Cozza Rino
Racconto silenzioso di una vita spesa per amore
2021/3, p. 8
Papa Francesco presenta S. Giuseppe come un Padre amato, Padre nella tenerezza, Padre dell’obbedienza, Padre nell’accoglienza, Padre del coraggio creativo, Padre nell’ombra, come una persona che ha fatto della sua vita un servizio, non nella logica del sacrificio ma del dono di sé.

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LETTERA APOSTOLICA PATRIS CORDE SU S. GIUSEPPE
Racconto silenzioso
di una vita spesa per amore
Papa Francesco presenta S. Giuseppe come un Padre amato, Padre nella tenerezza, Padre dell’obbedienza, Padre nell’accoglienza, Padre del coraggio creativo, Padre nell’ombra, come una persona che ha fatto della sua vita un servizio, non nella logica del sacrificio ma del dono di sé.
Con la lettera apostolica “Patris corde” (con il cuore di padre) papa Francesco getta luce su s. Giuseppe facendone l’emblema delle persone che lavorando silenziosamente, lontano dai riflettori, stanno scrivendo gli avvenimenti decisivi della storia. Figure che, a pari di s. Giuseppe, il Papa definisce apparentemente nascoste o in seconda fila rispetto al palcoscenico della storia, ma che invece sono figure che si fanno carico delle fragilità altrui curandone le ferite del corpo e dell’anima, con sguardi di tenerezza sulle persone, facendo avvertire nei loro sguardi la tenerezza propria, e di Dio.
Il Papa, parlando di s. Giuseppe, ci rende consapevoli che le nostre vite sono tessute e sostenute da persone solitamente dimenticate, nascoste, e che da posizioni apparentemente di seconda linea hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza attraverso gesti che sanno dire agli “affaticati”, agli umiliati, ai senza voce: io sono con te, amo la tua sofferenza, la tua solitudine, il tuo cercare la vita; amo le tue lacrime e la tua debolezza: non c’è nulla di te che mi lasci indifferente. Persone che come s. Giuseppe sono vicine alla condizione umana di ciascuno di noi.
La “lettera apostolica”, dopo le premesse che la motivano, continua con il mettere in evidenza alcuni tratti che caratterizzarono la persona di Giuseppe, per aver fatto della sua vita un servizio, non nella logica del sacrificio ma del dono di sé, ponendosi così al servizio dell’intero disegno salvifico.
Nelle seguenti riflessioni seguirò l’ordine della lettera stessa, mettendo in evidenza ciò che maggiormente interpella i consacrati, i quali, come Giuseppe, hanno posto la loro vita al servizio del disegno di Dio.
Giuseppe «padre amato»
Paolo VI disse che la paternità di Giuseppe si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio», nella logica del dono di sé. Vale a dire che si diventa padri o madri non solo perché si mette al mondo un figlio, ma tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro.
Questo è stato il suo ruolo nella storia della salvezza e per questo è stato un padre sempre amato dal popolo cristiano, come dimostra il fatto che nel mondo gli sono dedicate numerosissime chiese, e che molti Istituti religiosi, e gruppi ecclesiali si sono ispirati alla sua spiritualità.
Il riconoscimento di s. Giuseppe quale padre dei cristiani, è dovuto all’essere stato padre all’interno della famiglia di Gesù, vale a dire all’interno di quel modello che è capace di generare quella comunione che fa attenti al riconoscersi dai volti e non dai ruoli e dalle maschere; quel modello che orienta alla bellezza del vivere, a partire dal custodire la qualità dell’umano, in tutta la sua ricchezza, sensibilità, impulso vitale, desiderio, emozioni.
Per una vita familiare che assomigli a quella della famiglia di Gesù si richiede oggi una nuova forma di comunitarietà in cui il modello formativo dei consacrati/e «non può prescindere dal far interagire e dialogare tra loro le due componenti essenziali d’un cammino di crescita: la dimensione spirituale e umana».
C’è dunque l’urgenza di fraternità costruite sul paradigma relazionale della famiglia con parole e comportamenti tipici degli ambienti familiari, amicali, empatici, piuttosto che quelli modellati in profili sacro-formali oppure aziendali, tenendo conto inoltre che per le generazioni più giovani, se la comunità vuole essere famiglia non può riproporre quel modello in cui è norma «la dipendenza come valore indiscutibile e sacralizzato»; questo non è il modello di famiglia delle nuove generazioni, per le quali c’è stato il passaggio ad una famiglia fondata sulla relazione e su patti di reciprocità.
Allora mai come oggi la vita religiosa è pungolata a essere nuova con il trovare nuove forme che abbiano la capacità di sollecitare nell’altro le sorgenti della comunione a cui si arriva abilitandosi alle relazioni che nascono dall’incrociare sguardi, preoccupazioni, desideri, riflessioni; inoltre forme in cui «tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità, ci si ricordi che non è mai un esercizio di possesso, ma segno che rinvia a una paternità più alta».
Dunque la VC, per esserci nel futuro non ha che la scelta di ritornare a prendere sul serio il rivoluzionario ordinamento di vita fraterna proposta da Cristo, secondo cui, nel gruppo dei discepoli la relazione tra essi rifiuta in maniera categorica qualunque forma di superiorità, escludendo così nella vita della comunità ogni somiglianza, in maniera radicale, con il sistema di potere e di sottomissione in uso nella società, in fedeltà al tuttora disatteso mandato di Gesù: «tra voi non sia così». In questo è riposto il futuro delle nuove forme discepolari.
In una intervista concessa a p. Spadaro, il Papa raccontò una sua esperienza di paternità: «Ho visto che è stata ripresa dai giornali la telefonata che ho fatto a un ragazzo che mi aveva scritto. […] Per me questo è stato un atto di fecondità. Mi sono reso conto che quel ragazzo ha riconosciuto in me un padre; […] e il padre non può dire “me ne infischio”. Questa fecondità mi fa tanto bene. [...] Diversamente si è scapoloni o zitelle vale a dire incapaci di fecondità, incapaci di dare vita perché non si è né padri né madri».
Padre nella tenerezza
Nella lettera «Patris Corde» è detto che l’atteggiamento privilegiato di comunicazione e di umanizzazione, è la tenerezza, e nel nostro caso quella tenerezza di Dio che Gesù ha visto in Giuseppe.
Il rischio di un discorso sulla tenerezza è di confinarla unicamente nell’orizzonte dei sentimenti e delle parole, e delle emozioni passeggere. Invece è un discorso forte.
Il Papa con il dire che Dio è tenerezza è andato oltre alla immediata suggestione e percezione del termine, facendoci capire che la tenerezza nella sua gratuità, contiene una rivelazione del volto di Dio.
Dunque noi non siamo soltanto i nostri ragionamenti, la nostra volontà, il nostro saper-fare, perché c’è in noi un «io» più profondo che tutte le religioni hanno sempre chiamato “cuore”. Il ritorno a questo è il grande percorso che porta a forzare l’aurora del futuro. Infatti il cuore è la sede delle continue nascite, il tempio del silenzio, il luogo ove si decide chi ha la precedenza sul trono della nostra vita. Allora non bastano le ricette intellettuali; c’è bisogno di chi e di qualcosa che sappia far vibrare il cuore.
Papa Francesco con il dire che Dio è «abbraccio», ha inteso dire che perché una relazione sia vera, sono di aiuto pure gli affetti, che non si possono togliere dalla persona umana, perché sono integrati nella vita.
Oggi poi in cui la gente – dice ancora il Papa – «ha bisogno che noi testimoniamo la misericordia», l’incontro con l’altro non può essere intellettuale o astratto, ma per arrivare ad essere un contatto con la carne e la sua sofferenza, deve avere i tratti della tenerezza: è questa la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi e negli altri. L’efficacia di questo sta nell’essere disarmante, nel non imporsi, ma nel saper attendere con fermezza e con fiducia; nel non bloccare con atteggiamenti di superiorità, ma nell’andare incontro.
È questo il Dio che Gesù ci comunica: un Dio pieno di compassione, vicinanza, solidarietà, conforto, e lo fa stando in mezzo alla gente e insegnando una sensibilità e un modo di essere e di sentire ricco di compassione quale atto di amore incondizionato fatto di attenzione, ascolto, perdono, guarigione, incoraggiamento, fiducia, superamento dei pregiudizi.
Per la nostra vita ci può allora essere di conforto il pensare che «l’ostacolo alla testimonianza non è dato dall’essere peccatori, ma dal non sentirsi davvero appassionati e vitali nell’incontro con l’altro, nell’essere privi di tenerezza».
Padre dell’obbedienza
In Giuseppe, l’obbedienza la si trova espressa nel suo domandarsi: «cosa mi chiede il Signore? Che cosa vuole ottenere con quello che mi chiede? E in quale modo desidera che io agisca?». Domande che nascono dal sapere, nella fede, che la vita è sempre nelle mani di quel Dio che sa ciò che è meglio per noi.
Giuseppe ci insegna che avere fede in Dio, comprende pure il credere che egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca come fecero, con i loro «sì», Maria e Giuseppe «quando si resero conto che non tutto di Dio è decifrabile attraverso gli insegnamenti che in Israele venivano impartiti lungo tutto l'arco della vita».
In s. Giuseppe l’obbedienza si pose tra ascolto e visione. Dire «obbedienza» (da ob-audire), è affermare la capacità-dovere di «ascoltare» umilmente tutti e anche tutto. C’è un testo di Isaia (50,4-5) che riflette questa intuizione: «ogni mattina il Signore fa attento il mio orecchio perché io ascolti come discepolo». L’ob-audire «era una reciproca narrazione con Dio, di ciò che si vedeva, udiva, e capiva, piuttosto che una sottomissione della volontà».
Nella vita consacrata, allora, professare questo voto significa proclamare la propria responsabilità nei confronti della storia e delle persone con le quali si condivide un carisma, per cui il consacrato deve avere lo sguardo lungo e continuare a guardare più in là, per intravvedere il passo successivo. Perciò l’obbedienza, dev’essere accompagnata dall’inquietudine profonda della ricerca: ecco perché non può essere cieca. «Probabilmente fu la successiva gerarchizzazione dei rapporti che portò a vivere l’obbedienza non come un dialogo ma come un formale legame tra le persone.
A s. Giuseppe Dio ha rivelato i suoi disegni tramite i «sogni» che nella Bibbia venivano considerati come uno dei mezzi con i quali Dio manifestava la sua volontà; oggi i suoi disegni Dio li manifesta tramite i «segni dei tempi» che non centrano con il sonno ma con la vigilanza.
Da quanto detto emerge che la mistica dell’obbedienza non è la mistica della sudditanza, ma, come in Giuseppe, è la mistica della responsabilità, senza la quale non c’è etica. Responsabilità che chiama in causa la libertà, non quella chiusa in se stessa, ma «in relazione», che per essere tale deve evitare l’unilateralità dell’«ascolto». Conseguentemente all’interno di un insieme di persone che tendono a discernere la volontà di Dio, il servizio dell’autorità si connoterà, a differenza delle forme direttive di tipo manageriale, per l’essere un servizio che si fonda sull’attenzione alla libertà dell’altro.
Padre nell’accoglienza
Penso non sia azzardato pensare che dagli atteggiamenti di Giuseppe, Gesù abbia anche preso lo spunto per le parabole, ad esempio, del figlio prodigo e del samaritano, le quali evidenziano che il concetto di accoglienza comporta irrinunciabilmente il concetto dell’«avere cuore», espresso nei gesti di ascolto, di pazienza, di dono, di pace. Dunque un modello di spiritualità che si faccia disposizione d’animo a percepire dall’interno le inquietudini dell’uomo.
Tutto ciò viene a dire in particolare ai consacrati e consacrate che non è possibile incontrare gli altri unicamente per un utile, parziale servizio, ma solo con l’investire la vita nel vivere la vicinanza, nel sedersi accanto per aiutarlo a diventare ciò che uno è in verità, unica strada verso la felicità.
Si tratta quindi di chiederci che cosa significhi oggi, essere e operare da consacrati/e partendo dal fatto che al cuore della consacrazione non si pongono – non dovrebbero porsi – innanzitutto dei servizi, ma un incontro, ricco di stupore e di fascino con Cristo, che invita a essere e fare, in qualche misura, ciò che lui ha fatto. Diversamente c’è il rischio che la Chiesa si abitui, un po’ per volta, all’assenza della vita religiosa, perché se certi “servizi” che fino a oggi ci hanno visti impegnati sono proposti quali «carismi», allora sono i «carismi» a non venire sentiti essenziali. Con questo si intende dire che gli ambienti dei religiosi dovrebbero oggi proporsi quale spazio per scelte dove l’incontro, prima o al di là del bisogno cui rispondere (didattico, assistenziale, culturale ecc.), avvenga con il volto delle persone. Servono allora luoghi che rispondano alla ricerca e all’inquietudine che accompagnano la vita, specie dei giovani.
Quando questo non avviene, «può accadere – è detto nella istruzione “Scrutate” - che col tempo le esigenze sociali convertano le risposte evangeliche in risposte misurate sull’efficienza e la razionalità «da impresa», finendo con il perdere l’autorevolezza, l’audacia carismatica e la parresia evangelica, perché attratta da luci estranee alla sua identità».
Padre del coraggio creativo
La prima espressione di coraggio in Giuseppe, è stata quella di non essere mai stato un uomo passivamente rassegnato, ma di aver saputo affrontare a occhi aperti ciò che di volta in volta gli stava capitando, anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza, senza cercare scorciatoie, ma assumendo in prima persona il coraggio di accogliere con fiducia i progetti di Dio, che comportavano decisioni difficili, ai fini di cura della sua famiglia: difenderla, custodirla e accompagnarla.
S. Giuseppe lo si riscontra ancora coraggiosamente creativo, quando, ad esempio, giungendo profugo a Betlemme e non trovando un alloggio dove Maria potesse partorire, sistema una stalla e la riassetta, affinché diventi quanto più possibile un luogo accogliente per il figlio di Dio che viene nel mondo (Lc 2,6-7). Ed ancora quando per difendere il bambino, nel cuore della notte, organizza l’impegnativa fuga in Egitto (Mt 2,13-14).
Non ci vuole molta immaginazione per colmare il silenzio del Vangelo a questo proposito: certamente Giuseppe, Maria e Gesù avranno inoltre dovuto mangiare, trovare oltre all’alloggio anche un lavoro; fare del nuovo ambiente il proprio ambiente.
All’inizio di ogni vicenda, il Vangelo annota che Giuseppe si alza, prende con sé Gesù e Maria, i tesori più preziosi che lui avesse, e fa ciò che Dio gli ordinava (Mt 1,24; 2,14.21).In effetti Gesù si era fatto bisognoso di Giuseppe come padre, non solo per essere difeso e aver salva la vita, ma anche per imparare il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane frutto del proprio lavoro. Pertanto se Dio si è fidato di Giuseppe nel compito di cura nei confronti di Gesù e di Maria, possiamo anche noi fidarci della sua custodia.
L’aver qui messo in luce il coraggio creativo di Giuseppe porta a renderci conto quanto oggi proprio di questo la vita religiosa sia mancante, specie in prospettiva di progetti d’avvenire.
Padre nell’ombra
Infine nel Vangelo, la personalità di Giuseppe appare connotata da un eloquente atteggiamento riflessivo e silenzioso. Un silenzio che non era vuoto, ma spazio ricco d'anima, al fine di un ininterrotto ascoltare dentro di sé Dio e gli altri. Nel suo silenzio trovava certamente posto anche la sofferenza, che era tanta, trasformandola in qualcosa che allarga gli orizzonti e li rende più umani, non fermandosi alle possibili lamentele, ma piuttosto a rendersi conto di quanta fiducia in Dio lui avesse bisogno.
Nel suo silenzio hanno trovato spazio e significato i momenti di solitudine, la lacerazione interiore, la preghiera, la decisione di proseguire nel cammino, affidandosi al Signore, ma anche il sogno di nuove strade attraverso cui il futuro potesse introdursi nella storia.
Ho sotto gli occhi ciò che scrisse un mio confratello e compagno di studi, p. Ettore Cunial – la cui causa di canonizzazione è iniziata qualche mese fa – il quale in una meditazione ai confratelli, riflettendo su san Giuseppe, ebbe modo di parlare del ruolo del silenzio in questi termini: «Il più delle volte noi scegliamo il silenzio per non mentire, per non far conoscere i fatti nostri, per mettere pace, [...] ma non era mai capitato prima di s. Giuseppe, che uno operasse una scelta di vita, progettata sugli aspetti positivi del silenzio».
È proprio questo ciò di cui oggi ha bisogno la vita religiosa per poter essere ricercata nel futuro.
RINO COZZA