Doglio Claudio
La salita di Dante e il volo di Ulisse
2021/3, p. 21
Nel VII centenario della sua morte, avvenuta a Ravenna nella notte del 13 settembre 1321, sembra doveroso parlare di questo grande personaggio, che ha segnato la nostra cultura e contrassegnato la storia d’Italia.

Accedi alla tua area riservata per visualizzare i contenuti.

Questo contenuto è riservato agli abbonati a
Testimoni
.
NEL VII CENTENARIO DELLA MORTE
La salita di Dante e il volo di Ulisse
Nel VII centenario della sua morte, avvenuta a Ravenna nella notte del 13 settembre 1321, sembra doveroso parlare di questo grande personaggio, che ha segnato la nostra cultura e contrassegnato la storia d’Italia.
Uomo strano e geniale, visionario passionale intriso di spirito biblico e profetico, Dante Alighieri ha composto il suo poema sacro – al quale, come dice lui stesso, ha messo mano e cielo e terra (Pd. XXV,1-2) – per valorizzare la propria vita, per dare senso alla sua esistenza e interpretare quel mondo che, per l’esperienza pratica da lui vissuta, era confuso, disordinato, senza senso.
Nel VII centenario della sua morte, avvenuta a Ravenna nella notte del 13 settembre 1321, sembra doveroso parlare di questo grande personaggio, che ha segnato la nostra cultura e contrassegnato la storia d’Italia. Fra le infinite cose che si potrebbero dire di lui, voglio semplicemente ricordarlo come un laico credente, appassionato lettore della Bibbia e capace di costruire una mirabile cattedrale letteraria, teologica e spirituale, profondamente radicata nella rivelazione biblica.
Il cammino della nostra vita
Il celeberrimo primo verso della Commedia colloca l’esperienza del viaggio ultraterreno nel mezzo del cammin di nostra vita. Muovendo dal Salmo 89 che indica in settanta gli anni della vita media, Dante colloca la sua straordinaria vicenda nell’anno 1300, quando – essendo nato nel 1265 – aveva appunto trentacinque anni. È la sua vicenda, ma adopera un plurale: non dice “della mia vita”, ma “della nostra”, coinvolgendo così il lettore immediatamente. La nostra vita diventa oggetto dell’attenzione del poema, ma subito entra in gioco la persona del poeta (mi ritrovai), che ha vissuto in modo particolare un’esperienza capace di illuminare la nostra comune vicenda umana.
L’incipit fa riferimento ad un testo del profeta Isaia: Ezechia, re di Giuda, colpito da grave malattia, innalza a Dio una supplica, perché nonostante sia giovane pensa di essere sul punto di morire. Il cantico di Ezechia inizia proprio così: «A metà dei miei giorni andrò alle porte degli inferi» (Is 38,10Volgata) e intenzionalmente Dante si mette nei panni del re biblico, che sta per morire eppure guarirà perché, grazie all’intervento del profeta, il Signore gli concede un supplemento di anni. L’inizio del poema dantesco riprende dunque un testo biblico e precisa che si tratta del cammino della nostra vita: è tipico della Bibbia paragonare la vita ad un cammino e usare metaforicamente il verbo “camminare” per indicare la morale e suggerire il prezioso tema del pellegrinaggio.
Il popolo di Israele è in cammino fin dall’inizio, a partire da Abramo, che – obbedendo al Signore – si mise in cammino; la storia biblica è spesso proposta come un itinerario verso la meta finale e il pio israelita è invitato a salire verso Gerusalemme; Dante assume quindi il pellegrinaggio verso le stelle come metafora dominante in tutto il suo poema. Il poeta compie un viaggio lungo e strano, e lo racconta in modo che il lettore si faccia pellegrino con lui: è un viaggio teologico, finalizzato a ritrovare se stesso dopo che la diritta via era smarrita. Quest’altra metafora introduce il tema morale dello smarrimento di chi ha perso il senso della vita: è la crisi di mezza età, il dramma che coglie la persona in un momento decisivo di svolta, una fase in cui sembra che tutto cada.
Un’esperienza pasquale
Il viaggio di Dante inizia simbolicamente nell’oscurità del venerdì santo e la sua discesa agli inferi coincide – quasi attualizzazione liturgica – con quella di Cristo stesso: quando esce a rivedere la luce, dall’altra parte del mondo, è il mattino di Pasqua, 10 aprile 1300. Tale coincidenza vuole suggerire la risurrezione di Dante stesso, il quale, dopo aver sperimentato in modo vivace e drammatico come il peccato rovini la vita umana, risorge con Cristo e inizia la sua ascesa di purificazione, che avviene durante la settimana in albis: tempo del rinnovamento e della mistagogia, simbolo dell’intera vita del cristiano, in cui la redenzione diviene efficace. Il poema dantesco, frutto di un ripensamento intenso sulla propria condizione, si propone dunque come un’applicazione personale della vicenda pasquale di morte e risurrezione: è un modo sublime di rielaborazione del lutto.
Mentre negli anni del suo esilio – dal 1302 alla morte – sperimenta il dramma della rovina, il poeta umanamente fallito desidera con ardore e ricerca il senso della sua vita. Dante colloca inoltre il suo pellegrinaggio ultraterreno nella Pasqua del primo Anno santo, occasione straordinaria del Giubileo, tempo della grande Perdonanza: il suo è un cammino penitenziale e purificatore, un itinerario – all’interno di sé e alla luce della rivelazione biblica – volto a “ritrovarsi”. Il versetto di Isaia («A metà della mia vita andrò alle porte degli inferi») è la scintilla iniziale del viaggio di uno che ha perso la strada e si lascia guidare per ritrovarla in pienezza, per rielaborare il senso di tutto e aver chiara la meta a cui tendere. Nella selva oscura in cui si è smarrito, però, non c’è solo male, ha trovato anche del bene: nella situazione di crisi ha ritrovato la via, ha escogitato un progetto letterario che lo salva e lo fa diventare grande. Attraverso la sua fantasia e la coscienza morale, guidato dalla ragione, dalla teologia e dalla mistica, Dante esce infatti dal chaos e ritrova il kosmos, e scopre con immensa gioia l’ordine meraviglioso del mondo e della storia che gli era parso offuscato o inesistente.
La navicella del suo ingegno
Superando l’interesse immediato per le invenzioni dantesche sui tre regni dell’altro mondo, un lettore moderno che, come Dante, crede nella rivelazione biblica, ha la possibilità di scoprire, con notevole gusto, il racconto di un itinerario di fede come riscoperta del senso e tensione verso l’incontro personale con l’Amor che move il sole e l’altre stelle (Pd. XXXIII,145). L’itinerario prevede una salita, tanto che fin dal principio Dante parla del dilettoso monte (Inf. I,77) che – pur nell’oscurità del bosco e nell’angoscia che lo assale – gli appare come fonte di serena tranquillità.
Si paragona quindi ad un naufrago, che, uscito dal mare in cui rischiava di annegare, può voltarsi indietro e guardare il pericolo mortale ormai lasciato alle spalle e superato (cfr. Inf. I,22-27). La metafora del navigante, che segna l’inizio dell’Inferno, prepara l’inizio del Purgatorio, quando Dante, sulla spiaggia alle pendici dell’alto monte, annuncia il tema della seconda cantica: Per correr miglior acque alza le vele / ormai la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele (Pg. I, 1-3). Ora non è più un naufrago ma un marinaio esperto, che si accinge ad un’altra e migliore navigazione: solo adesso, dopo aver visto l’abisso del male ed averne raggiunto il fondo, può cominciare a salire la montagna dalle sette balze che purifica l’uomo dalle sette radici del peccato e lo rende degno di salire al ciel (Pg. I,5-6). Il percorso giubilare di Dante coincide infatti con la trasformazione della persona secondo il progetto iniziale di Dio e il recupero della grazia originale.
Il superamento dell’umana follia
Dante concepì questo viaggio come un itinerario di rivalutazione personale, frutto di un cambiamento profondo nella sua coscienza: pur consapevole di avere idee teologiche e politiche di prima qualità e una visione della realtà tale da poter dare forma ad un mondo migliore, ad un certo punto della sua vita si rese conto che l’impegno politico e sociale in cui si era gettato disordinatamente negli anni della giovinezza non aveva prodotto alcun risultato, e che di fatto non riusciva a determinare scelte concrete nella sua società. Escogitò allora la strada di una creazione letteraria che fosse in grado di portare, con il tempo, quei frutti che lui personalmente non era riuscito ad ottenere: ponendosi su un sentiero letterario e religioso piuttosto diffuso – molti testi antichi e medioevali avevano narrato esperienze mistiche e rivelazioni sull’aldilà – elaborò in modo unitario un universo letterario, filosofico e teologico che fa emergere in modo grandioso, nel confronto con le opere simili, l’enorme superiorità del suo ingegno e delle sue capacità.
Il progetto è davvero fuori dall’ordinario e il poeta teme in partenza che il suo viaggio possa essere considerato folle (Inf. II,35). Poiché Dante chiama follia l’atteggiamento dell’uomo che si mette al posto di Dio, la pretesa superba dell’autosufficienza, si rende conto che con il suo progetto rischia davvero di mettersi al posto di Dio. Consapevole dei propri limiti, tuttavia, riconosce che avviene proprio il contrario: viveva una esperienza di follia che rischiava di portarlo al fallimento finché era nella selva oscura; quando invece rientra in se stesso e ripensa tutta la vicenda umana e cosmica nella prospettiva di Dio, allora avviene la guarigione dalla follia. Dante rivela così al lettore di aver sentito in sé una specie di vocazione divina a offrire all’umanità uno strumento grandioso: umilmente deve ammettere che si considera un profeta, uno strumento eletto per proporre un viaggio all’interno della sua esistenza personale al fine di chiarire il senso della storia universale. Per questo il suo cammino non è folle ma sapiente, cioè secondo il pensiero di Dio.
Superato il peccato infernale e riemerso sul lido del Purgatorio, all’alba di Pasqua, Dante si premura di dire che nessuno, dopo aver navigato quelle acque, ha mai fatto ritorno: è voluto il riferimento a Ulisse, di cui il canto XXVI dell’Inferno ha raccontato la navigazione attraverso quelle stesse acque fino alla montagna bruna davanti alla quale naufragò. Mentre quel viaggio è definito folle volo (Inf. XXVI,125), Dante arriva ora dove Ulisse non poté arrivare. Virgilio presenta il poeta a Catone, dicendogli che – nonostante non sia ancora morto – la sua follia lo ha portato molto vicino alla morte (Pg. I,59), e perciò la ragione umana e la grazia divina sono intervenute per cercare di salvarlo. Il tema della follia è un filo conduttore nel discorso dantesco, e grazie all’abile gioco di richiami e riferimenti incrociati ne riconosciamo l’intenzione: se il folle volo di Ulisse rappresenta l’arroganza dell’uomo che pretende con le sue sole forze di raggiungere tutta la conoscenza, il viaggio di Dante non è affatto folle, perché è guidato da Dio. Ulisse arrivò a vedere quella montagna ma non poté tornare indietro e, com’altrui piacque (Inf. XXVI,141) annegò: Dante invece, com’altrui piacque (Pg. I,133), viene cinto di umiltà e può iniziare la salita sul monte, che lo renderà puro e disposto a salire a le stelle (Pg. XXXIII,145).
CLAUDIO DOGLIO