Pagazzi Cesare
Dagli scantinati della paura alla consolazione dei figli/fratelli
2021/3, p. 2
Riflessione teologica ed ecclesiologica di don Cesare Pagazzi, sacerdote della diocesi di Lodi, insegnante di Teologia dogmatica presso gli Studi Teologici Riuniti dei Seminari di Crema-Cremona-Lodi-Vigevano, di cui è direttore e docente incaricato nella Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna

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VITA CONSACRATA PER UNA NUOVA UMANITÀ
Dagli scantinati della paura alla consolazione dei figli/fratelli
Riflessione teologica ed ecclesiologica di don Cesare Pagazzi, sacerdote della diocesi di Lodi, insegnante di Teologia dogmatica presso gli Studi Teologici Riuniti dei Seminari di Crema-Cremona-Lodi-Vigevano, di cui è direttore e docente incaricato nella Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna.
Propongo un’unica prospettiva da cui provare a cogliere la vita consacrata come laboratorio per una umanità nuova: quella del legame fraterno, poiché esso porta alla luce le profonde strutture e forze dell’anima. Se la novità di Cristo non arriva lì, semplicemente non arriva.
Nella recente enciclica Fratelli tutti (Ft) si trova anche minerale radioattivo. La quantità è esigua e potrebbe passare inosservato. Eppure pulsa un’energia potente e paurosa, il cui campo di forze si estende ovunque. Mi riferisco ai brevi passaggi in cui Francesco parla di “abbandono”, o meglio: del sentirsi abbandonati (Ft 28, 72, 85, 97, 234, 273).
Rifiutiamo di vivere da fratelli e sorelle non per capriccio, generico egoismo, o cattiveria superficiale. Dai fratelli e le sorelle ci allontaniamo per paura: dovendo dividere con altri figli il pane, il posto, le risorse, ne resterà a sufficienza per me? Temo che gli altri figli esauriscano le scorte della vita, privandomi dell’indispensabile. Non tener conto di questa profonda, primitiva, multiforme paura, significa esporsi al moralismo che scuote, ma non tocca; urta, ma non smuove; urla, ma non incoraggia. Senza questa paura, non saremmo cattivi. Lo diventiamo certamente dandole ragione.
Paura e fatica della fraternità
Proviamo a intuire la relazione tra paura e fatica della fraternità nella prima scena biblica della fraternità: Caino e Abele. Dopo il loro sacrificio, l’azione del secondo figlio fu gradita, quella del primo no. La scelta del Signore rovescia di fatto l’ordine di nascita: il primo diventa l’ultimo e viceversa. Perché mai questo atteggiamento del Signore? Perché – come dice la Lettera agli Ebrei – Abele offrì un sacrificio «migliore» giacché compiuto «per fede» (Eb 11,4)? Forse perché Caino donò generici «frutti» e non primizie, mentre Abele sacrificò «primogeniti», vale a dire vittime di prima scelta? Oppure dietro al racconto sta la secolare tensione interna ad Israele tra pastori (più vicini all’originaria condizione nomade del popolo eletto) e agricoltori (più facilmente collusi con gli usi e i costumi anche idolatrici dei coltivatori di Canaan)? Ovvero perché Caino era cattivo ed Abele buono? Si è ricorso anche al fatto che più volte e in occasioni decisive Dio non scelga il primogenito, come nel caso di Giacobbe su Esaù, Giuseppe e poi Giuda ma non Ruben, Mosè e non Aronne, Davide invece di Eliab.
A dirla tutta, il testo dice ben poco, per cui al momento si dovrebbe concludere che Dio – non si sa il perché – ha scelto Abele. In qualsiasi caso, a Caino riesce insopportabile la vista di Abele e il suo successo. Mi pare però che l’invidia, il narcisismo e la conseguente violenza siano i sintomi, ma non il morbo che avvelena l’anima di Caino. Morbo che rimane occultato proprio dalla eclatante visibilità degli stessi sintomi. Mi sembra che né la rivalità invidiosa né il narcisismo siano primordiali quanto la paura, la prima situazione emotiva in cui si trova l’umanità dopo il peccato: «ho udito il Tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo e mi sono nascosto» (Gen 3,10).
Dalla paura nasce la fuga nel nascondiglio perché non ci si sente all’altezza dello sguardo di Dio e di chiunque. Caino prova gli identici sintomi: prima la rivalità fino alla violenza e poi il bisogno di ripiegare nel nascondimento (Gen 4,14); segnali che svelano la sua radicale paura. Di che cosa ha paura Caino? Beneficiando delle ipotesi di André Wénin e Roberto Vignolo (forse non alternative) si potrebbe affermare che Caino paventi di non essere all’altezza dell’unico posto a disposizione nell’attenzione della madre e/o in quella di Dio.
Quanto detto è reso in modo mirabile dal racconto. Caino è così sedotto dalla predilezione di Abele (solo di Abele Dio accetta il sacrificio), da non (voler) vedere che solo a lui Dio parla. Di fatto la narrazione riconosce una duplice predilezione: quella di Abele, il solo (reso) capace di offrire un sacrificio gradito a Dio e quella di Caino, il solo a cui Dio riserva una incomprensibile premura, fatta di parole di richiamo, incoraggiamento, consigli, domande, accuse, castighi minacciati e, infine, di una sollecita custodia della sua vita, nonostante tutto.
Dio dedica tempo a Caino. Se “invidia” (= in-videre) significa “non-vedere”, “non-voler-vedere”, “vedere male”, “vedere di malocchio”, si può dire che in Caino l’invidia è ritorta contro se stesso prima che verso Abele, poiché percepisce subito benissimo la predilezione del fratello, ma non riesce a vedere la propria. Il terrore che attanaglia il primogenito di Adamo ed Eva scaturisce dal non credere che ci sia posto per due. Egli nega il posto unico di entrambi perché ritiene che non ci sia altro che un unico posto. Ciò scopre la radice più profonda della paura: considerare l’origine (sia essa la coppia di genitori e/o Dio) inadeguata, insufficiente, incapace di garantire tutta la vita di cui è, appunto, origine. Essa, al massimo, può assicurare una sola scialuppa di salvataggio con un unico posto: tutti gli altri naufraghi – coi quali ci si trova pur legati dal fatto di essere “nella stessa barca” – diventano rivali.
In questo senso, Caino è tutto suo padre e tutto sua madre, poiché condivide il loro identico sospetto circa l’indigenza vitale dell’Origine. Del resto, non era del tutto chiaro e lasciava aperte molte possibili interpretazioni il fatto che Dio avesse vietato di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza e di quello della vita. Forse perché non era ancora il momento del raccolto? Perché i frutti erano indigesti alla prima coppia? Ovvero perché Dio stesso avrebbe colto al momento giusto i prodotti degli alberi, evitando così ad Adamo ed Eva qualsiasi fatica? Oppure perché Dio voleva tenere i frutti solo per Sé? Ma se così fosse stato, ciò avrebbe significato che Dio stesso era a tal punto nelle ristrettezze d’aver paura – condividendo – di perdere il necessario per Sé.
La sensazione dell’abbandono
L’ambivalenza di questa situazione rappresenta una prova, risolta (su suggerimento del serpente) a favore di quest’ultima ipotesi. Vale a dire: Dio non intende condividere con altri il poco che possiede (o il tanto che la paura Gli fa vedere sempre come troppo poco). Adamo ed Eva devono quindi arrangiarsi da soli, garantendosi l’unica possibilità di salvezza ai danni del rivale. Alla fine, «con gli occhi aperti», carpiscono una conoscenza piena di paura, vale a dire un tipo di conoscenza tendenzialmente distorcente la percezione delle cose.
A ben vedere, quindi, il mirino della paura non è puntato innanzitutto su fratelli e sorelle. Il bersaglio è più in alto: Dio. Fin dall’inizio abbiamo la sensazione di esser stati abbandonati da chi ci ha messi al mondo. L’asse nella manica del serpente è proprio questo: chi ti ha dato la vita, sul più bello, ti volta le spalle, riservando a sé quanto è “buono”, “gradevole” e “desiderabile” (Gen 3,7). Tutti gli incoraggiamenti attesi e non arrivati, le promesse non mantenute, le carezze aspettate e mai ricevute, la fame e la sete non onorate, il riconoscimento e la riconoscenza rifiutati, gli affetti strappati dall’infedeltà, dalla malattia e dalla morte, la vita che se ne va, non fanno che confermare la sensazione di esser stati abbandonati da chi doveva prendersi cura di noi.
All’inizio del terribile e magnifico XX° secolo, Martin Heidegger l’aveva scritto con lucidità: ciascuno, prima o poi, ha la sensazione di “essere gettato” nel mondo. Essa disorienta, fa sentire spaesati, suscitando angoscia e solitudine. Una miscela esplosiva da cui emergono strani mostri tra cui, appunto, la paura. Facciamo fatica a sentirci fratelli, perché ci riteniamo orfani e, come tali indifesi, minacciati perfino dal parente più prossimo.
Chi si sente abbandonato e orfano prova un formidabile senso di credito: il mondo, tutti gli devono qualcosa, sono in debito. Perciò l’abbandonato si autorizza a risarcirsi da solo, come e quando vuole, a scapito di tutti, riprendendosi con gli interessi quanto ritiene non gli sia stato dato o gli sia stato sottratto. Si attiva una voracità camuffata da giustizia riparativa: chi mi ha derubato o potrebbe rapinarmi deve ripagare (magari in anticipo, preventivamente). Perciò rubare risorse altrui non è furto, ma riappropriazione, ripresa di possesso del bene di cui si è stati privati. In tal modo chi dà ragione al senso di abbandono crea altri orfani che, a loro volta, si sentiranno legittimati ad autorisarcirsi.
Non sempre chi si sente abbandonato diventa vorace. Infatti, al contrario, può inclinarsi verso il disgusto, il disinteresse, l’inappetenza nei riguardi della vita: è inutilmente pericoloso prendersi cura, interessarsi di qualcuno, legarsi a chissà chi, perché certamente – come già capitato – abbandonerà. Il senso di abbandono partorisce ingordi o disgustati, insaziabili che producono affamati, o gente nauseata da tutto e tutti. Tuttavia il sentimento di abbandono garantisce alcuni privilegi: quello del “tutto mi è permesso, dovuto” e quello del “niente vale la pena”. Perciò non è infrequente che si preferisca rimanere ostinatamente nella posizione dell’“abbandonato” pur di non perdere questi sinistri vantaggi.
«Consolate il mio popolo!»
Se il Vangelo non arriva a questo livello profondo dell’anima, si rischia di curare qualche sintomo della mancata fraternità, senza sradicarne la causa. Si copre la ferita con un po’ di cipria, ma non la si cura. Anzi, il cosmetico infetta la piaga. Ma come si guarisce?
Ormai da cinquant’anni in esilio, Israele si sente abbandonato. Dio comanda: «Consolate il mio popolo!» (Is 40,1). Ciò significa che il Signore riconosce nei suoi interlocutori il potere di consolare e il dovere che ne consegue, riassumendo qualsiasi vocazione e missione nell’atto di consolare. Qualora una vocazione, una missione non fosse in vista della consolazione, sarebbe come quel fico infruttuoso che il padrone del campo intende tagliare alla radice. Si cura il senso di abbandono solo con la consolazione, cioè grazie a un affetto che per calore, cura, giustizia e fedeltà avvince e convince al punto da asciugare le lacrime e calmare i singhiozzi di chi è o si sente orfano… e di chi orfano vorrebbe rimanere. Consola solo chi è fedele alla parola data, sia essa sentimentale, professionale, economica, sociale, politica. Consola chi, né ingordo né disgustato, accetta di essere a sua volta consolato, incoraggiato. Come Paolo che ringrazia d’esser stato consolato, poiché può a sua volta consolare gli afflitti, gli abbandonati (2Cor 1,3-7).
In Fratelli tutti, Francesco indica una consolazione quotidiana, feriale, alla portata di tutti. Facile da donare e ricevere, semplice da cogliere. Eppure rara: la gentilezza (Ft 222-223). Ad essa ci si deve riabilitare, come si trattasse di un braccio che per cattiva abitudine o trauma ha perduto il movimento completo, agile, fluido, privo di sforzo. La gentilezza non è il vacuo e vaporoso galateo di chi vuol darsi un tono, ma affabilità, tatto, buon gusto. La stessa parola “gentilezza” ci aiuta a capirne il senso. Nella Roma antica i nobili erano divisi in “genti”, sicché “gentile” ha assunto il significato di “distinto”, “signorile”. Insomma: un uomo o una donna dal portamento aristocratico, anche senza essere ricco. Siamo nobili, figli e figlie di alto rango, con tanto di anello al dito (Lc 15,22). Altro che orfani! Siamo figli e figlie di un gran Signore! Di uno che ha così tanto affetto e tempo, così tanti soldi da nutrire abbondantemente perfino le cornacchie, da vestire di seta le primule e di pelliccia le stelle alpine. Quando lo capiremo, i frutti della fraternità saranno abbondantissimi.
CESARE PAGAZZI