Angelini Maria Ignazia
La preghiera, il paradosso fondamentale
2021/2, p. 14
Se l’esperienza originaria della preghiera avviene come il dischiudersi della constatazione, un po’ smarrita e un po’ sorpresa: “Non sappiamo pregare” (Rm 8,26-27), ebbene: tale smarrimento si rivela porta di accesso alla grazia.

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La preghiera, il paradosso fondamentale.
Se l’esperienza originaria della preghiera avviene come il dischiudersi della constatazione, un po’ smarrita e un po’ sorpresa: “Non sappiamo pregare” (Rm 8,26-27), ebbene: tale smarrimento si rivela porta di accesso alla grazia.
È – infatti - vedendo Gesù, il Figlio, pregare che i discepoli impararono la via paradossale dell’invocazione inaudita: Abbà!
Così, attraverso la pratica della sequela del Figlio che ci insegna che entrando nella sua preghiera si va di stupore in stupore, e si schiude il segreto della preghiera. La preghiera è paradosso. E Gesù l’ha resa (Eb 5,7) il paradosso fondamentale, da cui prende senso ogni concreta espressione di vita cristiana: esistere alla Presenza.
È anzitutto gemito (Rm 8,23) – cioè quel vissuto della mancanza che si scioglie in anelito, in ricerca di respiro: al gemito fragile della creatura umana accorre in aiuto lo Spirito di Dio: la preghiera si fa “spirito” (Gv 4,23s.). Spirito non è la parte superiore dell’uomo ma il Soffio ricevuto da Dio che rende l’essere umano singolarmente vivente. I discepoli, attingono questo Soffio da Gesù in preghiera, e compiutamente lo ricevono da Gesù innalzato sulla croce e risorto. Prima della Pasqua, essi semplicemente vedono con stupore Gesù pregare e dinanzi alla sua preghiera sono in silenzio, domandano, gridano (Mc 6,46.49) o addirittura si assopiscono (Mc 14,37), piangono (Lc 23,62). Dopo la Pasqua essi diventano oranti: “… stavano sempre in preghiera, lodando Dio” (cfr. Lc 24,53; At 2,42).
Ma come pregano? Qual è il loro pregare?
Preghiera è anzitutto offerta del corpo: stavano insieme, alzavano le mani, si scioglievano in lacrime; in Stefano, aggredito, la preghiera si fa semplicemente alzare gli occhi e vedere il cielo aperto; in Saulo si fa un cadere a terra (At 9,4; 22,7; 26,14). La preghiera inizia dal corpo che entra nello “spazio Gesù” (B. Standaert). Molte posture, nessuna postura. È mani alzate, è mani giunte, è mani tese, è mani che portano in sé l’intelligenza delle cose. Preghiera è stare ritti in piedi, è chinarsi sul grembo, è accarezzare. È prostrarsi nell’adorazione. È farsi corpo orante. Come l’emorroissa, guarita senza parole: nel suo chinarsi a toccare il lembo è essa stessa corporalmente preghiera. Come il pubblicano al tempio, che non diceva quasi nulla, ma stava in fondo (Lc 18,8).
Prima di essere partorita in parola, la preghiera è portata in grembo. Preghiera è il corpo vissuto come grotta per Dio che nasce “nel segreto” (Mt 6,6). La preghiera è gravidanza del senso e riconoscimento della Presenza. Ce lo rivelano i primi discepoli, e lo confermano i primi monaci del deserto egiziano: “Raccontavano di Arsenio che di sabato sera, quando già si annunciava la domenica, volgeva le spalle al sole che tramontava e stendeva le mani al cielo nella preghiera, finché di nuovo il sole gli risplendeva in viso. Allora soltanto si metteva seduto” (Arsenio, 30).
Prima che riti, parole, luoghi e tempi, i discepoli ricevono lo Spirito che – ricordando loro Gesù (Gv 14,26) - in loro scava l’offerta del corpo: geme, invoca, grida, sorride, canta (Rm 8; Gal 4,6; 1 Cor 12,3).
Ma come educare il corpo alla preghiera, a divenire “offerta viva” (Rm 12,1)?
La prima generazione cristiana scopre come esperienza fondativa la preghiera dei Salmi (Col 3,16). I Salmi, non superati ma assunti come preghiera “in Gesù”, acquistano nell’esperienza cristiana verità “colmata di senso” (At 4,25-26), plasmano il culto in spirito e verità, nel tempio vivo del corpo. Pregano, così, subito i discepoli: nel tempio o nelle case - non importa - a partire dall’esperienza della persecuzione o in relazione a una scelta da compiere, il corpo assume la postura del pregare.
È un atto singolarmente innovativo quello per cui la Chiesa delle origini si afferra ai Salmi. Chi prega, nei Salmi, è l’umano nella sua nudità primigenia – è il povero, è il giovane eletto da Dio nella sua totale inadeguatezza, minorità, che si afferra al “suo” Dio (Sal 18,2-3). E nel suo corpo mortale, ferito da mancanza, da persecuzione, da dolore, da desiderio, la creatura umana resa figlia nel Figlio prega “alzando mani pure” (1 Tim 2,8).
I Salmi sono riscoperti nella fede cristiana nella loro forza generativa: “radice, non frutto” (Isacco il Siro), essi implicano una iniziazione attraverso cui plasmare una coscienza “corporea” (non fisica) della presenza di Dio:
“Sono fissi al Signore gli occhi miei per sempre,
con lui a fianco, incertezza non scuote.
Gioiscono cuore e sensi per questo e tripudiano:
tutto il mio essere riposa sicuro (...)
solo gioia lo starti vicino” (Salmo 16[15), 8-10, tr. Turoldo).
E di generazione in generazione, sono consegnati a noi. Sono come il vivente strumento per dare forma corporea, spirituale, a un sentimento primordiale: Dio è nella nostra storia, ma altrove dalle nostre proiezioni fantastiche, altrimenti dai nostri pensieri. Isacco Siro scrive, con rara efficacia: “Dolore per Dio è la preghiera, o – piuttosto – le parole magnifiche e i gravi moti che la preghiera genera nella mente, e colui il cui cuore si accende e brucia in questi pensieri, la sua mente, … pregare, prega anche uno che non sia in stato di consapevolezza, e tutti i suoi moti sono preghiere stupende che riposano in Dio e la sofferenza del suo cuore assolve in lui la funzione della croce”.
Ebbene, custodita in questa radice ultima della preghiera, scopriamo i Salmi che sono preghiera intessuta con le nostre viscere, come scrive André Chouraqui: “Noi nasciamo con questo libro nelle viscere. (…) Centocinquanta gradini eretti tra la morte e la vita; centocinquanta specchi delle nostre rivolte e delle nostre fedeltà, delle nostre agonie e delle nostre risurrezioni. Più che un libro, un essere vivente che parla, che ti parla, che soffre, che geme e che muore, che risorge e canta, sul limitare dell'eternità e ti prende, e trascina te e i secoli dei secoli, dall'inizio alla fine... Nasconde un mistero, perché le età non cessino di ritornare a questo canto, di purificarsi a questa sorgente, di interrogare ogni versetto, ogni parola dell'antica preghiera, come se i suoi ritmi scandissero la pulsazione dei mondi. (…)”.
I salmi, dunque sono la radice – ahimè, dimenticata - del pregare cristiano: ci insegnano a dare soffio di preghiera a ogni umano sentire. Fino a che ce ne immergiamo quasi ne fossimo autori, come avessimo creato noi stessi questi antichissimi testi di preghiera.
E tuttavia, il cammino della preghiera non si arresta qui. Lo stesso Salmo conduce a un “oltre”. Quando la supplica, il lamento, l’invocazione, l’azione di grazie, la lode, toccano il culmine: allora accade questa paradossale esperienza: “sono ridotto al nulla e nulla so / ma sempre sono con te” (Sal 73,22-23); “a te il silenzio è lode” (Sal 65,1); “… e io sono preghiera” (Sal 42, 9; Sal 109,4).
Isacco di Ninive, parlava di “preghiera senza preghiera”. È come quando ci si mette la mano sulla bocca: “ad-orazione” (derivato da “ad os”: mano sulla bocca). E qui si profila un nuovo capitolo, che tutti gli altri riassume: paradosso ultimo, che rigenera l’origine – il corpo fatto preghiera. Ce lo ha richiamato di recente la testimonianza del missionario Pierluigi Macalli, sulla sua esperienza di sequestro nel deserto del Mali.
MARIA IGNAZIA ANGELINI
monaca osb del Monastero di Viboldone