La Mela Maria Cecilia
Prodigioso duello
2021/4, p. 8
Gesù Risorto è il fiore del deserto che spacca la pietra e sprigiona nuova vita e, con essa, rinnovate speranze e la certezza che in Lui l’esistenza di ogni uomo è redenta e aperta all’eternità.

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COMMENTO ALLA SEQUENZA “VICTIMAE PASCHALI LAUDES
Prodigioso duello
Gesù Risorto è il fiore del deserto che spacca la pietra e sprigiona nuova vita e, con essa, rinnovate speranze e la certezza che in Lui l’esistenza di ogni uomo è redenta e aperta all’eternità.
La sequenza che la liturgia ci fa cantare la domenica di Pasqua è ricca di suggestioni e pregna di continui rimandi che imprimono al testo un andamento di intrecci e movimenti a ritmo incalzante. Essa esprime bene la febbrile concitazione di una gioia che deflagra in tutta la sua pienezza. Il dolore e l’angoscia sono finalmente liberati, la vita ha spezzato la morsa della morte e su tutto riluce «la gloria del Risorto». Andando al cuore di questo stupendo inno ci è possibile rintracciare la chiave che mette in moto tutta la dinamica pasquale: «Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello: il Signore della vita era morto, ora regna vivo».
Cristo, Re vittorioso
Questo duello emerge come non mai drammatico e serrato nel particolare periodo di prova che l’umanità sta vivendo: ma ancor più tempo di grazia. Ce lo annuncia Maria Maddalena: «Cristo mia speranza è risorto e precede i suoi in Galilea». È di fede: non ci ha lasciati soli, ci aspetta, perché Lui è il «Re vittorioso», niente e nessuno potrà mai farci veramente del male, neanche la morte stessa. E se nella nostra esperienza quotidiana continuiamo a dover ingaggiare continuamente questo duello, a confrontarci con un’esistenza sempre minacciata, con una quotidianità incerta e precaria, siamo certi che «l’Agnello ha redento il gregge, Cristo l’innocente ha riconciliato i peccatori col Padre». Il nostro è un esodo pasquale, non un tunnel senza sbocco: ce lo assicurano «gli angeli suoi testimoni, il sudario e le vesti». Sì, c’è una tomba, ma è quella «del Cristo vivente», è vuota: «Siamo certi che Cristo è veramente risorto». E con Lui ogni ansia e paura, le giustificate preoccupazioni e l’incertezza del domani per non cadere in quella che papa Francesco chiama «psicologia della tomba» e che «poco a poco trasforma i cristiani in mummie da musei» (Evangelii gaudium n. 83). Occorre intraprendere un cammino di conversione, chiedere al Signore che ci faccia passare «dalla cultura della morte al pensiero del Risorto». Ecco perché «alla vittima pasquale si innalzi il sacrificio di lode», ma anche una accorata richiesta: «Abbi pietà di noi». La nostra posizione è proprio qui, racchiusa tra l’inizio e la conclusione di questa bella sequenza. Una fede sicura, eppure messa alla prova, e che quindi deve aprirsi alla speranza. Una certezza inoppugnabile non senza gli umani timori alimentati da un contatto continuo con una realtà che sembra smentire, se non voler addirittura demolire, la determinazione che tutti sentiamo di avere dentro. Proprio perché siamo creature umane i se e i ma ci possono pure confondere, ciò nondimeno siamo anche cristiani, pertanto la chiusa finale non può non essere che «Amen. Alleluia!».
L’attributo “prodigioso” riferito a duello potrebbe avere anche questa valenza. Non è scontata, non è automatica in noi una fede che ci immunizzi dalla nostra fragilità, dalle perplessità e dai condizionamenti, ma siccome essa è prima di tutto dono di Dio ci apre alla fiducia, all’affidamento, all’adesione. C’è sempre un cammino da fare per arrivare in Galilea, faticoso oltre che entusiasmante, ma che ha una meta; è una via ormai percorsa, già messa in sicurezza da Colui che ci precede. Lui combatte con noi e noi vinciamo con Lui.
Un duello nella nostra vita fisica
Il duello morte-vita è innestato nella nostra vita fisica. Tutta la Sacra Scrittura lo mette in risalto. Richiamiamo l’episodio della nascita di Beniamino segnata dalla morte della madre: «Mentre esalava l'ultimo respiro, perché stava morendo, essa lo chiamò Ben-Oni, ma suo padre lo chiamò Beniamino» (Gn 35, 15-19). Rachele vuole chiamare il nascituro “figlio del dolore”, infine per il padre si chiamerà “bastone della vecchiaia”, ovverosia “figlio della consolazione”: quella vita, anche se così congiunta alla morte, è segno di benedizione, porta in sé un germe di futuro.
Proprio mentre si lavorava a questo articolo ci è giunto il messaggio di una giovane sposa e madre. Con una confidenza toccante ci metteva a parte dell’epilogo doloroso della sua seconda gravidanza. Il cuoricino del bambino che amorevolmente aveva portato in grembo per nove mesi si era fermato poco prima della nascita: «Mi è crollato il mondo addosso. Mi si è spezzato il cuore. Non riuscivo a capire, non potevo crederci. Ho sperato sino alla fine che si fossero sbagliati...
Ho chiesto al Signore di aiutarmi e da quel momento sento di aver avuto il coraggio di affrontare tutto solo grazie alla forza che Lui mi ha dato e continua a darmi. Il tempo si è fermato a quella notte. Tutti i giorni sono uguali, privi di senso, pieni di ricordi di quell'angioletto che sono riuscita a tenere in braccio solo per mezz'ora. Da allora sono passati alcuni mesi e, tra alti e bassi, la vita va avanti. Mia figlia e mio marito sono la mia forza. Ho chiesto al Signore di starmi accanto. E, se è tra i suoi progetti per me, donarmi un'altra vita, un altro bimbo o bimba per completare la nostra famiglia. Confido nel Signore e affido il mio destino completamente nelle sue mani».
Anche cause esterne, persino violente attentano alla vita. Richiamando la figura di san Giuseppe in questo anno a lui dedicato, lo si contempla come colui che – proprio perché “uomo giusto” – ha salvato la vita a Maria: pensava di licenziarla in segreto per evitare quella procedura giudiziaria pubblica che le sarebbe sicuramente costata la lapidazione. Così anche la vita di Gesù in riferimento all’episodio della strage degli innocenti (Mt 2,13-18). Nasce la Vita ed ecco subito ingaggiato il duello con la morte che vuole annientare il Bambino. Viene nel mondo la Vita e tanti piccoli muoiono. Per Erode la minaccia al suo potere è, in fondo, una minaccia di morte stando alla logica della sua ossessione di “immortalità”.
Dove c’è morte e ogni forma di male scende la tenebra. Si ha persino paura della verità: come per Pilato che fa piantonare la tomba perché la morte del Profeta di Nazareth, barattata con la vita di Barabba, attesti con sicurezza che tutto è finito. Ma le donne che il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba «trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. Essi dissero loro: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato”» (Lc 24, 1-5).
Un duello anche nella sfera psicologica
Il duello morte-vita si innesca anche nella sfera psicologica. È rivelativo, ad esempio, che in ogni persona vi è il desiderio di voler lasciare un segno. Così lo spiega il noto psichiatra Vittorino Andreoli: «Nel voler lasciare un segno c’è indubbiamente il desiderio dell’immortalità o, per lo meno, un tentativo di lottare contro la morte, la volontà di renderla impotente […]. Credo che lasciare un segno di sé sia l’unico modo di mettere la morte sotto scacco, per impedirle di seppellirci sotto una pietra nuda, senza neppure un nome scolpito sopra». È soprattutto la lotta che riguarda la nostra sfera morale a rivelare questo scontro tra morte e vita. La morte del peccato e la vita della grazia. È quanto descritto nella vicenda del figliol prodigo (Lc 15, 1-32): questo giovane, chiedendo di spartire anzitempo l’eredità, di fatto si rapporta al padre considerandolo già morto. L’Evangelista annota che “prese tutte le sue cose e partì verso un paese lontano”: nei piani del figlio minore la vita gaudente alla quale stava andando incontro doveva apparirgli come definitiva e duratura, tale da cancellare pure la memoria di quel che aveva vissuto prima. Quella vita sarà invece la sua morte: dall’agiatezza al degrado. Poi il ritorno a casa e all’abbraccio del padre, la musica e le danze. «Bisognava far festa e rallegrarsi» – spiega il padre al figlio maggiore – «perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». La vita ha nuovamente trionfato. Nel piano salvifico la vittoria di Cristo sulla morte, sul peccato, su ogni forma di tenebra è vita per l’umanità, per ciascuno di noi. Così scrive fra’ Emiliano Antenucci: «Ricordiamoci sempre che amare non è solo dire ad una persona: “Tu non morirai”, ma amarla in Cristo vuol dire: “Tu risorgerai”».
La ginestra immagine della rinascita
Questo duello lo vogliamo infine esprimere con un’immagine. La nostra città, Catania, è alle pendici dell’Etna. Sin da piccole siamo abituate al contatto con scenari segnati dalla lava che, ormai raffreddata, porta inscritta nella sua composizione un processo che sembra fermarsi alla morte, ma che già annuncia la rinascita, la vita nuova. La lava incandescente che ha distrutto al suo passaggio anche la vegetazione più fiorente, si rafferma poi inerme su un terreno ridisegnato morfologicamente. Tutto appare pietroso, scuro, arido. Eppure quel magma spento e pietrificato contiene in sé una potenza fertilizzante che, dopo lunghi decenni di apparente staticità, si apre ad una sorprendente fioritura. Ecco spuntare i primi esili, eppure robusti, steli della ginestra. Un giallo-verde che si staglia sul colore scuro della “sciara” ricolorando il paesaggio. Il fatto che Giacomo Leopardi, spettatore di una eruzione del Vesuvio, in uno dei suoi ultimi componimenti – La ginestra o fiore del deserto (1836) – abbia messo in esergo la citazione dal vangelo di Giovanni (3,19) – «E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce» – attesta la sua finale apertura verso una visione esistenziale meno drammatica e disperante: «Questi campi cosparsi / di ceneri infeconde, e ricoperti dell’impietrata lava, / che sotto i passi al peregrin risona; / […] dove tu siedi, / o fior gentile, / e quasi i danni altrui commiserando, / al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo, / che il deserto consola».
È la caparbietà della vita che non cede il passo alla morte, che non le dà l’ultima parola. Per noi cristiani guardare la croce è insieme rinnovare la fede nella resurrezione. Gesù Risorto è il fiore del deserto che spacca la pietra e sprigiona nuova vita e, con essa, rinnovate speranze e la certezza che in Lui l’esistenza di ogni uomo è redenta e aperta all’eternità.
Come non riandare subito con grata memoria al discorso di san Giovanni Paolo II, in visita alla città e alla Chiesa di Catania, indirizzato ai giovani che affollavano lo stadio “Cibali” il 5 novembre 1994? «Voi siete come le ginestre, che germinano sulla lava. La speranza che sentite pulsare dentro di voi è talora minacciata e rischia di mutarsi in ansia e delusione, quando vi trovate ad affrontare precarie condizioni di vita […]. Tutto questo è come la lava, che minaccia le ginestre. […] Se la “linfa” di Gesù scorre in noi, subito cominciano a maturare certi frutti buoni ben riconoscibili».
E sarà vita per sempre!
suor MARIA CECILIA LA MELA osbap