Il dolore somatizzato
2021/4, p. 19
È un tema di crescente attualità di cui si parla sui social; ma resta anche
una sofferenza segreta che non si vuole mostrare, per timore di essere giudicati o derisi. Affligge gli adolescenti dai 13 ai 18 anni, in numero maggiore le ragazze.
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ADOLESCENZA E AUTOLESIONISMO
Il dolore somatizzato
È un tema di crescente attualità di cui si parla sui social; ma resta anche una sofferenza segreta che non si vuole mostrare, per timore di essere giudicati o derisi. Affligge gli adolescenti dai 13 ai 18 anni, in numero maggiore le ragazze.
Articoli recenti di cronaca, quali l’allarme lanciato dai responsabili di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’ospedale Bambino Gesù di Roma, suggeriscono che i ricoveri di adolescenti per attività autolesionistiche, talvolta tentati suicidi, sono aumentati del 30% negli ultimi tempi.
Questo tempo di crisi planetaria, oltre alle criticità sanitarie, economiche e sociali, ha fatto esplodere questa emergenza, in particolare negli ultimi mesi.
L’autolesionismo affligge gli adolescenti dai 13 ai 18 anni, in numero maggiore le ragazze; ma se ne riportano manifestazioni anche nei bambini di 10 – 11 anni.
Uno studio internazionale, pubblicato su Journal Child Psychology and Psychiatry, rivela che in Europa un quarto degli adolescenti (27,6%, età media 14 anni) mette in atto comportamenti autolesivi occasionali e ripetuti nel tempo; in Italia il fenomeno riguarda il 20% dei ragazzi.
È un tema di crescente attualità di cui si parla sui social; ma resta anche una sofferenza segreta che non si vuole mostrare, per timore di essere giudicati o derisi.
Significati dell’autolesionismo
In generale le condotte auto-mutilanti non hanno come obiettivo il suicidio, ma mirano ad ottenere sollievo da stati d’animo opprimenti o da pensieri negativi. Hanno, quindi, una funzione di catarsi e liberazione o rivestono un significato simbolico per canalizzare emozioni incontrollabili, quali la rabbia, lo sconforto, la colpa.
Per alcuni ragazzi questa strategia di coping, oltre ad alleviare lo stress, produce rilassamento e piacere ed è un modo per riacquistare controllo sui propri stati d’animo o per distrarsi dalla noia. Per altri, l’autolesionismo diventa una forma di auto–punizione per errori commessi o fallimenti sperimentati. Per tutti, il farsi del male o il procurarsi ferite in modo intenzionale, rivela un profondo disagio interiore. Di solito, è un linguaggio mascherato in quanto chi si procura mutilazioni tende a coprire le proprie ferite con i vestiti o si lede in parti del corpo non facilmente visibili o riconoscibili, a conferma di atti che non invocano esplicitamente aiuto o attenzione, ma sono vissuti come valvola di scarico per lo stress emotivo.
Il corpo depositario di emozioni incontenibili
Il corpo, per il giovane, è il tempio della propria identità, il mezzo per rivelarsi agli altri attraverso la forza o la bellezza estetica o mediante doti sportive o espressioni artistiche.
Questo ultimo anno, segnato dalla pandemia e dai limiti imposti alle libertà personali di muoversi, andare in palestra, giocare con gli amici, ha frenato le opportunità di scaricare le tensioni e l’aggressività. Inoltre, è venuta a mancare la scuola, non solo come momento didattico, ma come luogo esperienziale, per plasmare il proprio carattere nel confronto con gli altri. La riduzione degli spazi sociali e l’allontanamento dai compagni ha, in molti casi, accresciuto le conflittualità familiari, la reticenza a comunicare e la dipendenza da internet.
Queste circostanze esterne hanno acutizzato forme di fragilità interna o disturbi di personalità sconfinati nell’autolesionismo. Il corpo diventa così il depositario della sofferenza accumulata, per cui ferirsi è un modo per guarirsi, ossia il dolore fisico viene indotto come rituale per alleviare il dolore interiore.
Lo suggerisce la testimonianza di Mindy, oggi adulta, che scrive:
“Entro ed esco dalla terapia da quando ho 9 anni e mi taglio semi-regolarmente da quando ne ho 12. Mi taglio abbastanza profondamente, tanto da aver avuto bisogno di punti due volte. Tuttavia, ripensando al mio autolesionismo, non è legato al suicidio. Non volevo morire, volevo solo sentire qualcosa, qualsiasi cosa”.
Attraverso la terapia, Mindy oggi si sente meglio, ma non è del tutto guarita e continua:
“Forse in qualche modo sto guarendo… non lo so. L’impulso di tagliarmi e correre fino allo sfinimento e fare altre attività auto-distruttive si è placato, ma ogni tanto, riemerge ancora. Quando sento il bisogno di tagliarmi, lo faccio”.
Il farsi male: manifestazioni
Le pratiche autolesionistiche comportano ferite autoinflitte, che variano da soggetto a soggetto.
Manifestazioni frequenti di comportamenti auto-mutilanti, comprendono:
-Tagli con lame o rasoi, incisioni sulla pelle (avambraccio, braccia, polsi, pancia, cosce, gambe…);
-Bruciature o marchi con sigarette o oggetti roventi;
-Strapparsi i capelli;
-Graffiature e irritazioni cutanee da sfregamento;
-Sbattere volontariamente la testa contro il muro;
-Condotte di auto-avvelenamento (ingestione di sostanze tossiche, bulimia o anoressia…).
Questi gesti si realizzano, spesso, in momenti di impulsività o instabilità emotiva quando l’individuo è in preda all’ansia, a una furia incontrollabile o avverte angoscia o il senso di vuoto, talvolta la mancanza di scopo.
Con frequenza, l’adolescente ingigantisce i risvolti di una situazione conflittuale e nel farsi del male manifesta la sua difficoltà nel gestire lo stress o determinati sentimenti.
Benedetta, per la quale i tagli di un tempo ora sono diventati cicatrici grazie alle terapie, alla scoperta delle piccole cose, all’affetto di un gattino e degli amici, così commenta la sua esperienza a 13 anni:
“Non sapevo che era autolesionismo – sospira– in quel momento mi sentii bene, avvertivo una sorta di energia rinnovata, non realizzai che volevo farmi del male. E invece i tagli sono diventati sempre di più, la distanza tra l’uno e l’altro ravvicinata, non c’è uno spazio del corpo che non abbia sfregiato. Anche in faccia, perché diventa un’ossessione, e arrivi al punto che non ti basta più un graffietto, vuoi andare oltre e sempre più a fondo. È come una droga, ne diventi dipendente. Io, nei periodi in cui ho provato a smettere, ho avuto anche crisi di astinenza”.
Cause dell’autolesionismo: mappatura del disagio
Ogni persona ha la sua storia, il suo nucleo familiare, il suo carattere, le sue sensibilità e fragilità.
All’ombra di gesti autolesionistici o di tentati suicidi si nascondono disturbi d’ansia, problemi con il sonno, difficoltà alimentari, spesso la depressione o disturbi psichiatrici dell’età evolutiva, oggi sempre più frequenti negli adolescenti.
Tra i fattori che concorrono alle automutilazioni si annoverano relazioni familiari disfunzionali, perdite, esperienze di eventi traumatici, talvolta abusi fisici, psicologici o sessuali.
Per alcuni, a monte del disagio, ci sono episodi di bullismo nella scuola, difficoltà interpersonali, talvolta influssi di amici autolesionisti, spesso un basso rendimento scolastico.
A livello individuale emerge l’instabilità dell’umore, le rigidità caratteriali, i complessi di inferiorità e la debole autostima.
Autoferirsi: interventi di aiuto
Cosa si può fare per chi si fa del male cercando di alleviare in qualche modo il proprio dolore?
Non ci sono farmaci specifici per il trattamento di comportamenti autolesivi.
Nei casi più severi ci si affida al trattamento sanitario, per creare un ambiente protetto per l’adolescente ed esplorarne i pensieri ed emozioni.
La psicoterapia, in particolare a indirizzo cognitivo-comportamentale, sembra dare buoni risultati, così come la terapia sistemico-familiare.
Anche il lavoro di gruppo può essere di grande beneficio nell’aiutare gli adolescenti, soprattutto quelli impulsivi o tendenzialmente chiusi, a comunicare in maniera costruttiva e a gestire meglio le emozioni.
Qui risiede un nucleo centrale per contrastare le pratiche autolesionistiche, educandoli a capire e canalizzare meglio i sentimenti, quali la frustrazione e l’ansia.
Un ruolo di vitale importanza riveste la famiglia, in particolare i genitori, chiamati non a giudicare le condotte e i comportamenti assunti dai figli, ma a dialogare per cercare di capire quale sofferenza o quali bisogni si celino dietro le ferite che sanguinano.
Il dottor Stefano Vicari, responsabile di neuropsichiatria infantile del Bambino Gesù, suggerisce come oggi i ragazzi soffrano di un malessere profondo che sfugge alle reti tradizionali dei genitori e delle scuole. Per intercettare questo malessere e rispondervi è nata “App to Young”, un’applicazione per tablet e smartphone, operativa 24 ore su 24, che garantisce la privacy e offre al ragazzo la possibilità di parlare con uno psicologo o con un coetaneo, monitorato da uno psicologo qualificato.
La Chiesa, dinanzi a questo fenomeno, interpreta per lo più un ruolo periferico, ma può contribuire alla prevenzione di condotte autolesive attraverso iniziative tese a promuovere il dialogo in famiglia e l’accoglienza di inevitabili conflitti nelle relazioni, educando alla gestione costruttiva delle emozioni, sostenendo il valore della fede e dell’appartenenza comunitaria, caldeggiando lo sviluppo di un repertorio più ampio di soluzioni ai problemi, incluso il ricorso alla preghiera e alla meditazione nei momenti turbolenti.
L’adolescenza è, spesso, un tempo di crisi e di cambiamenti in cui i ragazzi tendono a distanziarsi dai modelli ed influssi precedenti (genitori, tradizione, parrocchia, autorità) per ricercare la propria identità e nuove forme di aggregazione.
I rappresentanti di Dio e della Chiesa, senza rinunciare a ponderati interventi, qualora richiesti, si adoperano per segnalare e affiancare quelle modalità di aiuto professionale e amicale che meglio rispondono ai bisogni degli adolescenti.
ARNALDO PANGRAZZI M.I.