«Beati i vostri occhi, perché vedono» (Matteo 13,16)
2021/2, p. 28
San Francesco riceve le stimmate. Ciò che è stato più volte narrato e rappresentato, ora avviene di nuovo qui, nel dipinto per altare realizzato nel 1487 dal monaco camaldolese Bartolomeo della Gatta (Piero Dei) per la Chiesa di San Francesco a Castiglion Fiorentino (Arezzo). L’evento straordinario è fissato così dal pittore per i secoli a venire; oggi è possibile apprezzare la qualità dell’opera
nella Pinacoteca Comunale, dove la tavola è custodita.
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«Beati i vostri occhi, perché vedono» (Matteo 13,16)
San Francesco riceve le stimmate. Ciò che è stato più volte narrato e rappresentato, ora avviene di nuovo qui, nel dipinto per altare realizzato nel 1487 dal monaco camaldolese Bartolomeo della Gatta (Piero Dei) per la Chiesa di San Francesco a Castiglion Fiorentino (Arezzo).
L’evento straordinario è fissato così dal pittore per i secoli a venire; oggi è possibile apprezzare la qualità dell’opera nella Pinacoteca Comunale, dove la tavola è custodita. Chi la vedrà penserà ad un primo sguardo che ciò che è rappresentato voglia semplicemente mostrare frate Francesco che riceve le stimmate. Ma è solo così? Forse si può leggere di più, e meglio, soffermandosi sull’immagine.
Ad un pittore rinascimentale, capace di prospettiva tanto da cimentarsi in scorci arditi, non sarebbe stato difficile, volendo, rappresentare convincentemente il peso della gamba piegata del santo che preme il suolo nell’appoggio instabile. Ma qui cosa si vede? Nel momento in cui frate Leone è sorpreso dalla luce dell’apparizione e si ripara gli occhi con una mano mentre con l’altra tiene ancora il segno nel punto preciso della lettura improvvisamente interrotta, Francesco si genuflette con le braccia a forma di croce, e pare far leva sul ginocchio per protendersi meglio verso il Cristo, come se l’incontro fosse atteso. Ma allora, ci si chiede, perché non si vede sagoma di orma calcata con spessore di peso, sul terreno? Semplicemente perché Francesco, pur poggiando sul suolo, non grava su di esso ma lo sfiora con leggerezza, egli infatti sembra levitare. Francesco è definito dal Papa nella lettera enciclica Laudato Si’ come “mistico e pellegrino”. Come non ricordare allora Isaia 52,7: Come sono belli sui monti i piedi di colui che annuncia predicando la pace…
Bartolomeo della Gatta avrà certamente potuto vedere ad Arezzo la grande Croce dipinta che svetta imponente nella basilica di San Francesco. Qui, nel suppedaneo, il Santo sorregge e bacia i piedi trafitti di Cristo. Il sangue del Signore, in straordinari rivoli cromatici, si mescola e si unisce a quello delle stimmate di Francesco, Franciscus alter Christus.
Penso dunque che questo elemento - la levità di Francesco - sia indizio di una precisa volontà espressiva: l’artista mostra tutto, e lo mostra bene, alla luce del giorno, dichiarando con il proprio linguaggio pittorico che il mistero c’è, esiste, e lo si vede appunto alla luce del sole.
Francesco amava la natura in tutti i suoi aspetti, e la contemplava in ogni essere vivente, come creatura partecipante di un’unica origine comune, “per questo chiedeva che nel convento si lasciasse sempre una parte dell’orto non coltivata, perché vi crescessero le erbe selvatiche, in modo che quanti le avrebbero ammirate potessero elevare il pensiero a Dio, autore di tanta bellezza” così narra Tommaso da Celano, citato dal Papa nella Laudato Si’ che aggiunge: “il mondo è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode”.
Giovanni Pozzi nello scritto Sul Cantico di Frate Sole ricorda che la lode è essenzialmente estatica, e appartiene di diritto al discorso mistico.
Il dipinto è dunque una visione lucida, rappresentata classicamente, come un sogno d’arcadia di Cima da Conegliano o un paesaggio belliniano. Ma qui c’è di più, e di diverso.
Qui non c’è solo la dimostrazione di saper praticare l’arte, non c’è solo la ricerca del bello (i pittori rinascimentali perseguono l’esatta resa ottica per misurare con la vista il mondo, ed essere così certi di replicarlo), qui, in realtà partecipiamo all’estasi di luce di una visione che si manifesta in un luogo idealizzato - anche se il riferimento a La Verna è implicito - che più che reale vuol essere vero: e qui è appunto descritto come può essere vero nelle intenzioni rappresentative di un pittore monaco camaldolese.
L’immanenza del divino si manifesta dunque nella credibilità dell’evento eccezionale, in un luogo dettagliatamente e amorevolmente rappresentato nel chiarore dell’alba, nell’aria tersa di primo mattino, giorno limpido di luce nuova.
La mistica visione non è solo tra Francesco e il Cristo, ma tra l’uomo e la natura, tra l’artefice creatore - il monaco pittore - e Dio, misura di tutte le cose. Perché, come ha scritto Martin Buber, “tutto è compreso nella relazione. Entrare nella pura relazione non significa distogliere lo sguardo da ogni cosa, ma vederla nel tu; non significa rinnegare il mondo ma collocarlo nel suo fondamento” (M. Buber, Io e Tu, in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, 1993).
La contemplazione del monaco è analoga a quella del gufo (nel nostro dipinto lo si può distintamente identificare nella specie Tyto alba), nycticorax in domicilio (in riferimento al Salmo 101,7) uccello notturno che solitario e vigile, veglia e osserva. Il faggio e l’abete, come il cardo mariano le cui sagome costellano il prato, ci dicono di un paesaggio boschivo; sulle rocce lontane si possono scorgere dei cervidi.
Nella lettura allegorico biblica camaldolese del Liber Eremiticæ Regulæ i cervi e le gazzelle sono spiriti beati, di angeli e di uomini. “Essi sono tanto rapidi da saltare senza difficoltà o indugio tra gli opposti, tanto perspicaci da vedere Dio, tanto ricercati da nutrirsi di cibo celeste, gustando e vedendo quanto dolce è Dio”.
In pittura, alla fine del Duecento, nella rappresentazione della stimmatizzazione avviene un cambiamento molto importante. Dall’essere figura sovrannaturale il serafino assume l’aspetto di Cristo come uomo crocifisso; è Cristo, coperto dalle ali dell’angelo, che appare a Francesco in tutta la sua umanità nell’affresco di Giotto nella Basilica superiore ad Assisi. Il serafino, in Bartolomeo della Gatta, è posto ai piedi di Gesù, quasi come per offrirgli un appoggio di sé e alleggerire così la sua sofferenza in croce.
Un detto recita che se una formica nera in una notte nera è posta su un masso nero, Dio la vede e l’ama. Se la luce abbaglia, e il lumen diventa numen e lustra le cose in smalto e le pettina in oro, Dio le vede e le ama.
Francesco è trafitto, segnato, va incontro a quel Cristo che pare una rondine, la gioia dell’incontro non è solo un tendere verso ma un desiderio di procedere oltre.
ALESSANDRA RIZZI