Chiaro Mario
Sarà beatificato il giudice Livatino
2021/3, p. 29
La prossima beatificazione del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia in nome della fede, è l’occasione per riflettere su un “martire”, esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi.

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UCCISO DALLA MAFIA
Sarà beatificato il giudice Livatino
La prossima beatificazione del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia in nome della fede, è l’occasione per riflettere su un “martire”, esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi.
Un webinar a cura del Centro Studi Rosario Livatino ha inteso celebrare il riconoscimento della qualifica di “martire” per il giudice siciliano e della sua beatificazione prevista entro la metà del 2021. All’incontro hanno partecipato il card. Marcello Semeraro (prefetto della Congregazione delle cause dei santi) e mons. Vincenzo Bortolone (arcivescovo di Catanzaro-Squillace, postulatore della causa di beatificazione del giudice). Sono state proposte due relazioni, una da parte del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, l’altra da parte di Mauro Ronco presidente del Centro studi Livatino.
Un martire civile
Il 21 dicembre 2020 papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle cause dei santi a promulgare il Decreto riguardante il martirio del servo di Dio Rosario Angelo Livatino, ucciso in odio alla fede, sulla strada che conduce da Canicattì ad Agrigento, il 21 dicembre 1990.
La motivazione del Decreto ripercorre i tratti salienti dell’esistenza di Livatino: la partecipazione attiva all’Azione Cattolica e alla vita della propria comunità parrocchiale; il servizio come sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Agrigento; l’assunzione delle funzioni di giudice della sezione penale. Il Decreto ricorda anche l’agguato in cui Livatino venne ucciso, mentre viaggiava da solo, in automobile, per recarsi al lavoro presso il tribunale; ricorda che la dinamica dell’omicidio si caratterizzò per la ferocia degli esecutori e per la mitezza della vittima. In fin di vita, infatti, prima del colpo di grazia esploso in pieno volto, Rosario si rivolse agli assassini domandando: “Picciò (picciotti, ragazzi) che cosa vi ho fatto?”.
La causa dell’omicidio fu la “dirittura morale” del Magistrato “per quanto riguarda l’esercizio della giustizia radicata nella fede”. Durante il processo penale emerse che il capo di uno dei gruppi mafiosi dominanti nel territorio dell’agrigentino lo definiva con spregio “santocchio” per la sua frequentazione della chiesa.
Secondo il Decreto Livatino “era consapevole dei rischi che correva” e continuò a esercitare il suo ministero di magistrato con rettitudine giungendo “ad accettare la possibilità del martirio attraverso un percorso di maturazione nella fede”, divenuta con il trascorrere del tempo sempre più consapevole e viva (ricevette il sacramento della Cresima a trentacinque anni). Egli rifiutò la scorta per non esporre a pericoli altre persone, preferendo accettare il rischio per la sua vita piuttosto che pregiudicare l’esistenza di persone la cui morte avrebbe lasciato “vedove e orfani”.
Nell’apprendere la notizia della promulgazione del Decreto molti hanno sottolineato il coraggio e la determinazione che Livatino mostrò nel contrastare sul piano della legalità le prevaricazioni della mafia. Altri commentatori hanno evidenziato la sua austerità di vita, indisponibile a essere “avvicinato” da persone mosse da equivoche e torbide intenzioni. Altri ancora hanno messo in luce l’alto senso che egli aveva della dignità della sua funzione, tale da indurlo sempre all’assoluto riserbo. Don Giuseppe Livatino, suo omonimo, già postulatore della causa per il martirio, ha dichiarato al riguardo: «Livatino fu estremamente riservato e schivo a ogni palcoscenico. Non volle mai far parte di gruppi, associazioni o club-service. Pochissime le foto ritrovate. Non c’è una sua intervista in dodici anni da magistrato. Mai dalla sua bocca uscì una sola indiscrezione sulle indagini che andavano svolte nel riserbo cercando prove e riscontri». Notevole fu il suo rispetto verso gli accusati e l’anelito a raggiungere la verità nel processo, sempre ricercata con l’aiuto di Dio e come compito arduo e ineludibile del suo ministero.
Schiena dritta e cuore di fede
Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, compagno di corso di Livatino, ha situato la sua azione nel particolare contesto degli anni in cui era forte in Sicilia la Stidda, organizzazione in ascesa che contendeva a Cosa Nostra il controllo delle attività illecite: appalti, traffico di droga, riciclaggio. Il giudice venne ucciso proprio da alcuni stiddari di Canicattì e Palma di Montechiaro, come segnale di potenza militare verso Cosa Nostra.
De Raho ha ricordato in particolare una riflessione pubblica di Livatino, nel 1986 presso l’istituto delle Suore Vocazioniste: è ancor oggi un documento di altissimo valore in cui si esprime la relazione tra fede e Costituzione. Egli ha sottolineato anche la sofferenza che produceva nel futuro martire il fatto di infliggere una pena, nel rispetto della dignità di ogni persona e delle regole. Il giovane magistrato cercava sempre di difendere il diritto di libertà insidiato dall’intimidazione mafiosa. Perciò il “giudice ragazzino”viveva costantemente confidando nella protezione di Dio, come è attestato dalle sue agende personali ove appare sistematicamente la sigla S.T.D., “Sub Tutela Dei”. Celebre fu l’invettiva contro la mafia di Giovanni Paolo II nella sua visita ad Agrigento nel 1993: parole durissime pronunciate proprio dopo l’incontro con i genitori del giudice Livatino, evocando i “martiri della giustizia e indirettamente della fede”.
Il procuratore antimafia ha voluto ricordare infine un particolare importante: la presenza di un testimone che non si allontanò dal luogo dell’agguato, ma osservò e denunciò il delitto, mostrando così di mettersi sulla stessa lunghezza d’onda del magistrato, perché l’unico percorso possibile è quello di adempiere al proprio dovere! Livatino è davvero un modello di umiltà, di credente che tende all’esercizio credibile della funzione coltivando una religione impregnata di solidarietà, carità e giustizia. “Schiena dritta e cuore di fede”, in prima linea col petto scoperto.
Diritto e morale
In un tempo in cui sembra prevalere la separazione della sfera del diritto dalla sfera della moralità, Livatino ha imboccato una via diversa, conforme alla verità intrinseca del diritto. Il giurista Mauro Ronco ha ricordato che il “diritto è distinto, ma non separato dalla morale: è quella parte che riguarda la giustizia delle relazioni di ciascuno con gli altri e con la società nel suo insieme”. Il diritto è costituito infatti essenzialmente da una relatio ad alterum. Se manca questa relazione si resta nella sfera soggettiva. Ciò non avviene quando la condotta dell’uomo interferisce con il bene degli altri e dell’intera società. Il fine del diritto è la realizzazione del bene comune.
Nella già ricordata relazione del 1986 intitolata “Fede e Diritto”, il giovane magistrato, riconoscendo la relativa autonomia del fine temporale dell’uomo, rimarcava però che tale fine va connesso a quello trascendente e soprannaturale della felicità eterna. Pertanto, la legge deve essere giusta, in quanto strumento necessario al bene comune della società. Accentrando l’attenzione sull’uomo concreto, Livatino rilevava che questi, in quanto creato a immagine e somiglianza di Dio e chiamato all’unione con lui, ha il diritto fondamentale a non essere ostacolato dalle leggi e dalle istituzioni a raggiungere il fine più alto.
Le parole di Livatino, “fedele laico” e operatore di giustizia, additato dalla Chiesa come esempio per i giuristi, debbono indurci a “ritornare alle fonti della tradizione cattolica del diritto naturale”. Tommaso d’Aquino scrive: “ciò che i giuristi denominano ius è lo stesso che Aristotele denomina giusto”. Egli ricollega strettamente il diritto all’azione giusta della persona che realizza la giustizia. In altri termini: “il diritto consiste nella realizzazione concreta della giustizia nell’uomo”. La definizione tomista è imperniata sul vincolo tra il giusto e la condotta virtuosa dell’uomo: si tratta di una convinzione universale, che si rivela semanticamente nelle definizioni come “Corti di giustizia” degli organi giurisdizionali che hanno per compito l’applicazione della legge. Le Corti si chiamano “di giustizia” perché giudicano della qualità morale di una condotta umana, che ha per oggetto una qualità morale e sociale di un altro soggetto.
La beatificazione di Rosario Livatino sia l’occasione per parlare di lui in misura maggiore di quanto accaduto finora, presentandolo come un cristiano che ogni giorno, capace di distinguere le realtà temporali dalle proprie convinzioni, poneva la coscienza nelle mani di Dio. Egli non cercava la morte, ma l’ha incrociata mentre operava per umanizzare la società civile. «Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge» (papa Francesco, Discorso ai membri del Centro studi Rosario Livatino, 29/11/2019).
MARIO CHIARO