazioni vissute personalmente hanno bisogno di una volontà piena tanto che, in altri tempi della giornata, rischiano di non avere la stessa intensità e profitto spirituale.
Nell’antichità il tempo era molto più lento del modo in cui lo viviamo attualmente. Inoltre, la divisione in classi – pensiamo ai conversi e ai famigli – faceva sì che i monaci coristi avessero molto tempo nella giornata per dedicarsi allo studio, alla lectio, all’arte e persino al loisir. Questo particolarissimo equilibrio è ancora vigente in Certosa. Normalmente, nell’attuale situazione di accelerazione nel modo di abitare il tempo e la democratizzazione della vita monastica, le cose sono diverse. Nei monasteri di oggi i fratelli che hanno una certa preparazione, sensibilità e passione per la lectio divina e un certo gusto per la preghiera personale nonché una capacità di portare fruttuosamente la solitudine, sono quelli che hanno incarichi importanti e tutta una serie di servizi da assicurare. Abitualmente proprio i fratelli “più spremuti” sono anche i più “osservanti”, anche a motivo delle cariche che ricoprono e il senso di responsabilità nel dare buon esempio ai fratelli che, non raramente, hanno meno lavoro e anche meno passione per la vita spirituale.
Riflettere con libertà
Si fa urgente una riflessione liberata dalla “vergogna” di ritrovarsi diversi da quanti ci hanno preceduto nella vita monastica. La troppo automatica identificazione tra fervore nella liturgia e autentica vita spirituale va superato saggiamente pur senza ingenuità. Rimane infatti vero che la fedeltà alla preghiera, con il suo carattere di dovere e di impegno, è irrinunciabile e comincia sempre dal suo aspetto più esteriore e abitudinario. Per questo essa ha sempre un suo carattere normativo e, per certi aspetti, costrittivo tanto da essere definita da Benedetto come “pensum servitutis”. Questo si spiega da una parte per il fatto che la preghiera è ritenuta indispensabile nella vita del monaco, per assicurare un ritmo che gli permette di non perdere mai di vista il proprio orientamento, e, dall’altra, perché la ricerca è fatta in comunione, più o meno visibile, con quanti condividono lo stesso cammino e il medesimo desiderio. Padre Lafont risolve un’apparente e ricorrente contraddizione agli occhi di quanti assistono, più che di quanti vivono, la vita monastica e il suo irrinunciabile quadro canonico di orario in cui i momenti di preghiera sono stabiliti chiaramente:
Non vi sembra che queste due parole siano incompatibili, <preghiera> e <ufficiale>? Dio chiede la preghiera del cuore dell’uomo, la preghiera di una comunità unita nella carità; ogni uomo, ogni comunità che si sforza di pregare così prega veramente.
Alla luce di queste sommarie considerazioni penso che il posto delle Vigilie nella vita quotidiana dei monasteri andrebbe riconsiderato con attenzione, per evitare di continuare a ripetere una pratica senza una reale consapevolezza della sua bontà non generale, ma reale per le concrete comunità. In tal senso una soluzione potrebbe essere il recupero del ritmo settimanale dei primordi della vita monastica con la Vigilia della domenica e delle solennità quando, tra l’altro, il canto dei I Vespri farebbe sì che Compieta diventi serenamente superflua.
Un altro aspetto da considerare è che accanto al rischio dell’individualismo c’è pure la risorsa positiva di alcuni spazi più personali che andrebbero salvaguardati e alla cui capacità di gestione i fratelli andrebbero accuratamente preparati. Come per la pratica della clausura che non si può estendere a tutti e sempre, ma è un elemento che può essere eccezionale per alcuni e talora semplicemente utile e buono per un tempo limitato della vita. Il fatto di non celebrare le Vigilie quotidianamente in comune non significa necessariamente e automaticamente un cedimento alla decadenza, ma può anche essere un fare spazio a ciò cui la stessa Regola accenna e, forse, nella nostra situazione attuale andrebbe dilatato e valorizzato: “Anche in altre ore, se un fratello vuole pregare segretamente per conto proprio, semplicemente entri e preghi, non a voce alta ma con lacrime e fervore del cuore”.
Così pure vi è una nota, di uno dei capitoli più indicativi a livello spirituale per la vita di preghiera, che dice così: “La preghiera deve essere breve e pura, a meno che non si prolunghi per un sentimento ispirato dalla grazia del Signore”. Benedetto aggiunge: “Quando si prega insieme, però, il tempo della preghiera sia veramente breve, e appena chi presiede dà il segno, tutti insieme si alzino”. È chiaro che Benedetto si riferisce ai tempi che oggi definiremmo di “silenzio”! all’interno della preghiera liturgica. Nondimeno questa nota la si potrebbe ampliare e amplificare nella riconsiderazione del nostro modo di pregare comunitariamente nei nostri monasteri. Da questo punto di vista va ricordato che l’“abbreviazione” nella preghiera comune è, per così dire, il prezzo da pagare nel passaggio dalla vita eremitica a quella cenobitica. Il mondo e il modo dei padri del deserto rimane un punto di nostalgia ancora per Benedetto che ne parla proprio in considerazione della preghiera liturgica:
Danno prova, infatti, di troppa tiepidezza nel loro servizio religioso, i monaci che non recitano l’intero salterio, oltre ai cantici di consuetudine, nello spazio di una settimana, mentre leggiamo che i nostri santi padri raggiungevano valorosamente questo numero in un giorno solo. E noi, tiepidi, facessimo almeno altrettanto in una intera settimana!
Nondimeno sia Pacomio – con la regola dell’Angelo che stabilisce il numero aureo dei dodici salmi per la preghiera notturna – che Benedetto, con il suo ritmo settimanale, sembrano preoccupati di evitare le lungaggini. Questo perché il monaco abbia non solo tempo, ma energia interiore per dedicarsi alla vita spirituale in modo personale, sostenuto e non invece esaurito dalla pratica comunitaria. Mentre Bernardo di Chiaravalle si divertiva a prendere in giro i monaci di Cluny, un uomo mite e arguto come Pier Damiani si rese conto, visitando i monaci cluniacensi e osservando da vicino la loro vita, che il ritmo liturgico era così estenuante da esigere i piatti, le pellicce e il tempo di riposo canzonati dall’abate di Chiaravalle.
Michael Davide Semeraro