La rivoluzione del Terzo settore
2021/2, p. 1
In queste pagine portiamo a conoscenza, in forma sintetica e semplificata,
del contenuto del Vademecum esplicativo della Riforma del Terzo settore
con particolare attenzione alle peculiarità e necessità degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica operanti in Italia. Il documento, redatto da CISM e USMI in collaborazione con il Centro studi sugli Enti ecclesiastici (Cesen), oltre a offrire alcune chiavi di lettura della Riforma,
propone criteri utili a coglierne opportunità e rischi, tutti da valutare.
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CHIAVI DI LETTURA, OPPORTUNITÀ E RISCHI
La rivoluzione del Terzo settore
In queste pagine portiamo a conoscenza, in forma sintetica e semplificata,del contenuto del Vademecum esplicativo della Riforma del Terzo settore con particolare attenzione alle peculiarità e necessità degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica operanti in Italia. Il documento, redatto da CISM e USMI in collaborazione con il Centro studi sugli Enti ecclesiastici (Cesen), oltre a offrire alcune chiavi di lettura della Riforma, propone criteri utili a coglierne opportunità e rischi, tutti da valutare.
Quando parliamo di Terzo settore facciamo riferimento al cosiddetto mondo “non profit”, che il legislatore italiano ha inteso riformare. La Riforma rappresenta per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica una grande opportunità e, al tempo stesso, una sfida. Mentre apre importanti prospettive d’impegno nelle attività di utilità sociale, dove la carità cristiana è particolarmente sollecitata, al tempo stesso richiede ai singoli Istituti una chiara consapevolezza del proprio carisma e della propria “mission” ecclesiale.
Il via alla Riforma è stato dato con la Legge delega per la Riforma del Terzo settore, in vigore dal 3 luglio 2016. Alla Legge delega sono seguiti, entro i primi giorni di agosto 2017, cinque diversi decreti legislativi – tra i quali il Codice del Terzo Settore e il Decreto sull’impresa sociale – e nell’anno successivo due decreti correttivi degli stessi nonché numerosi atti di natura amministrativa. E non è finita: si è in attesa dei tempi che fissano l’entrata in vigore della Riforma nel suo complesso e la messa a regime del Registro unico nazionale del Terzo settore.
Scopi e condizioni della Riforma
La Riforma persegue diversi scopi: (1) razionalizzare la precedente disciplina, caratterizzata da numerose normative di dettaglio, spesso poco coordinate con gli altri settori dell’ordinamento; (2) valorizzare il Terzo settore come partner essenziale della pubblica amministrazione e di progressiva regressione del welfare state; (3) “professionalizzare” l’attività degli enti del Terzo settore in ragione dei servizi prestati e (4) assicurare forme di trasparenza sull’operato degli enti del Terzo settore.
Per le loro caratteristiche istituzionali e in conformità al proprio carisma, gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica svolgono tradizionalmente numerose attività previste dalla Riforma come proprie del Terzo settore: «interventi e prestazioni sanitarie e socio-sanitarie»; «interventi e servizi sociali», che di fatto descrivono le innumerevoli opere di carità; «integrazione sociale dei migranti» e «cooperazione allo sviluppo»; le opere educative, interventi di «educazione, istruzione e formazione professionale, compresa la formazione extrascolastica per la prevenzione della dispersione scolastica».
Tuttavia l’accesso al sistema regolato dalla Riforma per gli Istituti religiosi non può avvenire in modo immediato. Essi appartengono, infatti, al diverso ordinamento, indipendente e sovrano, della Chiesa Cattolica e tuttavia, quando svolgono attività diverse da quelle di religione o di culto, in conformità agli accordi concordatari, sono soggetti alle leggi dello Stato italiano nella misura in cui nell’applicazione della legge statale vengano rispettate la loro struttura e la loro finalità.
Per rispondere a tali esigenze, la Riforma ripropone, con alcune rilevanti modifiche, il modello adottato dalla disciplina precedente in materia di Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus) e comunemente identificato come “ramo” dell’ente ecclesiastico. Secondo tale modello, gli Istituti che svolgono attività di interesse generale possono partecipare al sistema del Terzo settore se rispettano tre condizioni: (1) l’adozione di un regolamento che, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, recepisca le norme della disciplina civile e sia iscritto nei Registri identificati dalla legge; (2) la costituzione di un patrimonio destinato per lo svolgimento dell’attività di interesse generale; e (3) la tenuta di scritture contabili separate. A seconda che il regolamento del “ramo” recepisca le norme del Codice del Terzo Settore o del Decreto sull’impresa sociale, si parla, rispettivamente, di “ramo ente del terzo settore” o “ramo d’impresa sociale”.
Aderendo a tali indicazioni, un Istituto accede al regime del Terzo settore, mantenendo, nel contempo, la propria natura canonica: i beni e le attività destinate al “ramo” rimangono dell’Istituto e trovano applicazione le regole su gestione e controllo previste dal diritto canonico.
Occorre, tuttavia, segnalare che non è ancora chiaro se il patrimonio destinato costituisca una separazione patrimoniale in senso tecnico, così da limitare l’azione dei creditori per il soddisfacimento del proprio credito ai soli beni individuati nel patrimonio destinato. In questa situazione, sussiste, pertanto, la possibilità che l’insolvenza nell’attività di interesse generale svolta dall’Istituto si riverberi sul suo intero patrimonio, così da rendere potenzialmente troppo rischiosa l’adesione al sistema del Terzo settore.
Modalità alternative
Un approccio alternativo è costituito dalla creazione di enti civili qualificati come enti del terzo settore o Impresa sociale da parte dell’Istituto. Tale approccio comporta la costituzione di enti giuridicamente distinti rispetto all’Istituto, ma soggetti alla sua direzione e coordinamento, di regola realizzata mediante la nomina dei relativi amministratori.
Questa soluzione presenta diversi vantaggi: (1) consente di utilizzare la forma giuridica ottimale per le singole attività di interesse generale (anche di tipo societario, nel caso di impresa sociale), soprattutto con riguardo all’amministrazione e alla governance; (2) permette di mantenere i beni “essenziali” in capo all’ente ecclesiastico, così da conservarne la soggezione al regime canonico; (3) realizza una allocazione delle attività e delle passività tra soggetti giuridicamente distinti, isolando ciascun componente dal rischio di insolvenza dell’altro; (4) consente di distribuire gli utili dell’impresa sociale in forma societaria nei limiti previsti dalla legge.
Ma anche questa impostazione non è esente da limiti. Il modello degli enti civili collegati, infatti: (1) comporta una moltiplicazione dei costi di gestione proporzionale al numero dei singoli enti; e (2) non impedisce, in senso assoluto, la responsabilità di chi esercita il controllo, quando ricorrano le condizioni previste dalla legge. Nella prospettiva più specifica degli Istituti, l’adozione del modello può determinare una maggiore distanza tra la gestione dell’attività di interesse generale e le caratteristiche istituzionali o il carisma originario dell’Istituto. Di qui la necessità di una particolare attenzione perché la gestione indiretta dei beni e delle attività sia svolta in modo da assicurare il rispetto delle finalità che hanno determinato la nascita dell’opera.
riduzione
a cura di VINCENZO MARRAS